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Libri

Libri, personaggi Ottobre 3, 2016

Elena Ferrante c’est moi

Il mistero Ferrante è ben altro, non c’è scoop che tenga. La prima domanda che ci siamo fatte leggendola non è mai stata: “chi sei?”, ma “chi sono io?”. L’anonimato ha facilitato questo travaso. Una sola carne, tra chi scrive e chi legge

Libri, Politica Aprile 16, 2015

Nel suo “memoir” Giuliano Pisapia regola i conti. E apre la campagna elettorale

Giuliano Pisapia è sempre stato un garantista, e nel suo libro “Milano città aperta” uscito proprio oggi da Rizzoli spiega dettagliatamente il perché, compresa un’esperienza personale di ingiustizia che lo ha segnato profondamente. La sua tenuta sui diritti, dalle coppie di fatto al fine vita, è insieme ad area C e all’intervento sul traffico giustamente premiato dall’Ocse l’eredità più significativa che lascia a Milano. Le pagine sul suo lavoro di avvocato e di giurista sono le più belle.

Ma scrivere un memoir in corso d’opera, a più di un anno dalla fine del mandato, mentre stai ancora giocando, non sembra molto opportuno. In genere si attende di essere davvero fuori dal recinto di gioco, o quanto meno di avere smesso la casacca, altrimenti si dà l’idea di voler continuare a giocare nel ruolo di arbitro: una specie di auto-amoveatur ut auto-promoveatur. Per esempio, molti ritengono, al ruolo di leader di quella coalizione sociale che potrebbe diventare la nostra Podemos.

Anche le pagelle su assessori e compagni di strada (da Pierfrancesco Majorino, a cui si rimprovera di avere “attaccato con rudezza la mia compagna“, a Carmela Rozza, al veterano Basilio Rizzo) non renderanno certo più facile il lavoro di giunta nel prossimo anno. Per non parlare dell’imbarazzante rancore fuori tempo massimo nei confronti dell’ex-competitor Stefano Boeri, già fatto fuori in tutti i modi possibili. Tra l’altro un bel po’ delle cose di cui il sindaco si fa giustamente un vanto, da BookCity a PianoCity al nuovo skyline di Porta Nuova, le ha fatte proprio Boeri, e sarebbe stato carino riconoscerlo*. Pisapia, insomma, è già in campagna elettorale e sembra voler indicare nome e cognome quelli che, a suo parere, devono proprio togliersi dalla testa di prendere il suo posto. 

Chi ha esercitato un potere raramente abdica senza voler continuare a segnare di sé quello che verrà in seguito: è una cosa normale, capita sempre così, specialmente agli uomini, che tendono a voler mantenere il controllo del territorio. In questo senso il libro di Pisapia, più che un commiato, si presenta come un manifesto programmatico.

Infine, se si può dire, il tono del libro appare un tantino autocelebrativo: un commosso ricordo della rivoluzione arancione alla quale, sempre se si può dire, hanno partecipato anche moltissimi milanesi, circa la metà, che non tifavano affatto per lui. Insomma, come dice una mia amica e maestra quando mi inorgoglisco di qualcosa di buono che ho fatto: “Non sei stata tu. E’ stato lo Spirito Santo”. E’ stata la città a “liberarsi”, se vogliamo ricorrere a questa retorica, erano i tempi a essere maturi. Attribuirsi tutti i meriti pare un po’ esagerato. La svolta non è avvenuta perché c’era Pisapia. Diciamo che Pisapia ha potuto esserci perché la città voleva svoltare.

Infine, qualche sfumatura autocritica non avrebbe guastato: Pisapia dice di passare molto tempo della sua giornata a girare la città. Gli sarà capitato di vedere in che stato si trova, appena fuori dalla seconda circonvallazione, e magari anche dentro: buche, sporcizia, abbandono. Cose su cui si potrebbe anche pazientare, visto il deficit di bilancio ereditato. Se non fosse che in quelle buche, in quel degrado, potrebbe piantare i suoi semi una destra aggressiva, pronta a spazzare via qualunque sfumatura di arancione.

* dimenticavo il Museo dei Bambini. Anche il Muba l’ha fatto lui, mica Boeri…

 

 

Corpo-anima, Donne e Uomini, Femminismo, Libri Maggio 21, 2014

Il corpo non è (solo) mio

Ecco un post di Ida Dominijanni che potrebbe esservi sfuggito e che ragiona con molta intelligenza sulla questione che io avevo posto qui  (nota come diatriba tra femministe moraliste e immoraliste).

Ida cita la femminista americana Judith Butler, il cui percorso andrebbe osservato con grande attenzione. In particolare si riferisce a quel passaggio in cui Butler problematizza “il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”.

Alcuni giorni fa, commentando il libro di Annalisa Chirico “Siamo tutti puttane”, un’amica scriveva amaramente Cara Marina, in giro c’è molto impazzimento e ci sono anche molte “figlie degeneri” del femminismo, inconsapevoli e consapevoli. Il libro della Chirico è il frutto impazzito del mito dell’autodeterminazione, anche per come la nostra generazione l’ha  elaborato e risputato“.

Mi pare che la mia amica e Dominijanni-Butler stiano dicendo qualcosa di molto simile.

Affermare “il corpo è mio” è stato necessario per dire che finalmente non era (più) proprietà di altri, e segnatamente del patriarca che ne disponeva. Voleva dire “il mio corpo non è tuo”, ed era la libertà di significare il proprio destino e la felicità del proprio desiderio (festosamente praticato, assicuro). Ma, più a fondo, significava che il corpo non poteva essere più pensato come oggetto né strumento per nessuno, nemmeno per noi stesse che lo “gestivamo”.

Dicendo ”il corpo è mio e non è mio”, Butler esplora questo fondo e rompe con l’inganno dell’individuo assoluto, ovvero sciolto da ogni legame e titolare di bellicosi diritti, fra cui quello di pensare il proprio corpo come strumento di una volontà immateriale che ne dispone. E assumendo che ciò che chiamiamo io è immediatamente in relazione, non esiste un solo momento in cui non lo sia. Che fuori dalla rete di relazioni che lo definiscono e lo contengono, nel bene e nel male, l’io non è. E che quello che faccio del mio corpo non riguarda solo me.

(forse oggi diremmo “il corpo sono io”, pur maneggiando con cautela sia il concetto di corpo sia quello di io).

A partire da queste considerazioni potrebbe forse riaprirsi il discorso sulla prostituzione, come fenomeno e anche come paradigma: in questo modo ci viene proposto da Chirico che, scrive Dominijanni, “associa il mito femminista dell’assoluta proprietà del corpo alla precettistica neoliberale dell’autoimprenditorialità e dell’autosfruttamento del proprio capitale umano, corporeo e sessuale. Siamo infatti precisamente a questo punto… al rischio della completa sussunzione della libertà femminile nella libertà di mercato“.

Per dirla alla buona: il corpo è mio e lo gestisco secondo le leggi di mercato.

Un nuovo discorso sulla prostituzione in effetti sembra piuttosto urgente: girano svariate proposte di legge accomunate dall’insofferenza alla legge Merlin, e che tendono non solo a normare e regolamentare, ma anche a “normalizzare” il sesso a pagamento come modello naturale delle relazioni tra i sessi.

Fra le tante cose scritte da Chirico -molte delle quali ibrido di furbizia e disinformazia: anche la propria intelligenza può essere gestita secondo le leggi di mercato- il vero colpo al cuore me l’ha dato vedere nominata Roberta Tatafiore. Che del suo corpo e della sua sessualità ha fatto, come direbbe Etty Hillesum, campo di battaglia. E non per partecipare a buchmesse o a talkshow, non per le leggi di mercato o per fare carriera, ma per amore dell’umano. E fino al suo ultimo respiro.

 

Donne e Uomini, Libri, media, Politica Maggio 14, 2014

Il fascino discreto del puttanismo

 

Annalisa Chirico, autrice di “Siamo tutti puttane” (a sinistra) e l’ormai immancabile Paola Bacchiddu, stranissima capa comunicazione della Lista Tsipras

Ci ho riflettuto un po’: ignorare? Poi ho pensato che di libri se ne vendono talmente pochi che anche quello di Annalisa Chirico non farà eccezione, e non sarà certo il fatto che ne scriva io a cambiarne la sorte. Quello che conta è l’indotto, il marketing: anzitutto il titolo, i passaggi in tv, il nome che circola, la firma che si consolida. E questo indotto è ormai assicurato, e il dibattito scatenato. Nel nostro Paese pornofilo e morbosetto il titolo “Siamo tutti puttane-Contro la dittatura del politicamente corretto” basta e avanza per fare il caso (lo sto ancora aspettando da Marsilio, non sono in grado di entrare nel dettaglio, mi riprometto di farlo: ma non voglio rimandare un post sul puttanismo con la sua vistosa fenomenologia).

L’ambizione femminile è sacrosanta –anche se troppa no- specialmente quando ci sono delle qualità: Chirico è una brava giornalista di nemmeno trent’anni, formazione radicale e libertaria, si è occupata molto di carceri e di giustizia, temi che non assicurano un’audience vastissima anche quando sei molto capace. C’è un orologio biologico anche nelle professioni, e a un certo punto devi svoltare. Il sistema mediatico resta saldamente in mani maschili, e non c’è niente che piaccia di più agli uomini di una donna che ammetta in modo complice il connaturato puttanismo femminile (con l’ovvia eccezione delle loro madri, mogli e sorelle), cioè quella disposizione a offrire il proprio corpo in cambio di vantaggi materiali: soldi, carte di credito, una macchina, un appartamentino, ma oggi soprattutto una carriera (l’emancipazione qualche variazione sui benefit l’ha apportata).

Non è una esattamente una notizia. Ci sono sempre state quelle che del loro corpo hanno ampiamente approfittato, anche nel nostro mestiere: potrei fare una sfilza di nomi e cognomi (ma mi querelerebbero) di colleghe che si sono aggiudicate una carriera, in genere piuttosto modesta e a termine, offrendosi ai loro capi. Sul momento, sarà capitato anche a Chirico, la cosa può innervosire, specie se sei più brava di loro. Ma portarsi addosso quello stigma –tutti sanno tutto- è una grande fatica. E se vali poco, poco continui a valere, specie quando il naturale sfiorimento fisico diminuisce le tue opportunità.

Ma l’avvento della libertà femminile, grazie alle madri di tutte noi –pure di Chirico- ha diminuito enormemente la necessità di ricorrere a certi espedienti per campare o per vivere bene. Possiamo guadagnarci il pane, non siamo più obbligate nemmeno a quel minimo fisiologico di puttanismo necessario a trovare un marito. Il corpo femminile può godersela senza doversi dare in-cambio-di. Quindi il puttanismo -sempre lecito, per carità- diminuisce in necessità e quantità (parlo dell’Occidente). Il titolo del libro sarebbe “Siamo sempre meno puttane” (e poi l’anti-political-correctness è roba veramente stravecchia, oggi va di più quel minimo di correttezza). Perché poi doversi dare in-cambio-di raramente è un’esperienza piacevole, specie se coatta, e se possiamo farne a meno è meglio. E’ quello che oggi la stragrande maggioranza di noi madri del West -che stranezza!- insegna alle figlie: NON essere puttane, perché grazie a Dio non ce n’è alcun bisogno per essere libere. E che questo sia un male, be’, è difficile sostenerlo. Il mondo va alla rovescia, ma non così alla rovescia. Per un bel po’ di anni questa pedagogia gentoriale minima ed essenziale ha dovuto vedersela con un bombardamento in senso contrario (corpo in cambio di merce), e non è poi così strano che adesso si pretenda di tenere piuttosto rigorosamente il punto, come in qualunque convalescenza o dopo qualunque eccesso.

Naturale che agli uomini la diminuzione della necessità puttanistica dispiaccia, perché diminuisce il loro potere d’acquisto. Anche la Bestia poteva possedere la Bella, remunerandola adeguatamente. E oggi c’è una quantità crescente di Belle e di Bellissime che non hanno bisogno di nessuno e fanno il gesto dell’ombrello. Qualunque cosa rassicuri gli uomini su questo fronte, per esempio garantire che sotto-sotto o sopra-sopra senza di loro non ce la caviamo, e che siamo sempre disponibili a essere carine, scatena le loro festose ole. Ma questa è una notizia priva di fondamento. Questa è una bufala, detto fra colleghe. La buona novella è che siamo sempre meno necessitate a essere puttane. A me pare buona, almeno.

Catturare l’audience vellicando l’orgoglio maschile ferito, in particolare nelle sue parti basse, non mi pare una strategia strepitosa. Al momento fai il botto, tutti i talk ti vogliono, entri a far parte del girone dei visibili e questo può dare una certa ebbrezza. Ma che io sappia queste cose hanno le gambe corte. E il down può essere bruttino. Attendo comunque il libro per entrare nel merito dei suoi argomenti.

Approfitto dell’occasione per tornare rapidamente sulla vicenda culo-Tsipras: dopo l’ormai celeberrimo e “geniale” bikini con relative gallery, la capa-comunicazione di Tsipras Paola Bacchiddu ritiene di non demordere e anzi rilancia, scattandosi un bel selfie con il libro di Annalisa Chirico. Dunque, vediamo, perché mi pare ci sia un bel po’ di confusione: la capa comunicazione della lista Tsipras sostiene Chirico, berlusconiana fervida e apertamente schierata, nientemeno che contro Barbara Spinelli, che della lista Tsipras è fondatrice e candidata, oltre che contro altre “veterofemministe” di cui la lista Tsipras presenta un discreto campionario,

Qualcuno spieghi a Paola Bacchiddu: a) che il compito di un ufficio stampa è dare visibilità al suo “cliente” -e non a se stesso- restando dietro le quinte   b) che normalmente un ufficio stampa sta dalla parte del cliente, e non dei suoi antagonisti dichiarati   c) che di fare la comunicazione di Tsipras non gliel’ha ordinato il dottore.

Ma magari sbaglio io. Sono tempi strani.

 

Aggiornamento venerdì 16 maggio:

il libro mi è arrivato, l’ho letto. Per fortuna è uno di quei libri che, diciamo così, si recensiscono da soli: temo che davvero con parole mie  non gli farei un buon servizio. Mi limito a riportarne alcuni passaggi significativi, che possono dare un’idea del tutto.

“ditemi chi tra voi non si sente un po’ puttana, suvvia, almeno un po’”.

“Siamo tutti puttane è un grido di coscienza, un’affermazione disinibita del sacro e inviolabile diritto di darla per interesse o per convenienza”.

“La differenza cruciale tra una puttana e una moglie sta nella durata”.

“Drive In è stato un autentico romanzo di formazione”.

“Le veterofemministe relegano la donna al ruolo di angelo del focolare”.

“Berlusconi… rivendica il diritto a una sfera privata ingiustamente violata”.

“Queste ragazze (quelle dei festini di Arcore, ndr) non si allineano al pensiero unico femminista, anzi lo sfidano a viso aperto, con una borsa in mano e un collier di perle intorno al collo”.

“Il vibratore… è una formidabile invenzione maschile pensata per le donne”.

“Consentire a qualcuno di vendere sesso è un atto altamente morale perché non abbiamo tutti le medesime possibilità di accesso al rapporto sessuale”.

“La prostituzione consente di migliorare la propria capacità di reddito indipendentemente dal punto di partenza”.

“Ritengo che la prostituzione possa essere un’opzione più che desiderabile… per un calcolo di utilità e di convenienza”.

“Il commercio sessuale serve a tenere in vita il matrimonio”.

“Provo un’autentica stima per la figura di Lina Merlin. Ciò non attenua però il giudizio negativo sulla legge che porta il suo nome”.

“La Donna Qualunque sa di essere seduta su un’impareggiabile fortuna”.

 

Non ho altro da aggiungere.

Donne e Uomini, femminicidio, Libri, personaggi, questione maschile Settembre 29, 2013

Stupro: la pena di morte non serve. Parla Urvashi Butalia

La scrittrice ed editora indiana Urvashi Butalia

“La pena di morte non servirà a fermare la violenza. Anzi, potrebbe aumentare il rischio per le donne”: lo dice la scrittrice ed editora indiana Urvashi Butalia  intervenendo nell’ampio dibattito che si è aperto dopo la condanna alla pena capitale per gli stupratori e assassini di Jyoti Singh Pandey, la studentessa di 23 anni morta dopo 13 giorni di agonia in seguito alle violenze di branco subite su un bus di New Delhi, il 16 dicembre 2012.

Butalia è una scrittrice, storica ed editora indiana. Ha fondato la prima casa editrice femminista in India, “Kali for women”, e attualmente dirige Zubaan, che si occupa prevalentemente di temi di genere. E’ in prima linea nel movimento delle donne indiano. Ha lavorato molto sull’emancipazione delle donne dei villaggi, indagando sui crimini commessi contro di loro durante le guerre di separazione.Ha scritto tra  l’altro Speaking Peace: Women’s Voices from Kashmir (Zed Books 2002) e The Other Side of Silence: Voices from the Partition of India (Penguin 2000), ottenendo  numerosi premi e riconoscimenti.

Il prossimo 4 ottobre, ore 16, Urvashi Butalia parteciperà al Festival di Internazionale a Ferrara, giunto alla sua settima edizione, discutendo con le giornaliste Mona Eltahawy (Egitto), Chouchou Namegabe (Congo) e con la saggista femminista americana Rebecca Solnit sul tema “La guerra contro le donne. La violenza di genere, un’emergenza globale” (moderatore Riccardo Iacona).

In seguito allo stupro e alla morte di Jyoti Singh Pandey il tema della violenza sessista è posto al centro del dibattito politico e sociale in India. Secondo Eve Ensler, autrice dei “Vagina Monologues” e frequentatrice abituale del Paese, addirittura il tema politico centrale per la società indiana.  Chiedo a Butalia se è così:

 “Non mi pare” dice. “Il problema ha certamente assunto grande rilevanza per via della pressione dell’opinione pubblica e dei gruppi di donne. Ma in India ci sono questioni politiche non meno importanti: la povertà, la democrazia. C’è anche la questione di genere: non solo la violenza, ma la diseguaglianza tra i sessi”.

 Violenza che è effettivamente in aumento? O a crescere è la sensibilità alla questione?

Difficile dirlo. A Delhi dall’inizio di quest’anno il numero dei casi di violenza e di stupro è molto cresciuto. Ma è anche vero che è cresciuto il numero di donne che ha la forza di denunciare. La sensibilità al problema si è certamente acuita in tutto il Paese. La gente oggi ha ormai ben chiaro che gli stupri non hanno niente a che vedere con il modo in cui ti vesti o con il fatto che rientri tardi la sera. E che chiunque può esserne vittima, perfino avere un uomo accanto non è una protezione sufficiente. Nelle realtà urbane se ne parla anche a scuola: studenti, insegnanti e genitori che si confrontano sulla necessità di un’educazione sessuale. Ciononostante certi tipi di stupro, per esempio quelli a opera di militari nel Kashmir e nell’India di Nordest, regioni in cui l’esercito gode di un particolare status, non ricevono sufficiente attenzione. Su questi temi il movimento delle donne sta lavorando da tempo e continua a farlo”.

Abbiamo visto i festeggiamenti davanti al Saket Tribunal di Delhi dopo la sentenza di morte per gli stupratori di Jyoti Singh Pandey. Per molte femministe indiane, come la giornalista Shoma Chaudhury, la pena di morte non è tuttavia la soluzione. Che cosa ne pensa?

“Tutti hanno parlato di quei festeggiamenti. Ma quanta gente c’era a festeggiare? Un centinaio di persone? Duecento? Di sicuro non migliaia. Era un piccolo gruppo, fondamentalmente la famiglia della ragazza che, comprensibilmente, sperava in una sentenza severa. Nessuno però ha riferito delle molte manifestazioni contro la pena di morte, dei dibattiti, della campagna per abolirla. E’ su questo che si dovrebbe porre attenzione. Anch’io credo che la pena di morte non sia la soluzione, come praticamente tutte le femministe indiane. La vendetta o la cultura della punizione non possono essere la risposta, anche se è comprensibile che alle vittime e i loro cari appaiano come la sola forma di giustizia accettabile. Ma non c’è posto al mondo in cui la pena capitale abbia funzionato come deterrente. Non abbiamo alcuna garanzia del fatto che sia questa la strada per fermare la violenza. Anzi: se lo stupro fosse punito con la morte, aumenterebbero le probabilità che i violentatori uccidano la vittima per non essere identificati. Quindi, paradossalmente, la pena di morte farebbe crescere il rischio per le donne. Inoltre in tutto il mondo, non solo in India, la maggior parte degli stupri avviene tra le mura di casa o comunque a opera di persone conosciute. Se la violenza sessuale fosse punita con la morte, ben poche donne troverebbero il coraggio di denunciare qualcuno con cui hanno una relazione affettiva o convivono, e il silenzio sarebbe ancora più grande. Infine, se la pena fosse così severa, ci sarebbero ben poche condanne… quanti giudici si sentirebbero di mandare a morte un uomo? Capita già, e in tutto il mondo (insisto, non si tratta di un problema solo indiano), che i giudici consentano agli imputati per violenza di levarsi d’impiccio con ogni genere di giustificazioni, e comminino pene di lieve entità: se ci fosse la pena di morte questo capiterebbe molto più spesso. In India attualmente ci sono circa 300 condannati a morte, ma negli ultimi 10 anni solo in 3 o 4 casi la sentenza  è stata eseguita, e tutti lo sanno: come può il governo ritenere che la pena di morte sia un deterrente?”.

 I dati parlano di una situazione molto difficile per le Indiane: il Paese si colloca al quarto posto nella classifica dello “Stato peggiore dove nascere donna” dopo Afghanistan, Congo e Pakistan. E al primo posto per il numero di spose bambine. Quali sono gli obiettivi su cui sta lavorando il movimento femminista indiano?

 “La situazione è dura, ma non in modo così uniforme. E perfino in mezzo a simili difficoltà molte donne indiane riescono a fare cose meravigliose. L’India è un grande Paese, ci sono situazioni di ogni tipo, è come se vivessimo in molti secoli allo stesso tempo. Grazie a una legge del 1992 nei villaggi e nelle città ci sono un milione e duecentomila donne elette in posizioni di potere politico che stanno facendo un magnifico lavoro per migliorare la condizione di vita dei poveri nei villaggi. In nessun altro luogo del mondo esiste una simile forza politica! Perché allora ci limitiamo a parlare dei problemi delle indiane? Abbiamo molte importanti aziende, specie nel settore informatico, in cui il 50 per cento del personale è costituito da donne. Ci sono donne alla guida di importanti industrie, di tre fra le maggiori banche farebbe pubbliche e private indiane, HDFC Bank, ICICI Bank, The New Bank of India. Ci sono indiane che pilotano aerei (in una linea privata il 50 per cento dei piloti è di sesso femminile), che guidano taxi e camion… potrei continuare all’infinito. Eppure nessuno ne parla, specialmente sui media internazionali. Si parla solo delle cose che non vanno, mai di quelle che vanno. E’ facile vedere l’India come un paese terribile per le donne. Più difficile guardarla come una nazione complessa, dove il bene e il male coesistono e dove molte voci si sono levate contro lo sfruttamento e la violenza”.

Quali sono le principali differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale?

 “Diversamente da molti altri paesi abbiamo un forte movimento che lotta per i diritti delle donne, e che ha saputo cambiare molte leggi. Quanto meno non nascondiamo le cose sotto il tappeto. Le statistiche sugli stupri sono molto peggiori in America che in India. Ebbene: quand’è stata l’ultima volta negli Stati Uniti si è manifestato contro la violenza? E chi ne sta parlando? Nemmeno in Italia i dati sulla violenza sono confortanti: quando c’è stata l’ultima manifestazione sulla violenza nel vostro Paese? E il vostro movimento delle donne ne parla a sufficienza? Se ci si chiede quando c’è stata l’ultima manifestazione in India, non si va molto indietro nel tempo. Noi parliamo dei nostri guai, non li nascondiamo. E non puntiamo l’indice contro altri Paesi dicendo che il problema sta lì e non qui. Non ho visto molti altri fare questo. Tornando alla domanda: sì, ci sono differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale. Tutti i movimenti femministi si radicano nelle realtà politiche e storiche locali, e vale anche per l’India. La lotta del femminismo indiano non è separabile dalla lotta per i problemi più pressanti del paese. Non si possono ignorare la povertà, la globalizzazione nei suoi aspetti negativi (e positivi), la questione della salute delle donne, dell’educazione e dell’alfabetizzazione, della mancanza di cibo, e via dicendo. Forse la questione che non ha confini è proprio la violenza contro le donne, che nelle varie culture può assumere forme diverse. Ci sono differenze ma anche somiglianze che permettono di connettere le donne di tutto il mondo. A distanziarci semmai è il fatto che noi femministe indiane non presumiamo di poterci pronunciare sulle realtà degli altri, e non riteniamo di sapere che cosa sia giusto o sbagliato per gli altri. Non pensiamo al femminismo come a una gara in cui certi paesi sono in vantaggio rispetto ad altri, né che la strada per l’emancipazione debba essere la stessa per tutte. La cosa più importante da comprendere per una femminista è la differenza, contro ogni logica gerarchica. Per questo non sentirai mai una femminista indiana dire: “Le cose vanno storte in quel posto”, mentre sentirai spesso un’americana o un’europea dire “le cose vanno molto male in India”, come se i guai fossero solo qui e non nei loro Paesi. Mi spiace insistere su questo, ma è un problema che sento molto”.

Per molte indiane di successo il fattore decisivo è stato l’autorizzazione paterna a studiare e a emanciparsi. E’ andata così anche per lei?

 “Direi che ciò che conta è l’autorizzazione di entrambi i genitori. Nella nostra cultura i vecchi sono molto ascoltati. I miei sono stati molto incoraggianti e aperti. Così come non mi hanno imposto di sposarmi, non hanno mai deciso quale mestiere dovessi fare. Quando ho cominciato a lavorare nell’editoria guadagnavo molto meno di quanto avrei potuto intraprendendo altre professioni. I miei genitori dissero semplicemente che se era questo che volevo fare, per loro andava bene. Penso di essere stata fortunata”.

L’India, come dicevamo, ha il primato delle spose-bambine, ma forse anche il primato negativo delle single e delle donne senza figli, che sono pochissime. Lei stessa ha scritto sulla sua condizione di childless…

 “Il matrimonio è una tappa importantissima nella vita di un’indiana. Anche se le nozze delle bambine sono vietate dalla legge, proprio per questa centralità del matrimonio molte famiglie fanno comunque sposare le loro figlie in giovanissima età. Il governo e i gruppi femministi stanno facendo del loro meglio per affrontare il problema. La grande importanza del matrimonio spiega anche il bassissimo numero di single, anche se ci sono molte donne che vivono sole perché il marito è emigrato in città, o perché sono rimaste vedove o sono state abbandonate. A causa della povertà e dell’analfabetismo poche accedono al divorzio: spesso non sanno nemmeno che è possibile. Tuttavia oggi esiste una piccola percentuale di donne, scolarizzate e spesso privilegiate, che sceglie di non sposarsi. Il fenomeno non è esteso, ma è comunque significativo e ormai visibile nelle realtà urbane. Io per esempio sono sempre stata single. In India questo non mi ha mai creato problemi. L’unica volta che ho sentito la mia condizione come svantaggiosa è stata nei due anni che ho trascorso in Gran Bretagna, ormai quasi trent’anni fa. Ero giovane e tutti si aspettavano che fossi in coppia. C’era sempre un certo imbarazzo tra gli amici quando si trattava di invitarmi a cena, perché si doveva essere pari e non sapevano come regolarsi con una single. Per loro era più facile comprare 4 bistecche che 3, a quanto pare! Pensavano anche che in quanto single io fossi infelice. E’ l’esatto contrario. Invece in India, ribadisco, problemi non ne ho mai avuti”.

 Su che cosa sta lavorando, ultimamente?

 “Non ho tempo per scrivere, purtroppo. Sono troppo occupata come editore. Ma ho appena finito di curare “Reader on India”, antologia di scritti sulla storia, la cultura e le politiche in India dall’antichità a oggi. Sarà pubblicato anche negli Stati Uniti dalla Duke University Press. Il mio prossimo progetto, già quasi ultimato, è un libro sulla vita di un transgender, una hijra: i temi della sessualità, della cittadinanza e del genere visti attraverso la vita di questa persona. Spero poi di poter finalmente scrivere un libro sulla casa di mio nonno in Lahore, e su mia nonna che fu costretta in quella casa dopo la Partition, la guerra di separazione dl sub-continente indiano alla fine degli anni Quaranta, nonché costretta a convertirsi all’Islam. Mi piacerebbe trovare un modo per entrare nella sua testa e parlare dell’India e del Pakistan attraverso la sua storia e la storia della casa. La casa editrice ha in cantiere progetti molto eccitanti: un secondo libro di Baby Halder, lavoratrice domestica la cui autobiografia, pubblicata alcuni anni fa, è stata il nostro più grande successo editoriale; il libro su una donna di bassa casta di Gujarat; un meraviglioso racconto sui cinesi in India; un libro sul rapporto tra un gatto e la sua padrona, e molto altro”.

 

 

Donne e Uomini, esperienze, Libri, Politica Maggio 11, 2013

Autorità, antidoto al Potere

Nella circostanza della recente elezione-rielezione del Presidente della Repubblica, tanti “semplici” cittadini hanno ritenuto di dover dire e perfino strillare la loro, benché sapessero che la Costituzione delega interamente la faccenda ai Grandi Elettori.

Al di là del “chi” e delle questioni strettamente istituzionali –la possibile transizione verso una Repubblica presidenziale- la domanda era di un/una Presidente dotato di tutta la forza necessaria a guidare il Paese, eppure “lontano dal potere”. Come se nel senso comune sopravvivesse l’idea di un’autorità che non ha a che vedere con il potere, che non è affatto un suo sinonimo. E anzi, che è proprio il contravveleno per il potere e i suoi abusi.

Da dove viene, questa idea di autorità? Che storia ci racconta questa parola?

Il linguista francese Émile Benveniste la rintraccia nel significato arcaico del latino augere: “atto di produrre dal proprio seno; atto creatore che fa sorgere qualcosa da un ambiente nutritivo e che è il privilegio degli dei, non degli uomini” (ma anche un po’ delle donne, volendo, e della potenza materna, che viene ben prima e va ben oltre ogni grossolano potere).

Traggo la citazione da un piccolo e scandaloso (nel senso che fa proficuamente inciampare) libro di Luisa Muraro, “Autorità”, Rosemberg & Sellier. Che partendo dai “pregiudizi, timori, avversione, malintesi, ma anche appelli e nostalgie” intorno all’idea di autorità, giunge a concludere che “coltivare il senso dell’autorità è una scommessa in favore di qualcosa di meglio per l’umanità e la civiltà… consapevolmente alternativa al culto del dio potere”.

L’autorità “non ha un fondamento, essa è un fondamento”, e lo è misteriosamente, per come tutti ne facciamo esperienza.“Può agire senza i mezzi del potere e del dominio”. Ha bisogno della libera fiducia della relazione, e si rinnova così, di volta in volta. Mentre il potere, che si dà una volta per tutte, dalla messa alla prova della relazione è costantemente minacciato, e se ne tiene alla larga.

La buona novella è questa: che “la forza fisica… non può sconfiggere l’autorità, perché questa è di un altro ordine”. Ordine che si richiama alla “relazione materna, relazione di somma disparità (tra la madre e il figlio neonato, ndr), di molta vicinanza fisica e di nessuna gerarchia”.

Quando si parla di un mondo più femminile, conviene pensare a questo.

AMARE GLI ALTRI, esperienze, Libri Marzo 10, 2013

Voglio curare la Gestapo: Etty Hillesum

etty hillesum

 

Ho un livre de chevet, finalmente, da leggere e meditare nelle sue fitte 800 pagine. La cronaca minuziosa di una vita interiore che diventa specchio del mondo e strumento di decifrazione di quell’assurdo a cui è stato dato il nome di Shoah. La Tragedia vista dal dentro di un’anima, come un incubo, un disturbo, il sintomo di un male tutto umano.

Parlo del “Diario 1941-1943” (edizione integrale, Adelphi) di Etty Hillesum, giovane ebrea olandese. Sensuale, inquieta, spregiudicata, ironica (“Risultati del quarto d’ora buddhistico: mi è venuto un gran freddo, sul pavimento”). Nevrotica, colta, lettrice di Jung e di Rilke. Etty nasce ad Amsterdam nel 1914 e muore nelle camere a gas di Auschwitz nel novembre 1943.

La ragazza, si potrebbe dire così, psicoanalizza tutto: se stessa, i suoi amici, i suoi amanti, ogni comportamento, ogni gesto.

Un ossessivo fare ordine. Un certosino, indefesso, ininterrotto lavorio per ricondurre ogni minima circostanza della vita al senso che deve certamente avere: le traduzioni dallo slavo, il volto dell’amico e mentore Julius Spier, le emicranie, i giacinti, i libri, la depressione (“il mio più nero medioevo”), gli slanci erotici, i cioccolatini, le passeggiate al sole della Stadionkade.

Ma anche, man mano che passano i mesi, i primi segni della persecuzione, quei cartelli, “vietato agli ebrei”, gli amici arrestati. Anche quel male lei vuole ricondurlo a un senso.

Quella mattina che nei locali della Gestapo Etty sperimenta per la prima volta la violenza di un giovane ufficiale, che per Etty “era da compiangere più di coloro a cui stava urlando…  In fondo, io non ho paura, perché sono cosciente del fatto che ho sempre a che fare con degli esseri umani… avrei voluto chiedergli: hai avuto una giovinezza così triste, o sei stato tradito dalla tua ragazza? Avrei voluto cominciare subito a curarlo”.

Anche quell’inferno in cui troverà la morte passa al vaglio fitto del “cuore pensante” di Etty: “Continuo indisturbata a crescere, di giorno in giorno”. Sempre più vicina a ciò che cerca da sempre, al senso ultimo, fino a dargli il nome di Dio.

Quel Dio che, lei dice, “ha bisogno di noi”, e di cui intende “salvare un pezzetto” dentro di sé, come per proteggerlo da tutta quella disperazione. Perché “a ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi”.

Maestra e sorella Etty.

 

 

 

 

 

Donne e Uomini, Libri, Politica Giugno 23, 2012

Milanesi, libere da sempre

 

Tosta, la signorina milanese Rachele Pampuri, che nel 1852 fa causa ai fratelli Luigi, Carlo Maria e Dorotea per l’eredità del padre Serafino.

Generosa, madame Teodolinda Longhi, che redige testamento a favore dei poveri più bisognosi di Milano (31 luglio 1836).

E quelle ballerine della Scala che nel 1859, furibonde per l’irruzione di alcuni ufficiali francesi nel loro spogliatoio, si autotassano per finanziare l’acquisto di fucili destinati alle truppe di Garibaldi.

“Gli Archivi delle Donne 1814-1859-Repertorio delle fonti femminili negli archivi milanesi” (Roma 2012, Edizioni di Storia e Letteratura), due ponderosi volumi curati da Maria Canella e Paola Zocchi, storiche dell’Università Statale di Milano, si leggono come un romanzo brulicante di vita, opere, relazioni, passioni, arte e politica, in presa diretta attraverso memorie, diari, autobiografie e atti pubblici relativi a 17.533 donne milanesi del tempo (tutti quanti i bei nomi e cognomi nell’indice).

Ce ne sarebbe almeno per una decina di film o sceneggiati.

Milano e la Lombardia come terre di grandi emancipate ante litteram. Una viaggiatrice del tempo, Lady Morgan, racconta di avere osservato nel suo tour le signore dell’élite milanese “intente a discutere delle faccende pubbliche e nazionali”, eccezione nel panorama desolato del resto del Paese.

Migliaia di storie di donne d’impresa, ostetriche, nobili signore, sartine, carbonare e artiste. I libretti di risparmio, l’attività solidale, quello che oggi chiamiamo volontariato, o terzo settore, o meglio ancora politica prima. Il lavoro, la famiglia, le attività legate alla salute, i salotti, la partecipazione alla vita culturale. Tutto a dimostrazione di quanta vita, da sempre, “tiene su da sotto” quella che è stata chiamata Storia, rendendola possibile. E svelando la finzione di un “privato” segregato e astorico, senza il quale nessun “pubblico” sarebbe immaginabile.

Il tema della dialettica pubblico-privato oggi è riattualizzato dallo svuotarsi di senso e di consenso di una politica –e di un’economia- lontanissima dalla vita e dai suoi bisogni. Il lavoro colossale delle due amiche storiche e dei loro collaboratori offre materiale prezioso anche per indirizzare il desiderio che le donne hanno di contare politicamente, intendendo però la politica a modo loro, come non separabile dalla vita.

Proprio la politica che ci serve oggi.

 

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Donne e Uomini, economics, lavoro, leadershit, Libri, Politica, Senza categoria, TEMPI MODERNI Marzo 6, 2012

Forza ragazze! (Colpo di bacino)

Questa meravigliosa bambina l’ho amata a prima vista. L’ho incontrata googlando, e ho detto all’editore: “Voglio lei. Nessun’altra che lei”. Quella mossa apotropaica del bacino, che dice forza femminile. La caparbietà del broncio. Una vera dura, una tosta. Una che sa quello che vuole.

Non è stato facile averla. E’ una piccola americana, fotografata dal suo papà. L’ho supplicato con una lettera struggente, e lui ha ceduto. Me la guardo e me la riguardo. Quella piccola mi dà coraggio. E’ empowering. E dice precisamente quello che avevo da dire. Che questo è un gran momento per le donne di questo Paese. E che non va sprecato nemmeno un attimo. Senza di noi non andranno da nessuna parte. Senza di noi non combineranno niente di buono. Si tratta di saperlo, e di dare quello stesso colpo di reni.

In questo libro parlo di donne e di uomini, di rappresentanza, di potere, di economia e di crescita, di fatica e di bellezza. L’auspicio è di poter accompagnare, per quello che so e che posso, una svolta storica per il nostro Paese: quella che vedrà finalmente anche noi donne, accanto a uomini di buona volontà, dire la nostra sulla nuova agenda politica, stabilire le priorità, riportare la vita, i bisogni, le relazioni al primo posto. Primum vivere.

Quest’anno è cruciale, non dobbiamo distrarci!

Con l’augurio che possiate leggere quello che ho scritto e pensato-e discuterne con me, donne e uomini: si parla anche di loro- vi anticipo qui parte dell’introduzione.

Buona lettura.

 

“… Questa che stiamo attraversando non è una semplice «crisi», non c’è backlash che tenga. Questa è proprio l’apocalisse, nel suo senso preciso di «rivelazione». E ciò che viene rivelato ci dà ragione. Le cose non possono più andare in questo modo. L’economia non può più essere questa. La politica non può più essere questa. Il lavoro, la vita non possono più essere questi. Vale per le donne e anche per gli uomini.
La narrazione del patriarcato non sta funzionando più. Doesn’t work. Non si trova una sola donna, ma non ci sono più nemmeno troppi uomini disposti a credere che il mondo gira soltanto se uno dei due sessi si mette al centro, nella parte dell’Assoluto, tenendo l’altro fuori e sotto il tallone. Questa, semmai, è la malattia da cui il mondo chiede di guarire. Dovrebbe ormai essere chiaro che «the opposite to patriarchy is not matriarchy, but fraternity», come canta Sinéad O’Connor. Fraternità nella differenza, ecco il tempo che ci aspetta.
Questo libro lo scrivo per convincervi a confidare insieme a me, a non sentire il freddo, a non lasciarvi impressionare dai backlash e dai colpi di coda. Siamo nel bel mezzo di un rivolgimento grandioso, a paragone del quale quelle che la storia ha chiamato rivoluzioni sono solo timide increspature del mare. Servono pazienza e nervi saldi. Non sarà un giro di valzer. Ma potrebbe essere molto divertente. Un privilegio, poter vivere questo momento. Capire bene quello che sta capitando tra le donne e gli uomini, che è la grande parte di quello che sta capitando, significa dargli una grossa mano a capitare: il più del lavoro è qui. Poi ci sono alcune cose che vanno semplicemente fatte, senza dargli tutta questa importanza.
Mi è sempre piaciuto molto il modo spiccio in cui lo dice la mistica beghina Hadewijch di Anversa,rimbrottando una discepola esagitata: «Non trascurare opera alcuna, ma non fare nulla in particolare». Quello che deve capitare capiterà: il lavoro più grande è stare in questa fiducia, che per Hadewijch era fede in Dio o Amore. È prendere confidenza con i grandi orizzonti che ci si aprono davanti, abituare losguardo, adattare il passo. Poi, certo, ci sono due o tre cosette da sistemare.
Bene: è venuto il momento di sistemarle. Non possiamo aspettare ancora.
Una delle cose da sistemare riguarda la rappresentanza politica. Ci sono troppi uomini, lì. Un eccesso che sta creando molti problemi. Ci sono troppi uomini deboli, narcisie attaccati al potere nei luoghi in cui si decide – o non si decide – su tante cose della vita di tutti.
Bisogna mandarne via un bel po’: una delle opere da «non trascurare» è questa. E a quanto pare il modo più semplice per mandare via un bel po’ di uomini è che un numero corrispettivo di donne vada al loro posto.
Fuori dalla Camera, che dobbiamo fare ordine.
Poi ci sarà ben altro, da fare. Ma nessuna paura. Ne abbiamo passate di peggio”.