di Costanza Firrao: ricevo e pubblico.

Quasi cent’anni di storia italiana, dall’avvento dei Fasci siciliani a quello di Mussolini, dal colonialismo alle leggi razziali, dal secondo conflitto mondiale al primo dopoguerra, raccontati attraverso le vicende di due famiglie, i Marra e i Sala. Protagonista di “Caffè amaro” (Feltrinelli 2016 – pag. 352 – 18 €), come in tutti i romanzi di Simonetta Agnello Hornby, la Sicilia, con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi insoluti. A incarnarla fisicamente, Maria, i folti capelli castani, gli occhi a mandorla, i seni formosi, che incontriamo appena quindicenne ma già adulta e consapevole della vita. Figlia devota di una madre giovanissima e di un padre socialista e liberale, decide con scelte sofferte e meditate le sorti sue e dei suoi famigliari e di tutti coloro che incontrerà sulla sua strada.

Come negli altri libri, la Hornby, scava a fondo nelle figure femminili che fanno ombra a quelle maschili che, all’apparenza forti e dominanti, si rivelano poi fragili.

A partire dal romanzo d’esordio, la Mennulara (2002), l’onnipresenza di Maria Rosa Inzerillo – detta appunto Mennulara (raccoglitrice di mandorle) – che pur essendo passata a miglior vita già nel primo capitolo, vive potente attraverso i ricordi e le testimonianze di chi l’ha conosciuta. O il personaggio di Costanza Safamita che ne “La zia marchesa” (2004) resta scolpita per la chioma rossa – quasi disdicevole per una signorina di origine aristocratica nella seconda metà dell’800 – e per l’attitudine a frequentare persone umili piuttosto che quelle del suo rango. O quello di Agata, la figlia del maresciallo, costretta suo malgrado e per motivi economici alla vita monastica. Clausura che non riesce però a piegare la forza e la determinazione della ragazza (“La monaca” – 2010).

In quest’ultimo romanzo, “Caffè amaro”, la Agnello Hornby cura e approfondisce più che negli altri l’aspetto storico. In cui, i soprusi dei padroni, dei ricchi, dei latifondisti nei confronti degli umili, dei poveri, di chi lavora la terra torna ciclicamente nel corso degli anni. Così come la presenza della Mafia che costruisce la sua ragnatela di potere e di clientele e la allarga fino a lambire ogni aspetto della vita e della politica isolana. Dall’altra parte viene ben delineato, attraverso la figura del padre di Maria, il fervore socialista, che però resta confinato nella passione quasi utopistica, in certe scelte autolesioniste e perdenti. E poi il fascismo, di cui si racconta l’aspetto buono degli inizi con la speranza di acquisire grandezza e rispetto nei confronti delle altre nazioni europee e la guerra che azzera tutto e riduce tutti in miseria, i ricchi e i poveri. E i bombardamenti feroci su Palermo: morti feriti macerie.

Sulla scena teatrale che si allunga e dilata nel tempo, la figura di Maria, da poco più che adolescente a donna matura quasi anziana, sembra restare immutabile nell’aspetto e nei sentimenti verso gli altri. Quasi un “tutto deve rimanere com’è, se vogliamo che tutto cambi”, che la Hornby mutua da Tomasi di Lampedusa ma che indebolisce insieme protagonista e racconto. Troppo perfetta (figlia, moglie, madre, amante, benefattrice) Maria, che si lascia passare sopra lutti e sgarbi e accese passioni, dando l’impressione di governarle ma in effetti subendole. E mancano l’umorismo sapido, l’ironia sottile, persino le espressioni dialettali che davano il pepe alle precedenti opere della scrittrice siculo-londinese.

Chiuso il libro, pur apprezzandone alcune indubbie qualità, ti resta un retrogusto amaro. Proprio come quel caffé che dà il titolo al romanzo, e che l’autrice solo nel finale, si decide a zuccherare.

 

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