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POLITICA

Donne e Uomini, economics Giugno 19, 2009

MENO DELLE FOTOCOPIE

Leggo oggi sul Corriere di un’indagine della Sda Bocconi secondo la quale la maternità costa alle aziende meno della carta delle fotocopie. Il costo percepito, invece (questo lo dico io) è molto più alto.

Dice Mario D’Ambrosio dell’Aidp, Associazione italiana direttori del personale, che “quando la dipendente torna dalla maternità il reinserimento richiede uno sforzo all’organizzazione“. Ma forse un’organizzazione che debba sforzarsi tanto per reinserire una neomamma non è una buona organizzazione, perché è costruita su corpi-anime maschili -e invece lì ci sono donne e uomini- e separando rigorosamente pubblico e privato -una finzione che, questa sì, ci costa molto cara-.

Capiterà molto nel lavoro, nei prossimi anni. Noi stiamo qui sempre a parlare di quella politica, che alcune amiche chiamano “politica seconda”, e dei suoi imbarazzanti protagonisti, mentre la politica prima è proprio lì, dove viviamo ogni giorno, dove capitano le cose che contano.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, Politica Giugno 10, 2009

ANZI, SAPETE CHE C'E'?

Mary-Lou Bagley, Step into Kairόs

Mary-Lou Bagley, Step into Kairόs

Anzi, sapete che c’è? Per rispondere alle domande del nostro amico Francesco, frequentatore del blog, ci ho messo un po’ di tempo e molte buone energie mattutine. Pertanto trasporto qui in primo piano quello che gli ho scritto , perché si veda meglio, in una logica antispreco, così ne parliamo meglio.

Mi chiedeva Francesco:

che cos’è la politica?
diciamo che oggi la politica chiede meno rappresentanza e più relazione, e chiede che si tenga conto che la polis è bisessuata (le donne non sono più estromesse, appena da un pugno di anni). Per questo penso che le più grosse novità possano venire dalle soggette e dal modo in cui loro pensano la polis. Una polis anche femminile nessuna sa bene che cosa sia, ma è già politica il fatto di cercarla costantemente, e da parte degli uomini di favorire questa ricerca, ascoltando con attenzione le donne così come le donne devono ascoltare loro stesse. Per la felicità di tutti, donne e uomini.

– quali la sua funzione e i suoi ambiti?
La funzione della politica è la minimizzazione delle infelicità per il maggior numero dei viventi, donne, uomini, animali e piante, e quindi l’organizzazione della convivenza con questo obiettivo.

– la politica necessariamente rappresenta interessi?
Immagino di sì, ma la lotta grande da fare è districare l’idea di interesse da quella di denaro. L’interesse umano è il guadagno, ogni vivente vuole guadagnare, cerca un plus, ma il denaro è solo uno dei mezzi. Solo denaro o troppo denaro allontana dall’obiettivo della minore infelicità possibile. Occorre testimoniare questo, continuamente.

– caratteristiche essenziali del politico?

Il fervido desiderio degli altri, dall’altro più vicino a quello più lontano. La pratica instancabile della relazione e della mediazione. La fiducia profonda che senza l’altro nemmeno si è. La testimonianza di un interesse solo relativo per il possesso di cose. Il volere bene.

– metodo selettivo affinchè solo i migliori arrivino a tale ruolo?

nella chiave che io dico chiunque può essere politico. Se si ammette che il sistema della rappresentanza è difettoso e chiede di essere ripensato, convertito in un modello postdemocratico che si fonda sulla cittadinanza bisessuata, la questione della selezione si pone diversamente. Non c’è alcuna speranza fondata che i partiti scelgano i migliori. I partiti sono macchine destinate a spendere il 99.9 per cento delle loro risorse ed energie all’autoalimentazione e all’autoriproduzione, e solo il residuale 0,1 per cento alla politica. Non c’è scampo. Un’autoriforma non è immaginabile. Ogni eccezione è del tutto occasionale. Ma queste proporzioni (99,9 e 0,1) non possono essere mantenute ancora a lungo. Le cose sono andate così nei secoli, si dirà, anche se oggi sembra un po’ peggio (e non è così, c’è e c’è stato molto peggio di questo peggio). Perché a questo punto dovrebbero cambiare? Perché oggi entra in campo la variabile femminile, necessariamente rivoluzionaria, nel senso in cui sono state rivoluzionarie le donne nell’ultimo secolo (senza palazzi d’inverno e spargimenti di sangue, intendo). E la faccenda, come si sa, riguarda le donne e gli uomini. Questa variabile tocca le fondamenta della democrazia, che è nata come conventio ad excludendum, tra uomini tenendo fuori dalla polis le donne. Ma probabilmente la rivoluzione della democrazia non avverrà nella politica, negli ambiti di quella che oggi chiamiamo la politica (i partiti, e così via) ma per esempio nel mondo del lavoro. E lì, che la nuova polis bisessuata prenderà forma. E’ lì che si formeranno e si cominceranno a praticare i modelli.

Aggiungo questo: che molti, magari concordando con le cose che io dico, potrebbero opporre che per tutto questo servirà un tempo infinito. Il che, ad un tempo, è vero e non è vero. E’ vero in una logica di tempo lineare e quantitativo, che non si fa mai raggiungere, alla cui coda cerchiamo di aggrapparci senza mai riuscire a prenderla, come in quelle giostre dei bambini (krόnos). Non è vero in una logica di kairόs, di momento opportuno e tempo qualitativo (per i Greci era il “tempo di Dio”), un tempo in cui qualcosa di speciale può capitare, e all’improvviso. Un tempo che non ha bisogno della mediazione del tempo, che può essere qui e ora, in ogni momento, subito. Proprio quando il tempo lineare sembra non procedere, frenando il cambiamento, si apre uno spazio propizio per il tempo qualitativo, che si fa largo tra le maglie del presente. Che dà corpo, in squarci subitanei e rivelatori, al mondo che vorremmo che fosse. E anche alla politica, come stiamo cercando di pensarla. E’ anzitutto dentro di noi, che questi due tempi sono in lotta.

Politica Giugno 9, 2009

UNA DOMANDA

Ecco, se girellate un po’ per questo blog ci troverete molti spunti condivisi per una critica della politica, e forse il più alto e lucido è il discorso di Simone Weil per l’abolizione dei partiti. Eppure eccoci qui, dopo questa faticosa tornata elettorale, a far di conto, a proiettare, a immaginare tendenze, o semplicemente a leccarci le ferite, irresistibilmente attratti dal gioco dei numeri, delle maggioranze, delle minoranze, a chiederci di Di Pietro, della Lega, delle possibili alleanze, dei ballottaggi… A cominciare da me, dico.

Ma davvero continuiamo ad aspettarci che da lì possano arrivare cambiamenti significativi per le nostre vite? O non sarebbe invece più giusto distrarsi, coerentemente, “astenersi” da questa speranza che più volte abbiamo constatato essere malriposta, riservare ad altro le nostre migliori energie, continuare, come dice una mia amica, nel tentativo di “districare la politica dal potere”?

Donne e Uomini, OSPITI, Politica Aprile 2, 2009

IL CORAGGIO DI FINIRE

Per circa un anno, a Roma, un gruppo di signore (Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elettra Deiana, Laura Gallucci, Letizia Paolozzi, Isabella Peretti, Bianca Pomeranzi, Bia Sarasini, Rosetta Stella, Stefania Vulterini) si sono viste ogni mercoledì per ragionare sulla crisi della sinistra. Si sono date il tempo per pensarci a fondo, prendendosi la briga di fare questo lavoro per tutte-tutti. Grazie.

Il 19 aprile, alla Casa Internazionale delle Donne, metteranno in comune le loro riflessioni. Ve ne anticipiamo alcuni stralci (il testo integrale lo trovate qui: http://www.donnealtri.it/locale-globale/373-il-coraggio-di-finire-br-riattraversare-la-fine-pu–rivelarsi-un-educazione-sentimentale.html)

Abbiamo cominciato a riunirci prima della caduta del governo Prodi, quando non era ancora del tutto implosa la politica dei partiti della sinistra. Avvertivamo tutte, al di là delle diverse esperienze e del diverso coinvolgimento in quella vicenda, il bisogno di uno scambio su quello che da tempo ci sembrava evidente: una perdita di senso e di funzione della sinistra, all’interno di una più generale crisi della politica. Una perdita forse irrimediabile. Che si manifestava nella ripetizione di tutti i vizi che l’hanno portata allo schianto elettorale, dalle pratiche asfittiche ed autoreferenziali, all’abuso di parole troppo lise per comunicare e convincere . A questa situazione abbiamo guardato con “attenzione amorevole” (…)

Siamo ri-partite da quello che stava accadendo ad alcune di noi: l’ invecchiamento, le malattie, la fine di persone care. Abbiamo tutte esperienza del peso e della sofferenza che può suscitare la fine della vita. E abbiamo bisogno di dare parola a questa esperienza. A cosa accade ai corpi nel morire… anche se la fine non può essere buona, bisogna assumerla comunque. E’ un modo di riconoscere la finitezza, il limite, l’usura del corpo. Restano – non è una consolazione, ma un’eredità – le relazioni. La politica delle donne di questo parla. E’ questo il filo di continuità tra il nostro gruppo e il femminismo. E’ sulla possibilità di mettere le relazioni al centro della politica che vogliamo lavorare, creare incontri e scambi con uomini e donne (…)

Questo ha suscitato in noi un coinvolgimento vivo sulla questione politica della fine della vita. Da mesi presente nelle cronache di giornali e istituzioni sul cosidetto “caso Englaro”. Che abbiamo però sottratto alla complicata e astratta discussione bioetica, su legge o no, su chi decide, su cos’è accanimento terapeutico, cosa terapia, cosa vita, quando si è morti o no, ecc, ecc. La legge ci sembra un modo solo per coprire un vuoto di senso, e, al contempo, esorcizzare la paura della morte (…)

E’ sempre più difficile saper convivere con la morte. E saper quindi compiere quel mutamento esistenziale che ogni fine, a noi vicina, comporta. E sempre meno accettiamo di fare esperienza del lutto, della necessità di prendere congedo. Di attraversare il dolore che ogni cesura, tanto più se inevitabile, comporta. La morte da esperienza individuale si trasforma così in un rimosso della coscienza collettiva. Lavorare su quel rimosso è una parte essenziale della politica, perché è essenziale per la convivenza (…)

Dal bisogno di nominare la fine dei corpi, abbiamo preso consapevolezza del bisogno, altrettanto forte, di nominare la fine nella politica. Il rinvio dal corpo alla politica, dal fine vita alla fine di forme della politica è stato repentino. Ci ha fatto capire perché giravamo a vuoto, senza afferrare il nesso tra la nostra esperienza viva di politica ed il discorso politico e sulla politica. Perché anche noi restavamo incagliate nel “discorso ” pre-costituito che è quello pubblico, dei giornali e delle sedi politiche. Un effluvio di parole che assorda senza riempire il vuoto di senso. Proprio come nel discorso della bioetica, attorno al corpo di Eluana.

La crisi della politica mima le crisi del corpo fisico. Conosce l’alternarsi di bulimia e anoressia: eccesso di parole, di concetti, di invenzioni verbali e disseccamento delle radici sociali, delle pratiche comunicative, degli scambi di senso e di riconoscimento. Cupio dissolvi e vocazione suicidaria nella riproposizione all’infinito dei modi e delle logiche che hanno portato al disastro. Accanimento terapeutico diretto a rinverdire simboli e riferimenti ormai in declino, che hanno dato un giorno forza all’impresa e che si spera possano tornare a essere quello che sono stati. Nel femminismo abbiamo tempestivamente visto e nominato i danni del prometeismo. Di quel peculiare accanimento maschile che li spinge a tenere in vita vegetativa imprese collettive. Le istituzioni, le prassi, i codici di una politica non più viva, non più feconda. Perché non nutre le esperienze, non le cambia, non offre significato.

Gli uomini fanno fatica a prendere le distanze dalle organizzazioni – partiti, gruppi, associazioni- che hanno costruito. Non riescono a separarsene. L’ansia per il declino di un partito si traduce nell’invocare un leader, così come la leadership dovrebbe supplire alla crisi dell’ autorità patriarcale. Nella realtà i gruppi dirigenti maschili, a sinistra soprattutto, non solo non hanno autorità, ma sono un ostacolo per affrontarla: occupano quella funzione, ma non la incarnano. Nell’infinita transizione italiana è tutto un fare e disfare partiti, coalizioni, sistemi elettorali. Un chiudere ed aprire fasi e cicli senza mai fermarsi a prendere atto di ciò che è davvero finito, morto, dentro questo inesausto adoperarsi per dar vita al nuovo. Ed è malamente morto, senza ottenere degna sepoltura, anche a causa di questo accanimento (…)

Si può accettare il vuoto e l’impotenza. Fa soffrire. Ma questo può essere, una condizione attiva, non solo passiva. Patire è radice di passione. Attiva desiderio. Muove dall’impotenza che avvertiamo verso… un bisogno di dare senso a quel patire, prima ancora che verso qualcosa che lo risolve. Ma non bisogna avere fretta di colmare il vuoto, di azzerare la sofferenza con la rimozione. Ignorare la fine ci fa perdere l’opportunità di portare con noi ciò che è importante di questa fine e che probabilmente ci sarebbe utile per ricominciare.

Democrazia è una parola a rischio. Per la sua intrinseca ambivalenza. Come sistema politico ha fatto spazio alle differenze, alla pluralità delle esperienze e dei punti di vista. Come forma del potere politico si è costituita come luogo terzo rispetto alle differenti posizioni, ai partiti, ai conflitti, alle soggettività (…) Anche per i governati, noi singoli e singole, la democrazia è parola ambivalente. A rischio. Per un verso abbiamo potere su noi stessi, è la libertà individuale, garantita come diritti. Per altro verso ognuno deve vedersela da sé, sta per conto suo, ha i fatti suoi. La democrazia insomma, come luogo terzo rende più difficile mettere al centro della politica e della vita le relazioni. Questo produce un ricorso ossessivo alla legge. Ci si appella alla legge per paura delle relazioni, come se la legge potesse colmare il vuoto di legami, l’assenza di una dimensione condivisa nell’ esistenza e nel pensiero.

Vorremmo ripensare la democrazia, non come luogo terzo, non come potere neutro del decisore, ma come convivenza tra differenti, spazio di relazioni e mediazioni, del loro intrecciarsi con l’agire collettivo(…)

Non vi è consapevolezza che anche le istituzioni umane, tutto ciò che è costruito è contingente, finito. La sinistra ha affrontato il suo declino come se fosse, per natura, necessaria, insostituibile. Hanno preso il sopravvento la rimozione e l’ attaccamento. Attaccamento come ripetizione, inconsapevole per lo più, del passato, rappresentazione mitica di ciò che è stato, suo ritorno parodistico, diffuso affidarsi ai meccanismi e ai dispositivi sperimentati. Soprattutto c’è stato un uso del sentimento affettivo diffuso, del senso comune e della tradizione. Rimozione come rito dell’innovazione, ricorso al lifting piuttosto che costruzione di un altro ordine di senso e di esperienza.

Non vediamo modo di ricominciare se non si ha il coraggio di finire. Di nuovo c’è un nesso con la questione del fine vita. Con il modo in cui è stata malamente rappresentata nella vicenda Englaro. In questi anni le donne hanno chiuso diverse esperienze, diversi gruppi, associazioni. Gli uomini invece se chiudono un esperienza, fanno finire un partito o un gruppo e per rifarlo. Magari per moltiplicarlo, dividendosi in due o tre sotto-gruppi. Forse perché il significato della parola “fine” si intreccia troppo con quello di “fallimento”. Forse perché hanno paura di invecchiare – anche noi, ma diversamente da loro – e provano a mantenersi giovani, ripetendo il rito del nuovo inizio. Come nella vita, cambiano partner. Noi vorremo comunicare con loro, su cosa vuol dire avere coraggio di finire. Mantenendo vive, ed allargando, le relazioni che abbiamo.

esperienze, Politica Marzo 7, 2009

AL MERCATO DELLA FELICITA’

Si tratta di “andare in giro per il mondo incinti di quello che il mondo, di fatto, al momento, non è, non sa, non può. O, per chi ha la vista buona, (di) andare incontro al mondo e vedere che è incinto del suo plus”. Meglio di così non saprei dirlo. E perciò, quando qui, nel mio blog e ovunque, mi capiterà come capita sempre di imbattermi nella disperazione di chi non fa che nominare il male che c’è, spargendolo dappertutto, risponderò con le parole con cui la filosofa Luisa Muraro chiude suo nuovo libro (Al mercato della felicità, Mondadori).
In un libro, come al mercato, ognuno trova quello che gli serve, e la possibilità di continuare il lavoro di chi l’ha scritto. Io qui, tra tante cose belle, trovo soprattutto un contravveleno alla disperazione politica, al senso di essere definitivamente sopraffatti e senza vie d’uscita. Traendolo dalla mistica islamica, Muraro fa l’esempio di quella vecchia che pur senza alcuna possibilità di farcela, ha l’audacia di mettersi in gara al mercato degli schiavi per comprare lo splendido Giuseppe, offrendo in cambio qualche gomitolo di lana. E a chi la deride, risponde che ciò che conta è che si dica che “anche lei ci ha provato”. Perché senza desideri grandi, senza grandi orizzonti, che vita sarebbe?
Come non cedere sui desideri quando il confronto con la realtà sembra perdente?”, è la domanda del libro. In un momento in cui uno o una, appena si muove, trova muri da ogni parte, e l’unica mossa che gli è consentita è consumare, e oggi nemmeno più tanto quella, è forte la tentazione di cedere sui desideri e di rassegnarsi all’angustia e al male, alla propria inconsistenza e a un’economia senza gioia. Qui non ho modo di dire di più -vi rimando alla lettura del libro- se non menzionare la fiducia con cui Muraro promette a se stessa e a chi si pone in ascolto, che “il reale… non assiste indifferente alla passione del desiderare” e per questo si deve e si può, come la vecchia, e senza esagerare “il potere del potere”, “restare nella fila dei compratori”, intenti in una “contrattazione instancabile” con il reale realizzato, aprendo “un passaggio tra il tutto già deciso e il non ancora”. Per guadagnare il nostro stesso essere, e insegnare al mondo il suo “plus”.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 7 marzo 2009)

Politica Dicembre 20, 2008

LA BELLA CATASTROFE

“Oggi non bastano il merito, l’impegno e neanche la fortuna per trovare lavoro” scrive Roberto Saviano su Repubblica. “Condizione necessaria, anche per la persona di talento, è rientrare in uno scambio di favori”. E’ proprio così. Non si “spreca” una posizione, specie se è buona, dandola semplicemente a una o a uno capace e giusta/o per quel posto; gliela si dà solo se l’offerta va a nutrire anche la logica dello scambio -nei casi migliori-, o solo la logica dello scambio (eventualmente anche sessuale). Se offrendo a una/o questa posizione, insomma, si fa un favore a qualcuno, che a sua volta sarà tenuto a ricambiare.

I buoni risultati -perfino il profitto, in un’azienda- contano molto meno dei risultati che si ottengono nel mondo duplex dello scambio. Capita dappertutto in questo paese, al Sud e anche al Nord. Una persona di valore, che dal Sud è fuggita per sottrarsi a questa logica imperante, dice che l’ha ritrovata al Nord: più sottile, sofisticata, intermittente. Ma c’era cresciuto in mezzo, aveva naso per riconoscerla, e l’ha riconosciuta. A Palermo, precisamente in via Maqueda, ho visto un manifestino scritto a mano attaccato a un muro: “Cerco lavoro, ma non ho raccomandazione”. Non è detto che fosse una trovata, tra sarcasmo e disperazione. Qui la cosa è meno esplicita, ma altrettanto corrente. Una volta le cose non andavano così. Ma la mutazione è avvenuta. Naturalmente, più ci si avvicina alla politica politicante, e più le maglie si stringono. I lavori contigui alla politica non sfuggono mai a questa logica. Se si sa di una/o a cui è stata offerta una certa posizione, la domanda è sempre: perché lui? (chi lo protegge? di chi è parente, o amico?) o perché lei? (con chi va a letto? di chi è moglie?). Be’, nove su dieci ci si imbrocca. Il paradosso è che la democrazia rappresentativa sarebbe lì a garantirci contro questa logica, o almeno ad arginarla, e invece ne è stata quasi del tutto divorata, e come si è visto ormai senza significative differenze tra destra e sinistra. Mio figlio, che ha vent’anni, si stupisce dello stupore di noi adulti: “Perché ti aspetti più moralità dalla sinistra?”. E come glielo spiego, io? A mio marito dicevo, a proposito di Napoli e di certi politici coinvolti, di cui non si sarebbe mai detto: “Probabilmente hanno pensato: tanto, se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. Fine delle scenette familiari.

E’ molto generoso da parte di Veltroni cercare di traghettare il Pd verso il nuovo. La sua generosità dovrebbe spingersi fino a comprendere che questo nuovo non potrà essere lui a rappresentarlo (e nemmeno D’Alema, intendiamoci). Ha giocato la sua partita e l’ha persa. Non si tratta di cercarlo, questo nuovo. Si tratta semplicemente di non sbarrargli più la strada. Come ho già detto tante volte, le donne -e non quelle maschilizzate del partito, ma le altre-, i giovani, i meritevoli. Non dovremmo più sbarrare la strada al nuovo che c’è già. Si tratta per tutti noi, individualmente, di vivere come se questo mondo ci fosse già, se questo altrove fosse già qui: pratica femminile, quella di stare vicino a ciò che ancora non c’è, e nutrirlo, e anche gandhiana. Non si tratta di chiedersi come si fa a fare questo. E’ mentre lo fai, che trovi la risposta. Ho già scritto in un commento stanotte, e ve o ripropongo qui, più in vista: il mutamento potrebbe capitare all’improvviso, così come le catastrofi -nel senso di riuscita, scioglimento del dramma- che sembrano inaspettate e invece sono lungamente preparate. Quello che conta è spasimare il cambiamento, e aspettarcelo tutti. Allora arriverà, e lo sapremo riconoscere. Quello che conta è comportarsi come se il cambiamento fosse già avvenuto -quello che sta capitando all’economia fa parte dei prodromi-in tutte le cose che facciamo. Vivere come delle premonizioni viventi, in un mondo in cui la catastrofe c’è già stata. E allora il mondo dovrà adeguarsi allo sguardo con cui lo guardiamo.

Politica, TEMPI MODERNI Dicembre 14, 2008

UN PAESE SENZA RETE

Animata discussione sabato sera con alcune amiche. Proprio sulla rete e i blog. La più autorevole tra loro sosteneva che il web è certamente un ottimo mezzo, ma resta un mezzo. Che quello che conta per fare politica, e per la vita soprattutto, è la forza del desiderio. Così, diceva, è vero che il presidente Obama è stato eletto anche grazie alla rete, ma quello che conta sono i movimenti reali -giovani, neri, etc.-che hanno approfittato della rete per realizzare il loro desiderio. In un altro tempo, stante lo stesso desiderio, si sarebbe usato un altro medium. Io le dicevo che invece secondo me la rete è un valore aggiunto per la democrazia, e segna delle sue caratteristiche -lo scambio, la velocità, la parità tra interlocutori, e tutto quello che sappiamo- la politica e la vita, producendo straordinari cambiamenti. Lei dice che faremo un dibattito pubblico su questo, ma io intanto voglio sapere che cosa ne pensate voi.

Seconda questione: il nostro, come saprete, è tra i paesi meno connessi d’Europa (42 per cento contro una media europea del 60, con punte oltre l’80 nel grande Nord). Poco sopra Bulgaria e Romania, dove tuttavia la tendenza è alla crescita, mentre da noi c’è addirittura una marcia indietro. Inoltre solo il 38 per cento degli abitanti accede alla rete regolarmente, più uomini (45) che donne (32). Tra i giovani, invece (14-29 anni) gli utenti sono l’83 per cento. Qualche tempo fa il quotidiano inglese The Guardian scriveva che la nostra vita sociale reale è già abbastanza intensa, le nostre piazze sono già abbastanza affollate, è per questo che non sentiamo il pressante bisogno di una piazza virtuale.

Sono andata a cercare i dati nel dettaglio, e posso dirvi che: Pisa e Bolzano sono le province italiane dove è concentrato il maggior numero di utenti, davanti a Milano, Firenze e Roma. Il Trentino Alto Adige stacca Toscana, Lazio e Lombardia. Quasi sconnesso il Sud. Secondo i ricercatori del Cnr, questo dimostra che “lungi dall’essere un fenomeno capace di ridurre o colmare le differenze socio-economiche tra territori, Internet riproduce e addirittura amplifica le differenze di sviluppo. Il che ridimensiona fortemente il mito dell’economia della rete: è tutto da dimostrare che le zone del paese con maggiori problemi infrastrutturali sulle reti “materiali” possano ridurre lo svantaggio puntando tutto sulla rete Internet: chi è indietro nello sviluppo economico perde ulteriori posizioni”.

Vi dico il mio punto di vista: sono certa che il gap che ci separa dal resto dei paesi sviluppati sarà presto colmato, e che il ritardo non è così significativo; resto convinta che la rete possa promuovere sviluppo, oltre a cambiamenti reali nella vita e nella politica. Credo che le donne saranno tra le fruitrici più entusiaste del mezzo. L’antipatia dei nostri partiti, senza differenze tra destra e sinistra, per questo mezzo, mi conferma nella sensazione che ci sia molta paura di passare al vaglio del popolo del web e del socialnetworking, che richiedono trasparenza, disponibilità al confronto e velocità nel feedback, cose che evidentemente i partiti non sono pronti a garantire. Che tutta questa politica fuori dalla “politica” li preoccupi molto.

E adesso ascolto voi: perché questo ritardo? qual è il potenziale della rete? e come andrà a finire?

Politica Dicembre 12, 2008

UN’ALTRA POLITICA

Ecco, come promesso ieri, una sintesi del mio articolo sui 40xvenezia pubblicato su “Io donna”. Qui c’è del nuovo, a mio parere. Date un’occhiata e vedete se vi pare interessante:

“….Venezia è una città senza uguali, e governarla non deve essere semplice. Ma anche essere veneziani –specie ridotta in una generazione da 200 mila a 60 mila esemplari, ogni anno mille abitanti in meno e 1milione di turisti in più: siamo ormai a quota 20 milioni- non è facile per niente….
Nessuno però pensi che i “40xVenezia”, associazione di quasi 1600 quarantenni e dintorni, social forum con una media di 800 contatti al giorno –quasi tutto online: una cosa alla Obama, per capirci-, il ning (piattaforma) più attivo d’Europa, si lascino andare a volgarità tipo “Venezia ai veneziani”. La presidente Chiara Barbieri, tanto per cominciare, è mantovana. La questione non è essere nati lì, ma sentirsi veneziani per amore. Gente che a Venezia abita, lavora, si accoppia, mette radici. E con l’idea di “una Venezia del terzo millennio ben diversa da quell’immagine stereotipata che per molti pare essere il suo unico destino”….


Un annetto fa alcuni di questi quarantenni, in buona parte architetti e professionisti regolarmente interpellati dalle cronache locali su questa o quella questione urbana, hanno pensato di incontrarsi tra quattro gatti per uno scambio di idee. E altro che quattro: al primo appuntamento erano già 200. Oggi sono dieci volte tanto: addetti, esperti e semplici cittadini, ciascuno con la sua area di interesse e competenza. “Non solo e strettamente quarantenni” spiegano. “Ci sono anche trentenni e qualche sessantenne. Ma il senso della cosa resta quello: far saltare il tappo costituito da quella leva di politici che cerca solo di autoconservarsi. E ha perso i contatti con la città”.
I 40 non amano personalismi –parlano solo in gruppo- e fanno scuola: “Certe espressioni, come arcipelago o città-paradigma” spiegano “ce le copiano già. Ma ben vengano gli imitatori!”. Recentemente ha debuttato anche un “40xCatania”: la cosa è riproducibile ad libitum, spiazzando la politica con un linguaggio nuovo e forme inedite di partecipazione alla governance.
E che cosa hanno ottenuto, finora? Per cominciare, che i musei civici veneziani, immenso patrimonio, non rischiassero di finire nelle mani dei privati: “Abbiamo chiesto e ottenuto che la Fondazione Musei Civici veneziani, istituzione pubblico-privata, avesse il sindaco come vicepresidente”. E’ lì, probabilmente, che gli enti locali hanno cominciato a guardare i 40 con una certa attenzione. Secondo risultato: la campagna “Venezia non è un albergo”, disegno di legge regionale che stava passando indisturbato e che avrebbe definitivamente trasformato la città storica in un enorme hotel diffuso. Raccogliendo migliaia di firme, i 40 hanno messo al corrente la città di quello che stava capitando: “Basta arredarti la casa in stile” spiegano “per qualificarti come “dimora ospitale di Venezia”: in parole povere, la liberalizzazione dell’attività di affittacamere. Attività che peraltro è già –abusivamente- una realtà: si tratterebbe di un condono mascherato”. In più gli alberghi potrebbero aprire dépendance ovunque, “spalmando” l’hotel in tutto il sestiere.
I 40 non vogliono che Venezia diventi una città fantasma, abitata solo da turisti. La vita nelle calli, le ciàcole nei bàcari, i mercati sui rii terà, i panni stesi, il tessuto vivente delle relazioni hanno sempre sostenuto Venezia e la sua identità come le palafitte, le zattere e le bàsole che tengono su le fondamenta dei palazzi antichi. Senza, la città va a fondo. Bene, i 40 sono stati ascoltati in comune e in regione, il dibattito continua e il disegno di legge per ora è rimasto un disegno.
Terzo goal, il cosiddetto Pat, Piano di assetto territoriale: ovvero la faccia della città nel futuro prossimo. In teoria i comuni dovrebbero coinvolgere i cittadini, sentire che cosa hanno in mente, di fatto non succede mai. “Così ci siamo presentati come la città che parla” spiegano i 40 “e che vuole dire la sua”. Risultato: comune e provincia li stanno ascoltando, e stanno considerando il loro piano alternativo. Che è questo: “Invece di pensare al centro storico solo come turismo, a Mestre come a un immenso dormitorio e a Marghera come polo logistico, ridistribuire le funzioni –turistica, residenziale, logistica, eccetera- su tutto il territorio. Una specie di arcipelago urbano. Una laguna nella laguna”. Turismo anche a Mestre, per capirci, che se lo merita. E abitazioni, vita, produzione in centro storico. E possibilmente produzione e commercio legati alle tradizioni artigianali storiche…

Potete immaginare che felicità, per i politici locali, avere a che fare con questi competenti rompiscatole, che godono di ottima stampa e del sostegno della cittadinanza, e ormai vanno considerati interlocutori a tutti gli effetti. Anche se il finale, insinuano i detrattori, è già scritto: si parte sempre così, dalla società civile, e si finisce un nuovo partito, chi è fuori fuori e chi è dentro dentro. Qui però c’è la variabile web –ancora: vedi Obama-. “Stiamo sperimentando una nuova forma di politica, basata sul libero dibattito” dicono i 40. “Veniamo da storie politiche diverse, ma tutti critichiamo la rappresentanza, che non funziona più. Il web può essere la palestra di una nuova idea di democrazia”.
Pensate che allegria per quei vecchi politici all’antica, quelli che promettono, fanno favori, distribuiscono i santini ai gondolieri e che il web non sanno nemmeno cosa sia…
40xl’Italia? Perché no?
“.

Corpo-anima, Politica Novembre 12, 2008

LO SGARRO

L’avevo già sentito da Marco Travaglio, e rapidamente rimosso -“non può essere, sta esagerando…”-. E mi scuso con lui: autodifesa inconscia. Ebbene, mi arrendo. Titolo del Focus sul Corriere di ieri: I costi della politica: più 100 milioni.

Per riassumere: al Senato, spesi 260 mila euro per agendine Nazareno Gabrielli; 19.080 euro in sei mesi per noleggio piante ornamentali; 8200 euro (16 milioni di ex lire) in tre mesi per “calze e collant di servizio”; 56 mila euro (più di 100 ex milioni) in 6 mesi per “camicie di servizio” . E via così.

Ogni senatore ci costa 1 milione e 772 mila euro (+2.20 per cento); assegni di solidarietà ai senatori non rieletti: 307.328 euro a Clemente Mastella, 345.600 euro al compagno Armando Cossutta, 278.516 euro ad Alfredo Biondi, eccetera (sono 57). Oltre a pensioni e baby pensioni stramilionarie, tipo 8.836 euro mensili al quarantanovenne “verde” (si fa per dire) Alfonso Pecoraro Scanio.

Il governatore della Puglia (226.631 euro l’anno) guadagna quasi il doppio di quelli dello stato di New York, del Michigan e del New Jersey, e cinque volte quello del Maine. In media i governatori americani percepiscono 88 mila euro. Il presidente della provincia di Bolzano (320.496 euro) prende 36 mila euro in più del presidente degli Stati Uniti. Un vero sultano.


gianantonio stella

gianantonio stella

sergio rizzo

sergio rizzo

Con i nuovi casi, e gli incredibili ritocchi al rialzo, Sergio Rizzo e Gianantonio Stella aggiornano il best seller “La Casta”, 1.250 mila copie, 32 edizioni (in libreria da ieri), sottotitolo: “Così i politici italiani sono diventati intoccabili. E continuano a esserlo”.

Con un certo sgomento -il sentimento ormai è questo- chiedo al collega Sergio Rizzo di spiegarmi come mai la nostra classe politica resti intoccata dall’onda di indignazione suscitata dalle ripetute denunce. E anzi, quasi “a sgarro”, in un momento così difficile per tutti, nella prospettiva di un Natale magro come una Quaresima, aggiunga sperpero a sperpero, e privilegi ai privilegi.

“Intanto stiamo parlando di una politica che non funziona” dice. “E’ come pagare al prezzo del cachemire un maglioncino di acrilico. Se le cose andassero magnificamente, se l’efficienza fosse garantita, almeno si potrebbe anche capire, o almeno in parte. Ma qui paghiamo carissimo qualcosa che non arriva nemmeno alla sufficienza. E poi c’è il fatto che la disparità con l’Europa è assolutamente mostruosa. Ci adeguiamo alle normative europee più insignificanti, ma sui costi della politica non ci passa nemmeno per la testa”.

Ma ci provano e non gli riesce? Non sono proprio capaci di risparmiare, o addirittura di tagliare? O invece non ne hanno la minima intenzione?

Non c’è alcuna volontà in questo senso. Per esempio: si parlava di una norma che impedisse ai sottosegretari di usufruire degli aerei di stato. Cancellata. Berlusconi si è fatto portare in elicottero da Messegue…

Sono consapevoli del malcontento dei cittadini e fanno finta di nulla? E’ miopia, o semplice arroganza?

E’ la supponenza di sentirsi l’incarnazione della democrazia. Perciò intoccabili. Chi li critica, si mette contro la democrazia. E’ questo, che pensano.

Possibile che nessuno, nemmeno uno, provi vergogna? Che non ci sia qualcuno che assuma personalmente la questione, quanto meno a titolo di testimonianza?

Qualcuno ogni tanto ci prova. L’Italia dei Valori qualche tentativo l’ha fatto. Ma fatalmente tutto si è arenato.

L’Europa può fare qualcosa?

In questa materia, assolutamente niente.

Su quale meccanismo si dovrebbe fare leva, allora, per cambiare le cose?

Paradossalmente proprio sull’Europa. La sola possibilità è che a livello europeo si stabilisca che la politica non può costare più di tanto.

Non riesco a credere che non si rendano conto. Che siano lontani fino a questo punto dalla vita di chi presumono di rappresentare. Stiamo diventando una satrapìa orientale…

La nostra classe politica mostra di non avere ancora raggiunto la maturità necessaria ad assumere la questione. Calati junco, che passa la piena: l’atteggiamento è questo. Stiamo buoni un paio di giorni, che poi si dimenticano…

Possibile? Nemmeno il Presidente della Repubblica?

esperienze, Politica Novembre 12, 2008

MI DOMANDO

La domanda che mi faccio (e che vi faccio): quanto ci si sente sfiniti dopo aver investito un’enormità di energie nella critica, per quanto legittima? Non si dovrebbe fare lo sforzo di ridurre l’investimento di attenzione e passione polemica su ciò che non va, per aumentarlo su ciò che va, e che potrebbe andare da subito?

Se questo è il segreto per trovare equilibrio e serenità nella vita quotidiana, e per renderla feconda -fare correre lo sguardo su quello che abbiamo, e disdegnare quello che ci manca-, perché non dovrebbe funzionare anche per la vita collettiva, per la politica (spostarsi, schivare i colpi, togliere attenzione a ciò che è scadente, deludente, sbagliato, svuotarlo di significato)?

Non si potrebbe fare di questo piccolo luogo un posto edificante, in cui uno viene a prendere energia per propagarla e fare il suo mondo, anziché un luogo di critica negativa -che nel negativo finisce per intrappolarci?-

Non è bellissima la mobilitazione Not in my name, che segnalo qui sotto? Non delinea un modo nuovo e sorprendente e sorprendentemente partecipato e non violento di fare politica?

Non so, mi domando….