Attaccamento alla verità e alla giustizia hanno dato senso alla vita di Imane, ci tocca raccogliere questo senso e continuare nel lavoro di dire la verità, di dire di quante falsità e menzogne e ingiustizie abbia bisogno chi esercita il dominio
Si parla di utero in affitto (o maternità per altri) alla Libreria delle Donne di Milano
Questo il mio intervento al dibattito di ieri sull’utero in affitto alla Libreria delle Donne di Milano. Con me, la filosofa Luisa Muraro e Daniela Danna, ricercatrice in scienze sociali all’Università Statale di Milano (purtroppo non dispongo di loro testi da pubblicare, né della discussione che è seguita, ma qui è visibile tutto lo streaming). A chi frequenta abitualmente questo blog gli argomenti che porto saranno in buona parte già noti. Sono molto soddisfatta della serata e ringrazio le tantissime che hanno partecipato.
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“Penso su questa cosa dell’utero in affitto più o meno in solitudine da tanti anni, ma a volte diventa tutto così complicato che non vorrei pensarci più per attenermi alla semplicità quello che Eduardo fa dire a Filumena Marturano, “i figli non si pagano“.
Ma in questi tempi di dirittismo esasperato le cose tendono a complicarsi. La verità della relazione madre-figlio è molto semplice ed è un fondamento di civiltà sottratto al mercato (appunto, i figli non si comprano e non si pagano). Quel due indistinguibile dall’uno è una delle poche verità fondative che ci restano. Anzi, lo metto in forma di domanda: che cosa c’è in quella relazione che va assolutamente preservato, e che cosa c’è invece che si vuole rimuovere e nascondere?
Se cominci ad ammettere eccezioni, se tu pensi che separare madre e figlio sia un’operazione ammissibile, che tutto ciò che le tecnologie riproduttive ti consentono sia eticamente e umanamente accettabile e in automatico possa tradursi in mercato e neo-diritti, quella verità ti esplode fra le mani e deflagra in una complessità ingovernabile e in un enorme disordine simbolico.
Quando nelle relazioni, quando per esempio in una famiglia si arriva a mettere tutto sul piano dei diritti vuole dire che le cose non stanno andando bene. Il “dirittismo” ossessivo e pervasivo con cui oggi si pretende di regolare la convivenza umana è il segnale che qualcosa sta andando storto, che c’è una guerriglia in atto.
Vi faccio un esempio di questo dirittismo esasperato: una bioeticista, Chiara Lalli, sostiene che è tutto da vedere se per i bambini che nascono da utero in affitto sarebbe preferibile non essere nati, dice che non abbiamo elementi per sostenerlo: e poiché quei bambini possono nascere solo con utero in affitto, negare questa possibilità equivarrebbe a negare a questi individui in potenza il diritto di tradursi in atto, ovvero di venire al mondo. Cioè si attribuiscono diritti non solo all’individuo esistente, ma perfino all’idea di individuo, all’individuo in potenza, a ciò che potrebbe essere individuo e ancora non lo è ma potrebbe esserlo.
Si tratta forse di riportare la questione da questo enorme disordine simbolico a quello che Luisa Muraro per prima ha chiamato ordine simbolico della madre, e forse è questo il tentativo che oggi faremo qui. Tanto per cominciare, facendo un po’ di pulizia su questi neodiritti.
Per esempio, il diritto alla “genitorialità, figlio di una cultura dirittistica e adolescenziale che non distingue tra desideri e, appunto, diritti, e fonda un diritto per ogni desiderio. Sarebbe come affermare il diritto ad avere un marito o una moglie: il mio diritto, semmai, è che nessuno mi impedisca di legarmi liberamente a qualcuno/a, ma non posso certo pretendere che mi venga garantito un legame affettivo. Così per i figli: ho diritto a metterli al mondo, se intendo farlo, ho diritto a che nessuno mi impedisca di diventare madre o padre minacciando per esempio di licenziarmi, come avviene correntemente alle giovani precarie (diritto per il quale si battono in pochi). Ho diritto a cure mediche ragionevoli, se la mia salute riproduttiva le richiede. Ma non posso chiedere che lo Stato mi garantisca di essere padre o madre a ogni costo e in qualunque condizione, fino a consentire un vero e proprio mercato dei figli. L’unica titolare di diritti è la creatura: diritti a cui le convenzioni internazionali riconoscono assoluta superiorità, e che nei discorsi sull’utero in affitto e più in generale sulla fecondazione assistita vengono invece tenuti spesso come terzi e ultimi.
Anche perché affermare un diritto significa ipotizzare un corrispettivo dovere: se, quindi, si pone un diritto alla genitorialità, chi è titolare del dovere corrispondente? se ho diritto ad avere un figlio, chi ha il dovere di darmelo? Una donna, al momento non c’è alternativa. Quindi toccherebbe alle donne farsi carico di questo dovere.
Un altro diritto di cui si discute è quello a fare del mio corpo quello che voglio.
Qui è interessante quello che ha detto Judith Butler, ovvero che “il corpo è mio e non è mio”. L’idea che il corpo sia solo mio è un trompe l’oeil, un’illusione, come tante volte abbiamo detto che è un’illusione l’individuo assoluto, cioè letteralmente sciolto da ogni legame e libero da ogni dipendenza. Questo in qualche modo è assunto dalla nostra legge e dalla nostra Costituzione, per la quale il corpo è indisponibile: non posso, cioè, farne sempre quello che mi pare, né tanto meno oggetto di mercato. L’unica eccezione è un uso solidale. Posso cioè donare sangue, midollo, o anche un rene a un consanguineo, ma non posso metterli in vendita o comprarli. Nessuno di noi ha perciò diritto di mettere in vendita parti del proprio corpo. E’ una limitazione alla propria libertà? Sì, lo è.
Anche nel caso dell’utero in affitto la legge ammette, ad alcune precise condizioni, la pratica solidale: i nostri tribunali hanno già ammesso casi di “utero solidale” dopo aver vagliato attentamente le situazioni, aver accertato l’esistenza di una relazione affettiva tra la donatrice e i riceventi, e aver escluso ogni passaggio di denaro. Si deve peraltro dire che l’utero solidale è solo un numero infinitesimo di casi.
Ma l’analogia si ferma qui: perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni vanno tenute per prime. L’esserci di questo terzo rende problematico anche il paragone dell’affitto di utero con la prostituzione. Nella cosiddetta libertà di prostituirsi c’è un accordo –anche se spesso niente affatto libero- tra due, qui c’è questo terzo che al momento dell’accordo non ha voce in capitolo, e che non può essere pensato come prodotto, ma è a tutti gli effetti il protagonista muto della vicenda.
E ancora, l’uguale diritto di uomini e donne, che non tiene conto della differenza sessuale. Quando si evidenziano i limiti “naturali” (ovvero fondati nella biologia dei corpi) che impediscono a molti desideri di tradursi automaticamente in diritti, molte e molti reagiscono con stizza, come bambini a cui sia negato di avere tutto ciò che vogliono e che di “no” (o magari di doveri che bilancino i diritti) non vogliono sentir parlare. Ma spesso si tratta di desideri indotti da un mercato che non si dà limiti di profitto, il cui obiettivo non è certo farci crescere in umanità, e che di consumatori-bambini ha sempre più bisogno.
Si fa la lotta per i diritti degli omosessuali, senza tenere conto della differenza sessuale che riguarda anche gli omosessuali. Si commette un grave errore quando sul fronte della genitorialità, secondo una logica paritaria fuorviante, si fa un tutt’uno tra gay e lesbiche, invocando “uguali diritti”. Non mettiamola sul piano di gay e lesbiche uniti nella lotta, mettiamola sul piano degli uomini e delle donne, a prescindere dall’orientamento sessuale. Ci viene per così dire in aiuto il fenomeno degli etero padri single, che in America sta diventando cospicuo. Si tratta di uomini single eterosessuali che si fanno “produrre” un figlio tutto per sé. Perché non hanno una compagna, o non intendono condividere con una donna l’esperienza della genitorialità. Una vera partenogenesi maschile, ha quanto meno un merito: quello di sgomberare il campo dalla questione dell’orientamento sessuale degli uomini che ricorrono a madri surrogate. E sgonfia la possibile accusa di omofobia nei riguardi di quel femminismo che lotta contro l’utero in affitto. In questione non è l’essere gay o etero. In questione è l’essere uomini che fanno scomparire la madre. E quale legame ha questa scomparsa con le radici del patriarcato.
Sulla scelta di una donna, lesbica o non lesbica, di diventare madre non è necessaria la mediazione della parola pubblica: è lei che decide, che sia sola o abbia un compagno o una compagna, con l’unica possibile differenza di non concepire, forse, se è lesbica, via rapporto sessuale. Nel caso di un maschio, invece, che sia gay o un eterosessuale deciso a concepire fuori da una relazione con una donna, la parola pubblica è decisiva, perché il suo desiderio necessita di almeno tre livelli di mediazione: dev’esserci un mercato dove acquistare ovociti e “affittare” uteri (o molto più di rado averli in dono); dev’esserci una medicina che ti assista, dal momento del prelievo (doloroso) degli ovociti, all’impianto dell’embrione, alla gestazione; dev’esserci un quadro normativo che ti permetta di condurre in porto l’operazione.
Non vi è, quindi, alcuna uguaglianza del corpo né “parità di diritti” su questo fronte fra uomini e donne, che siano etero o omosessuali. Questo è triste e doloroso per i gay che vogliono un figlio geneticamente proprio ma che non ama sessualmente le donne? Immagino di sì, ma non ci si può fare molto. Esiste pur sempre l’opzione di fare quel figlio con una donna che lo desideri, e che sarebbe sua madre (senza costringerla a scomparire).
L’utero in affitto ci riporta al dispositivo patriarcale nella sua purezza quando pensa alla madre portatrice come semplice contenitore-incubatore: la visione aristotelica fondativa del patriarcato postula la naturale inferiorità del genere femminile. Nella riproduzione, secondo Aristotele, il maschio è attivo, è il vero genitore che dà forma alla materia inerte femminile, la donna è invece “passiva” in quanto “è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore” (il maschio). Questa riduzione della potenza materna sta proprio al centro del dispositivo patriarcale, questo movimento di predazione dell’utero, mosso dall’invidia dell’utero, del vaso alchemico, è movente primario del patriarcato.
La coppa piena di sangue del Graal, eternamente ricercato, somiglia molto a quella coppa piena di sangue che è l’utero. Invidia dell’utero come ben sapete rovesciata dalla narrazione patriarcale nel suo punto più alto e sofisticato in invidia del pene. Ecco, forse il dibattito in corso sull’utero in affitto, ha quanto meno il merito di fare molta chiarezza, è un riflettore puntato sulla questione. C’è un dibattito su questo anche tra psicoanaliste che osservano il fenomeno e parlano di fantasma dell’utero vagante, scisso dal corpo, “di un’isteria collettiva –la radice di isteria è appunto la parola greca per utero- in un’epoca riconoscibile come borderline, nella quale si grida “diritti” ma non doveri, non attese, non rinunce”.
Chi pensa alle portatrici come semplici contenitori che alla fine della gestazione consegnano docilmente il prodotto ai committenti, si allinea alla violenza di questo pensiero patriarcale. La “semplice” portatrice non ha legami genetici con il bambino, ma ha importanti legami epigenetici, che influenzano il fenotipo (ovvero la morfologia, lo sviluppo, le proprietà biochimiche e fisiologiche comprensive del comportamento etc.) senza modificare il genotipo. In parole semplici, durante la gestazione tra lei e il feto avvengono scambi biochimici decisivi per lo sviluppo del bambino, scambi che continuano nella fase perinatale e che fanno di quel bambino quello che sarà”.
La madre è lei.
Agacinski, Muraro e altre: il femminismo contro l’utero in affitto, nuova prostituzione
Per l’Abolizione universale dell’utero in affitto: il Parlamento francese dedicherà la giornata del prossimo 2 febbraio a un convegno contro la maternità surrogata promosso da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, fondatrice del Collegio internazionale di filosofia con Jacques Derrida, docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, impegnata da anni nella lotta contro la maternità surrogata con la sua associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona) e autrice del saggio “Corps en miettes” («Corpi sbriciolati», Flammarion).
Con il coraggio del libero pensiero, Agacinski non si fatta fermare dalla paura di essere giudicata omofobica e antiprogressista, impegnandosi una battaglia contro l’orribile sfruttamento delle donne povere del mondo e il mercato della maternità. Una buona notizia per me e per quelle poche che nel femminismo italiano si sono impegnate su questo fronte.
In una lunga intervista ad Avvenire, Sylviane smonta l’ideologia del “diritto a un figlio” e chiede all’Europa di continuare a vietare questa pratica.
“Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa (…) Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione (…)
La Francia e la maggioranza dei Paesi europei si confrontano con lo sviluppo del turismo procreativo e la domanda d’iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madri surrogate in California, in Russia, eccetera. La Corte europea dei diritti dell’uomo tenta di forzare la Francia a trascrivere lo stato civile accertato all’estero in nome di un presunto interesse del bambino. Ma se gli Stati europei cedessero su questo punto incoraggerebbero cinicamente i propri cittadini a viaggiare per far uso di donne all’estero. Legittimerebbero la pratica, e in tal modo la loro legislazione nazionale non resisterebbe a lungo. Sì, occorre punire. Innanzitutto i professionisti che creano il mercato: avvocati, medici, agenti e intermediari. Poi, i clienti (…)
Certe femministe, di fatto molto minoritarie, difendono una presunta libertà delle donne di vendersi. In realtà, ciò equivale a sostenere la libertà di comprare le donne. Per quanto ci riguarda, vogliamo che la legge protegga tutte le donne dicendo che la loro carne non è una mercanzia(…)
Penso che accettino un mercato crudelissimo, spinte dal bisogno, oppure dal marito, come avviene in India. Devono così sacrificare la loro intimità e la loro libertà. Non dimentichiamo che la vita personale di una madre surrogata è strettamente regolata e controllata: la sua vita sessuale, il suo regime dietetico, le sue attività… Durante nove mesi, vivono al servizio di altri, giorno e notte. Queste donne sono vittime di sistemi che non hanno contribuito a creare. Se il mercato della procreazione non fosse costruito da tutti quelli che vi traggono un lucro enorme, ovvero le cliniche, i medici, gli avvocati e le agenzie di reclutamento, a nessuna donna verrebbe mai in mente di guadagnarsi da vivere facendo bambini”.
Un doppio sfruttamento, quindi: da parte dei clienti, committenti e intermediari, e da parte dei mariti o parenti che lucrano sul corpo delle “loro” donne tanto quanto i papponi, gestendole come animali da riproduzione. Come la prostituzione, o forse peggio, perché qui è coinvolto il terzo, la creatura (che in verità è il PRIMO).
“Ma se sulla prostituzione, che è un fenomeno molto antico, è difficile andare oltre a un contenimento se non con pratiche violente e repressive, siamo ancora in tempo per fermare la pratica dell’utero in affitto” dice Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano, convinta che nonostante la sovra-rappresentazione mediatica di un pensiero “progressista” mainstream che celebra il diritto ai figli e il mercato della maternità, la maggioranza delle cittadine e dei cittadini europei resti contraria alle pratiche di mercificazione del corpo. “Nella maternità surrogata non passa alcuna libertà femminile. Queste pratiche sono solo fonte di sofferenza per le donne”.
Sembra che resti quasi solo la Chiesa a vedere questa sofferenza: si può pensare di aprire un dialogo tra la Chiesa e il femminismo?
“Non si deve avere paura di stare dalla parte dell’etica cristiana, che mette la dignità delle persone umane davanti a tutto, e oppone l’amore, la sororità e la fraternità alle regole del mercato. La Chiesa oggi è quella che più di tutti si sta ponendo contro la logica capitalistica e mercantile”.
P.S.: prevengo l’obiezione. La questione a mio parere non riguarda affatto il cosiddetto “utero solidale” (tra sorelle, tra madre e figlia, o anche tra amiche, come è già avvenuto legalmente in Italia), dove tutto avviene nella relazione amorosa -accertata e non improvvisata allo scopo, e senza scambio di denaro- che tiene insieme madre genetica, portatrice e creatura, come un tempo madre, creatura e balia da latte.
Qui una successiva intervista di Avvenire a Luisa Muraro.
Aggiornamento 5 novembre: intanto l‘India pone limiti alla pratica dell’utero in affitto, e tutto il giro del business milionario si rivolta. Leggete qui.
Aggiornamento 6 novembre: segnalo un APPUNTAMENTO su questi temi alle amiche romane e non solo
Il Gruppo del Mercoledì invita Domenica 22 novembre, dalle 10 alle 17 Casa internazionale delle donne, via Francesco di Sales 7, Sala Simonetta Tosi Curare la differenza Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie Arcobaleno
L’attualità ci propone un dibattito angusto e ideologico sulla legge per le unioni civili, da decenni in attesa di approvazione in Parlamento.Lo spazio pubblico sembra racchiuso nella polarizzazione semplicistica tra la negazione di ogni possibile cambiamento per ancorarsi a stereotipi rassicuranti e l’utilizzo disinvolto delle bio-tecnologie e del mercato per trovare risposte a desideri anch’essi rassicuranti. L’incontro che proponiamo vuole recuperare lo spazio per una riflessione sulle scelte di vita e di relazione a partire dalla pratica della cura. Diversamente da altre occasioni non abbiamo scritto un nostro testo. Abbiamo preferito formulare delle domande. D. Questo incontro significa che il femminismo va a rimorchio della legge sulle unioni civili? R. Partiamo dall’attualità ma senza seguirla passo passo. Andiamo incontro al reale e alle questioni che, pur non essendo contenute nella legge, la legge sta sollevando. Sul matrimonio e sul legame d’amore; sul modo di intendere questo legame da parte di uomini e di donne; sul desiderio di maternità e di paternità; sul corpo e il rischio della sua sparizione.Vogliamo nominare i desideri, le passioni, le paure che si presentano intorno a questi temi. D. Come vi collocate rispetto alla questione del gender che ha prodotto schieramenti e divisioni anche violenti?R. Intanto a noi interessa discutere in un campo amicale. Con il nostro metodo, che è quello della politica delle donne: partire da sé e dare valore alle relazioni. Così il nostro gruppo si tiene insieme nonostante non la pensiamo allo stesso modo. Quanto al gender, la sua oscillazione con la parola “genere” è sintomo – ci sembra – della confusione e della scarsa cura nel nominare le cose. Eppure, è interesse delle donne e degli uomini non far sparire la differenza dei sessi.D. Non pensate che i diritti e dunque la legge siano lo strumento adeguato a sciogliere molti nodi che riguardano la discriminazione, l’umiliazione di chi fa scelte non in linea con l’eterosessualità?R. I diritti sono indispensabili ma non sciolgono tutti gli interrogativi. Addirittura, quando sono visti come risolutivi, rischiano di rendere seconde le relazioni e di schiacciare il fatto, incontrovertibile, che sia il pensarsi in coppia, sia il volere un bambino, rimandano sempre a vicende d’amore. D. Che significa curare la differenza?R. Significa avere attenzione alle relazioni. Una concezione individualistica che insiste sull’autocostruzione solitaria e solipsistica del soggetto umano non ci convince. Nessuno è del tutto autonomo. D. Non vi sembra che il punto della madre surrogata sia tirato fuori artificiosamente dal momento che la legge non lo cita?R. Ma è diventato un campo di battaglia. Certo, la madre surrogata è il punto più delicato, dal punto di vista femminista, nella costruzione di nuove famiglie. Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna? Come permettere la realizzazione di desideri senza mettere in gioco la libertà dell’altra? Non c’è il rischio di farne una mera questione di mercato? C’è differenza tra il desiderio di maternità e il desiderio di paternità, senza donne? Perché questo desiderio non sceglie l’adozione? Non riconoscendo nessuna differenza fra desiderio di maternità e desiderio di paternità, ritenendo che l’accesso alla genitorialità biologica sia un diritto universale e neutro, non ricadiamo nella conservazione dell’universo simbolico patriarcale? Vogliamo incontrarci su queste domande, per fare, se è possibile, qualche passo avanti.
Sull’orrore di Parigi, la filosofa Luisa Muraro, fondatrice della Libreria delle Donne di Milano, ha pubblicato queste righe sul sito della Libreria:
“I criminali che il 7 gennaio hanno fatto strage nella pacifica redazione di un settimanale satirico, non sono peggiori dei politici e militari che, cent’anni fa, hanno voluto la prima guerra mondiale. Non ci sono giustificazioni né per quelli né per questi.
La libertà d’espressione è un bene prezioso che va difeso con tutto il coraggio che abbiamo e i mezzi leciti di cui disponiamo. Per la stessa ragione, il bene di esprimerci liberamente va usato senza censure ma con la necessaria saggezza. Offendere i sentimenti profondi di donne e uomini non per una libera trasformazione della cultura ma solo per avere successo, come vendere più copie di un libro o di un film, questo non è saggezza. Peggio ancora è servirsi della libertà d’espressione per fomentare l’odio e la paura tra culture diverse, quale che sia lo scopo”.
Breve scritto che mi ha molto colpito.
Intanto perché Charlie Hebdo, forse proprio a causa della ferocia della sua satira che non risparmiava niente e nessuno, di copie ne vendeva di meno, non di più. La rivista non navigava in buone acque, stava antipatica a tanti, e la scelta di pubblicare le famose vignette su Maometto non può in alcun modo essere ritenuta un’astuta strategia di marketing, ma una libera e rischiosa scelta politica, pagata con il sangue che sappiamo (e che anche loro sapevano e temevano, vista l’ultima profetica vignetta del direttore Charbonnier, da anni nella lista nera degli jihadisti insieme ad altri giornalisti e artisti).
Su questa scelta si può dissentire, ma deve trattarsi di dissenso politico, non dell’accusa di voler fare audience.
Charlie Hebdo non intendeva “fomentare l’odio” religioso: al contrario, l’intento era quello di ridicolizzarne le ragioni e non piegarsi alle sue logiche. Per scelte del genere Theo Van Gogh è morto, e un buon numero di donne e uomini, da Ayaan Hirsi Ali a Irhasd Manji a Salman Rushdie, musulmani, ebrei, cristiani e atei, vivono in esilio, sotto fatwa e sotto scorta. Ogni giorno e per venti giorni, dopo essersi fatto un bel po’ di galera, il blogger saudita Raif Badawi sta ricevendo la sua umilante dose di 50 frustate in pubblico in mezzo a centinaia di uomini festanti, perché ritenuto colpevole di avere offeso l’Islam, mentre la sua famiglia è fuggita in Canada. A nulla sono valsi gli appelli di Amnesty International e Reporters sans Frontieres. Probabilmente il blogger saudita sarà un po’ più famoso di prima, sì: ma che abbia scritto quello che ha scritto per aumentare i clic, be’, credo proprio di no. L’avrà fatto, forse, perché riteneva di difendere in questo modo la sua libertà e quella di altre e altri.
Tutta gente poco saggia? Giudizio che mi impressiona, visto il prezzo che questa gente, suppongo dopo averci ben pensato, ha pagato e continua a pagare di persona per le proprie scelte libere e senza dubbio un po’ pazzoidi. Ma senza un po’ di pazzia mi pare che il mondo non sarebbe andato avanti, e neanche le donne avrebbero potuto rompere ciò che c’era da rompere. E’ stata saggia la ragazza iraniana incarcerata per aver voluto assistere a una partita di volley, in violazione dei divieti? Sagge le donne di Kabul che vanno dai parrucchieri clandestini, rischiando la pelle? Saggia Franca Viola, che rifiutò di sposare il suo violentatore, offendendo l’onore?
Ma il giudizio mi impressiona soprattutto per un’altra ragione: donne e uomini raffigurati come pronti a scattare permalosamente e pavlovianamente a fronte di provocazioni e offese, eventualmente lavabili con il sangue. Qui sì vedo un “noi” e un “loro” che non condivido. Quando penso ai musulmani, io non li penso così. Dato che ci vivo in mezzo -non abito in area C – e sono i miei vicini di casa, antipatici o simpatici come tutti, posso garantire che ne conosco di poco spiritosi e anche di molto spiritosi e propensi all’autoironia. Ho violentemente sbeffeggiato alcuni uomini sulla poligamia, sulle fidanzate di Maometto e sulle famose vergini che li attendono per deliziarli in eterno: a quanto pare sono ancora qui. Li offenderei di più, credo, se li trattassi come dei retrogradi incapaci di humour.
Ho vissuto da bambina e nello stesso quartiere il processo di integrazione degli immigrati che da Sud venivano a lavorare nelle grandi fabbriche del Nord: il film l’ho già visto. E io stessa sono per metà un’immigrata di terza generazione. Ricordo personalmente gli scherzi violenti di cui i “terroni” erano oggetto da parte dei colleghi nordici. Cose tremende. Ricordo un certo Totò, calabrese, che una sera reagì tirando fuori una pistola (l’offesa non posso dirla, fu terribile). L’amicizia si fece più salda. Ricordo anche un algerino –perfino il suo nome, anche se ero piccolissima, Bechir Fattah- a cui a sua insaputa venne servito un bel piatto di maiale. Credette di morire. Non morì. Burle feroci che quando ero piccola mi spaventavano, ma che hanno velocizzato i processi, bruciando le tappe, accelerando il metabolismo lento dell’integrazione fra differenze. L’umorismo, la satira, lo scherzo, il gioco come collanti universali.
Per questo mi spingo a dire che non solo i pazzi anarcoidi di Charlie Hebdo non intendevano affatto fomentare l’odio, ma anzi: che Charlie Hebdo a suo modo sperava di dare una mano a stemperarlo. Probabilmente con una qualche bislacca saggezza. Forse è proprio questo, la fine dell’odio, che fa più paura ai foreign fighters in cerca di adrenalina identitaria. Che si sentono insopportabilmente provocati, loro sì, anche dai deliziosi latkes, dagli schnitzel, e dai giochi dei bambini di un asilo ebraico, primo obiettivo mancato. Ma questo è tutt’altro discorso.
aggiornamento 16 gennaio 2015. Luisa Muraro precisa:
Temo di avere scandalizzato persone oneste e chiedo di poter tornare sul mio breve commento alla strage del 7 gennaio a Parigi.
Se devo pensare a chi fomenta odio e paura degli altri sfruttando la libertà d’espressione, mi vengono in mente alcuni saggisti politici, i predicatori fanatici, certi partiti politici e ultimamente anche qualche romanziere…
I redattori di Charlie Hebdo sono fuori da questa lista! Loro hanno fatto da bersaglio di un odio fomentato da altri. Era un rischio di cui avevano consapevolezza, va detto. Quanto al vendere più copie, perché no? Volevano far ridere e dovevano vendere più copie, anche da qui passa la nostra libertà d’espressione.
Per fortuna, alcune e alcuni hanno capito le mie parole nel modo giusto. Che non vuol dire per forza essere d’accordo. Un uomo che stimo mi ha detto: ma chi stabilisce la misura giusta della satira? Chi traccia il confine fra la provocazione che ferisce inutilmente e quella che, facendo ridere, spinge a mettere in questione la realtà data?
Bella domanda. Forse troppo, inutile porsela? Io non lo penso e la pongo, soprattutto perché miro a escludere il potere costituito da ogni possibile risposta.
Per me, quella giusta misura è affidata alla persona singola, in primo luogo. Da antica lettrice di Linus so che Wolinski ne era capace. Degli altri non so, non conoscevo la loro produzione. Tant’è che non ho fatto nomi. Ho indicato una questione che non è solo di bravura personale, questo è chiaro, ed è ancora in cerca di risposte, rendiamoci conto. Per cui bisogna tenere aperto lo scambio evitando giudizi che sarebbero prematuri e contrapposizioni che sono scorciatoie verbali. Del potere politico e mediatico con le sue messe in scena non c’è da fidarsi e le cose veramente importanti, difendiamole in autonomia.
Noi e loro: le donne dell’Islam, Isis, Allah. Conversazione con Luisa Muraro
Il numero di dicembre del periodico Via Dogana (l’ultimo, almeno per ora), edito dalla Libreria delle Donne di Milano, pubblicherà un articolo dal titolo “A proposito del sedicente Stato islamico (o Isis)” a firma di Aïcha El Hajjami.
Marocchina, Aïcha El Hajjami ha insegnato giurisprudenza a Fès e Marrakech, è ricercatrice e studiosa dell’Islam e si occupa in particolare dello studio e dell’applicazione del nuovo diritto di famiglia e della posizione giuridica e politica delle donne nell’Islam. È anche consulente per vari organismi nazionali e internazionali. È nota per aver tenuto una lezione al re del Marocco Mohamed VI durante il Ramadan del 2004 (vedi VD 75, Il re e la maestra).
L’intervento di Aïcha mi offre lo spunto per una (lunga) conversazione con la filosofa Luisa Muraro, che con lei è in relazione politica da anni, sui temi affrontati nell’articolo: Isis, Occidente, condizione delle donne. Partiamo dall’inumanità e dalla ferocia dei jihadisti, che secondo Aïcha sono “il prodotto di un’accumulazione storica di ignoranza e di frustrazioni… conseguenze di una lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabomusulmano fin dai tempi della colonizzazione; del sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici nella nostra area (Saddam Hussein, Gheddafi, fintanto che servivano i loro interessi!); della rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali;del perdurare dell’occupazione israeliana e del massacro della popolazione palestinese; della guerra in Afghanistan, di quella in Iraq, di quella in Libia… Senza dimenticare che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-URSS: Bin Laden era stato armato da loro”.
La chiave, dunque, per Aïcha è l’umiliazione. Analisi sulla quale si può facilmente concordare. Ma la diagnosi non costituisce una terapia: che cosa si deve fare per fermare Isis e le sofferenze che provoca?
“Il lavoro di Aïcha è provare a contenere e impedire il contagio del fanatismo tra i giovani maschi del mondo arabo musulmano, sia tra quelli che vivono in quei paesi sia tra i figli di immigrati nei nostri paesi. Lei lotta insieme a molte altre donne e uomini perché valga un’interpretazione più giusta dell’Islam e delle parole del profeta Maometto, contro la lettura fanatica e la rabbia vendicativa, peraltro già esplicitamente condannate da svariate autorità religiose”.
E con quali mezzi fa questo lavoro? Ci sono altre donne impegnate a farlo?
“Il 12-14 novembre ho preso parte a un convegno internazionale a Rabat al quale state erano invitate donne delle tre grandi religioni monoteiste, e anche, come nel mio caso, donne che portavano un contributo filosofico. L’Islam è l’ultima delle tre grandi religioni, e ha raccolto molto del messaggio sia del Vecchio sia del Nuovo Testamento. Per fare un esempio: riconosce Maria di Nazareth come profeta. Maometto non è che l’ultimo di una serie di profeti che comincia con Mosè, e in questa serie c’è anche Maria”.
Che per noi non è una profeta…
“Nella Chiesa delle origini la figura di Maria era tenuta in grande conto. C’è lei a pregare con gli apostoli, quando arriva lo Spirito Santo. E’ lei a capo di questa assemblea di uomini spaventati”.
Che cosa hai visto a Rabat a testimonianza dell’impegno antifondamentalista?
“Ho visto molte donne ben presenti nel vivo delle società di religione islamica: maestre, professoresse, teologhe, consigliere di entità politiche e religiose. Sono anche predicatrici: Aïcha, che è sunnita, è titolata a predicare nelle moschee, in più c’è il suo lavoro di consigliera. Altre invece sono teoriche pure, impegnate a dimostrare come lo spirito dell’Islam sia gravemente tradito dai guerrieri jihadisti. Secondo loro è un lavoro efficace, sia nei loro sia nei nostri paesi. D’altro canto le minoranze musulmane d’Occidente si sono spesso pronunciate contro Isis, benché anche da noi vi siano giovani malconsigliati che si uniscono al jihad”.
Colpisce che sia il medesimo libro, il Corano, a fondare sia il femminismo islamico che le atrocità di Isis. Si parte dalla stessa fonte, con esiti tanto diversi.
“E’ successo anche da noi. Nella civiltà europea premoderna, imbevuta di fervore cristiano, la fede è stata fonte di atti eroici, di grande devozione, della cura degli infermi in nome di Gesù… Ma nello stesso nome di Gesù altri andavano in giro a sgozzare il prossimo. Ho letto la bellissima lettera degli Ulema Sauditi al “califfo” Al-Baghdadi: gli dicono che sta sbagliando, e testo alla mano gli mostrano dove. Gli dicono: tu metti la spada allo stesso posto della misericordia, ma il Profeta ha sempre detto che la spada si usa limitatamente a certe situazioni, mentre la misericordia di Dio è assoluta, e trionfa, è scritta sul suo trono. Tu e i tuoi seguaci, gli scrivono, siete una ferita terribile per l’Islam, per i popoli musulmani e per l’umanità intera. Sul numero di via Dogana che ospita l’intervento di Aïcha è riportata la parola del Profeta, che spiega: Jihad piccolo è usare il coraggio e la spada, quello grande è tenere a bada i propri impulsi e istinti“.
Si può parlare di un movimento delle donne nei paesi islamici? Abbiamo menzionato personalità femminili eminenti, che fanno un grande lavoro: ma c’è qualcosa che somigli a un movimento delle donne come noi lo conosciamo?
“Ci sono paesi più vicini al nostro modo di concepire la politica, come la Tunisia: lì c’è una base di movimento femminista, con associazioni e gruppi, ispirato al femminismo francese. Ma c’è anche un femminismo che vuole salvaguardare e custodire i valori religiosi, un femminismo che passa attraverso la parola. Aïcha appartiene a questo tipo di femminismo. Io l’ho conosciuta a Parigi, lei ha spiegato la strada che stava intraprendendo con altre e ci sono state critiche di femministe marocchine che avevano una formazione laica, e che chiedevano la separazione tra Stato e Chiesa, tra religione e politica. Io invece mi sono convinta della bontà degli argomenti di Aïcha”.
Quel legame tra la libertà femminile e Dio, tu come lo pensi? Come un limite di quel femminismo o come una risorsa? Te lo chiedo in particolare per il fatto che hai dedicato gran parte del tuo lavoro degli ultimi anni al pensiero delle mistiche.
“La borghesia occidentale ha voluto la separazione non solo tra Stato e Chiesa, separazione che è benefica, ma anche tra religione e la politica. E’ un’operazione finta. Di tutto si può fare politica, anche della fede. E la borghesia ce ne ha dato più volte dimostrazione. Queste realtà che riguardano gli esseri umani non sono separabili. Sono anche sicura che una religione meno costruita della nostra, in cui c’entra molto il potere degli uomini e il prestigio del sesso maschile, una religione più libera, più fluida, come quella che si vive nella tradizione mistica, per le donne sia la possibilità straordinaria di dialogo interiore con l’Assoluto, con il divino, con l’Amore. Quelle che io ho incontrato ne hanno guadagnato forza per sé”.
Che cosa sta sfuggendo di essenziale nella percezione comune, quando parliamo di Islam? E in particolare quando parliamo delle donne di quei paesi, di cui in questo momento non sentiamo la voce?
“Ci sfugge la dimensione spirituale. Il senso della giustizia, della pietà, della misericordia. La puntura dell’interiorità, che non va intesa come la intendiamo noi. Si tratta di una dimensione interiore costantemente curata insieme al comportamento esteriore. Noi vediamo una interpretazione molto maschile dell’Islam, ma l’Islam non è quello. Nell’Islam c’è anche una cultura di separazione fra i due sessi. Noi la intendiamo solo come segregazione femminile. Ma in una società dove gli spazi sono più grandi dei nostri piccoli appartamenti, le donne hanno grandi spazi per vivere tra loro, e per vivere bene, con agio, una vita civile. Il nostro immaginario è deformato perché l’immigrazione mette queste donne e questi uomini in situazioni pesanti, difficili da sopportare, e quindi questo agio femminile qui non lo vediamo. Però non si può negare che nelle campagne povere l’Islam sia una forma di patriarcato, com’è stato il Cristianesimo nelle nostre campagne povere fino a non molti decenni fa, quando gli uomini comandavano totalmente sulle donne, e questo veniva rivestito di Cristianesimo”.
Aisha scrive: “Abbiamo bisogno di un pensiero critico sul nostro patrimonio religioso e culturale, così come sulle sfide che ci vengono dalle ricadute della modernità e dalla globalizzazione. Dobbiamo occuparci di risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne. Bisognerebbe anche agire sugli aspetti economici dello sviluppo e aver cura di assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali. Il jihâd di cui abbiamo bisogno è quella del pensiero. Ha un nome nella nostra cultura: l’ijtihâd”. Non dovremmo, a tuo parere, contribuire da occidentali a questa lettura critica? Dire esplicitamente, per esempio, che per una donna e per la sua libertà quella cultura è meno ospitale della nostra?
“No, non sarebbe giusto. Le differenze culturali sono così profonde che rendono incommensurabili le situazioni. Il nostro compito è far conoscere la nostra cultura e la nostra civiltà senza complessi, ma anche conoscere meglio, più profondamente e dare più ascolto alla loro civiltà”.
E quali sono le occasioni di ascolto, qui in Occidente?
“Ormai nelle periferie è possibile intrecciare relazioni reali con questa gente. Nella scuola dei miei nipotini ci sono brave maestre che stanno facendo un grande lavoro di integrazione rispettosa. Davanti a scuola vedi madri di bambine e bambini italiani e stranieri. In attesa della campanella ascoltavo i discorsi, e devo dire che talvolta le cose andavano bene, talvolta no. Molte madri milanesi erano esposte all’influsso di discorsi xenofobi, ripetevano luoghi comuni, magari anche con argomenti non infondati: bisogna sapere ascoltare le popolazioni delle periferie che sono messe in difficoltà da questa immigrazione povera. Il problema è questa povertà. L’Islam che queste mamme milanesi vedono è povertà e difficoltà”.
Ma se non ammettiamo l’inevitabilità di un quid di xenofobia, rischiamo che siano i razzisti e gli xenofobi veri a dare parole estreme a questi sentimenti di disagio…
“Sono d’accordo. Occorre generosità sia nei riguardi degli immigrati sia nei riguardi di quelli che fanno fatica in questa convivenza. Prima avevano una vita tradizionale in cui i loro modi di pensare e di essere erano pacifici e universali, e all’improvviso si trovano davanti a presenze che li mettono in discussione. In più c’è il problema della lingua, del capirsi. Le maestre fanno grande opera di civiltà. Non fanno prediche a nessuno, mostrano affetto per i bambini degli immigrati e quindi sono amati dalle loro madri e dai loro padri, e poi hanno buoni rapporti con le madri locali, fanno feste a fine anno dove tutti contribuiscono con il loro cibo. Questo lo fanno anche tante associazioni, le parrocchie, sempre all’insegna del buon esempio e senza fare prediche. Bisogna essere severi con chi per tirare su voti semina odio: con questi no, non si deve essere indulgenti”.
Al di là di queste relazioni quotidiane, con queste donne si può costruire un legame più propriamente “politico”? Un lavoro di coordinamento, di riflessione comune?
“Io ci riesco solo a livello di scambio colto con studiose di quei paesi. Ma il livello “politico” come lo intendiamo noi, che con la Rivoluzione Francese, e via via con i partiti di sinistra, con il movimento operaio e così via, ci siamo abituati a un agire che coinvolge anche i ceti medi, anche le persone meno attrezzate e più semplici, in altre situazioni non esiste. Per esempio sono stata in Africa, nel Burkina Faso, e ho provato a spiegare alle donne di lì questa forma di agire politico, ma non sono riuscita a fare loro capire che cos’è. Loro concepiscono provvedimenti calati dall’alto che aiutino i poveri. L’idea dei movimenti, della mobilitazione sfugge”.
Recentemente a Padova c’è stato il caso di alcuni profughi che hanno rifiutato di essere visitati da mediche, e l’Asl ha dovuto richiamare tre medici maschi pensionati per accontentarli.
“Dicevamo prima che loro sono abituati a una forte separazione tra i sessi. Vedersi toccare intimamente da una persona dell’altro sesso contravviene a un forte pudore che è anche maschile. Anche a Rabat c’erano uomini, partecipanti al convegno o servizio d’ordine o camerieri. Loro evitavano il contatto fisico in ogni modo. Quella Asl ha fatto molto bene, è stato un atto diplomatico e di grande civiltà”.
Tu non vedi il rischio di assecondare sentimenti misogini?
“Le emozioni che una persona ci mette dentro possono essere le più varie. Ma le interpretazioni –è misoginia, è disprezzo eccetera- ci portano già nel terreno scivoloso della mancanza di rispetto per l’altro”.
Ma dopo questo primo impatto in cui vengono dimostrati rispetto e pazienza, non si può cercare di spiegare: qui le cose vanno diversamente, dovete adeguarvi?
“Il tema è quanta capacità di adattamento abbiano questi immigrati. Io credo che la capacità sia diminuita dalla rabbia per quello che hanno vissuto nei loro paesi. Lì si è accumulato risentimento verso l’Occidente che li ha colonizzati, sopraffatti. Non è stato dato loro il tempo di recuperare il ritardo in cui sono finiti perché lo sappiamo com’è il capitalismo, che ha la terribile fretta del profitto. I cinesi si difendono bene e si adattano velocissimamente, e in fatto di capitalismo abbiamo solo da imparare da loro. I latinoamericani si inseriscono facilmente, favoriti dalla lingua e dalla comunanza di religione. Per i musulmani è più difficile. Sono popolazioni orgogliose e irrigidite nelle loro posizioni. In città meno grandi di Milano ho fatto esperienza di donne mussulmane ospitali e rilassate. Ricordo che anche tra gli emigrati italiani nella zona miniera del Belgio, che ho visitato da giovanissima, le donne davano prova di maggiore elasticità degli uomini, specialmente dei padri di famiglia”.
La ragazza con l’orecchino di diamante. Segni di autorità femminile
Si è svolto domenica 30 a Roma -partecipatissimo- l’incontro “Invito al passo avanti, d’autorità”.
Qui un resoconto della giornata di lavori -parziale e in soggettiva: mi scuso per le non-citate e per chi sarà menzionata solo in sintesi- presso la splendida Casa Internazionale delle Donne (che invidia, amiche romane!).
Graziella Borsatti, ex-sindaca di Ostiglia: “La parola responsabilità è ciò che ci rende diverse dal potere. Si tratta di trovare le pratiche per la nostra politica. Nei luoghi dell’amministrare c’è quasi la vergogna di affermare il primato delle relazioni e il linguaggio della differenza. E’ necessario mostrare al mondo questo modo diverso di stare nella politica“.
Loredana Aldegheri, Mag Servizi di Verona: “Noi pratichiamo un’economia che non si vuole disgiunta dalla vita. Ciò che abbiamo imparato a fare nei contesti piccoli oggi può servire nei contesti grandi, per una nuova civiltà che agisce e prospera. Si tratta di guadagnare con sobrietà per guadagnare tutti. Ma parlo anche di un guadagno non monetario, di un guadagno di relazioni e di fiducia. E’ necessario, come dice Luisa Muraro, togliere al denaro l’esclusività di renderci grandi. Autorità è esserci integralmente, con i desideri e la responsabilità”.
Luana Zanella, ex-deputata, ex-assessora a Venezia: “Oggi faccio una politica più libera, fuori dalle istituzioni. Cercare di portare la differenza in politica è stata una traversata della città infinita. Eppure perfino l‘Onu oggi riconosce le donne come leader di una nuova civiltà, presenza indispensabile dove ci sono rischi per il pianeta. Pensiamo a tante donne di paesi terzi, che hanno assunto responsabilità di governo in quanto “sanno come si fa”. Si tratta di fare incontrare questa domanda con l’offerta, e di esercitare questa autorità nei contesti. In Italia ci sono 930 sindache (più o meno il 10 per cento del totale) e moltissime assessore, consigliere, oltre alle dipendenti. Un’enorme massa di donne che si dovrebbe intercettare e mettere in rete“.
Franca Fortunato, Rete delle Città Vicine: “In Calabria è accaduto qualcosa di inaudito, in pochi anni le donne sono riuscite e mettere in crisi la ndrangheta. Fino al 2010 non c’erano mai state collaboratrici di giustizia. Poi alcune hanno cominciato a trovare la forza di rompere, con un gesto da sovrane, in forza della relazione madre-figlia, come nel caso di Lea Garofalo e di sua figlia. Dall’altro lato, molte donne si candidano a lavorare nelle istituzioni, mostrando come “governare non è rappresentare”. Ormai sono in molte e in molti a pensare che il rinnovamento in Calabria lo faranno le donne”.
Letizia Paolozzi, giornalista, autrice di “Prenditi Cura”: “Le donne hanno fatto ovunque il passo avanti d’autorità, ma nelle istituzioni non è ancora capitato. Quando entrano nelle istituzioni è come se si deformassero. Ma anche lì bisogna starci”.
Daniela Dioguardi, Udi, ex-parlamentare: “Mi ha molto colpito Federica Mogherini che interrogata da Corrado Augias: “Vuole essere chiamata ministra o ministro?”, ha risposto seccamente: “Ministro!”. Ma si deve saper lavorare anche con le donne che la pensano diversamente da noi. Dobbiamo contrastare il dogma della parità, perché la misura di questa parità è maschile. I miei due anni in Parlamento li ho vissuti in modo molto negativo”.
Gisella Modica, Udi di Palermo, Società Italiana delle Letterate: “Sono riuscita a riconoscere l’autorità anche attraverso un percorso che ha a che fare con il mio corpo. Ci sono state donne molto umili che mi hanno fatto capire che cos’è l’autorità. Sentendo i racconti della lotta per l’occupazione delle terre, ho saputo di una donna che prima di andare a occupare si metteva gli orecchini di brillanti. La chiamavano la baggianusa, la vanitosa, ma quello era il suo modo per darsi autorità. Ci sono tanti gesti di donne come questo, ma questi gesti hanno bisogno di essere nominati. Invece quando parliamo di politica anche noi usiamo il linguaggio degli uomini. Di questa sovranità femminile rimangono questi gesti e poi il dialetto, la lingua materna che mischia sempre il vero e l’immaginario, la vita reale e il sogno”.
Stefano Ciccone, Maschile Plurale: “Anche nella politica degli uomini ci sono relazioni, emozioni e desideri. Ma oggi gli spazi di dialogo si sono impoveriti e isteriliti. Forse molte donne, una volta entrate nelle istituzioni, non credono abbastanza nella forza di quel pensiero che invece praticano fuori da quegli spazi. Io non sento l’importanza della parola “autorità”, sento invece molto quella delle relazioni portatrici di senso e di trasformazione. Noi uomini dobbiamo imparare a mettere in gioco il desiderio maschile contro un potere che ha mutilato le nostre vite“.
Katia Ricci, Rete delle Città Vicine, Foggia: “Frida Kahlo, di cui è in corso una bellissima mostra a Roma, è stata sovrana nella sua capacità di fare del suo corpo opera d’arte, nonostante le sofferenze fisiche. A Stefano Ciccone dico che autorità è proprio questo: una relazione trasformatrice e portatrice di senso“.
Laura Ricci, Associazione Il Filo di Eloisa, Orvieto: “Mi sento sovrana come Cristina di Svezia, anch’io come lei ho fatto la mia migliore politica quando sono uscita dalle istituzioni, con il mio quotidiano online. Ora mi hanno chiesto di diventare sindaca di Orvieto”.
Bianca Bottero, Le Città Vicine: “Dobbiamo pensarci in un mondo più di città che di nazioni, come dice Saskia Sassen. E nelle città le donne contano”.
Silvia Zanolla, Verona: “Bisogna accettare il fatto che non possiamo esserci tutte. Si deve avere fiducia in quella che ha il più di intelligenza necessario a muoversi”.
Adriana Sbrogiò, Associazione Identità e Differenza, Spinea (Ve): “Mi sento sovrana in quanto sempre stata fedele a me stessa. Ci sono le tentazioni: il potere, il prestigio, il denaro. Ma per me il patrimonio più grande sono le relazioni”.
Annarosa Buttarelli, filosofa, autrice di “Sovrane” (da cui il convegno ha preso le mosse): “Il passo avanti d’autorità è in corso, nell’orizzonte di una nuova genealogia dell’autorità, come indicata nel libro di Luisa Muraro. E’ qualcosa che ha a che fare con la generatività, che parteggia per le ragioni della vita e per il suo meglio, che fa fiorire le relazioni e si prende cura delle anime. Si deve intrecciare tutto questo con la terza ondata del femminismo, ma anche con il “prendersi cura” di cui parla Letizia Paolozzi, e con quello che dice Carol Gilligan in “La virtù della resistenza. Resistere, rifiutare, non credere”. Lei dice che l’etica della cura è l’unica prospettiva per la democrazia. Oggi, alla fine del patriarcato, le istituzioni sono allo sbando perché sono rimaste prive di un orientamento simbolico. Per esempio si parla molto di riforme, ma le riforme sono una cosa diversa dalla trasformazione: e questo sarebbe un momento di grandi trasformazioni, bloccate dalle riforme. Chi vuole andare a governare deve sapere che va in luoghi in cui gli strumenti sono da ripensare e ricollocare. Con la finanza internazionale al governo del mondo non esiste più il potere come l’abbiamo conosciuto. Zygmunt Bauman parla della separazione di potere e politica che nessuno sa risolvere. Noi donne sappiamo risolverla: questa è la responsabilità, che è anche gioiosa perché coincide con il nostro orientamento interiore. Essere sovrane è questo: il lavoro di trasformazione -esteriore/interiore-. Gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione sono spuntati, e ne servono altri: in “Sovrane” indico non soltanto nuove pratiche, ma anche fondamenti partendo dai quali si può rigenerare la rappresentanza. La cosa importante è non cedere in radicalità, nemmeno di un millimetro, o si perde tutto. La radicalità femminile è la sola garanzia”.
Infine, quello che ho detto io: servono modelli di un percorso inverso, che non va come al solito, secondo una logica di carriera “ascendente”, dalle pratiche utili e contestuali del lavoro locale alla rappresentanza, dove spesso si diventa inutili. Ma che semmai utilizza il “prestigio” accumulato nei luoghi della rappresentanza per tornare a lavorare nei contesti locali, e con maggiore efficacia. Purtroppo oggi le cose sembrano andare almeno in parte in un altro verso, in direzione di un neocentralismo, addirittura nell’imbuto del leaderismo spinto e dell’uomo solo al comando. Il lavoro è invece spostare potere dal centro per farlo diventare autorità nei contesti, seguendo la lezione di Evelyn Ostrom sui beni comuni. Questo non avviene anche per ragioni di soldi. Le donne spesso lasciano il lavoro politico nei contesti per andare a perdersi nell’astrazione della rappresentanza centrale perché vengono meglio remunerate in queste posizioni. Così spesso si tagliano gli investimenti nel locale per demagogiche ragioni di “risparmio”. Insomma, i soldi sono la ragione di buona parte degli errori politici che si commettono. E si dovrebbe attentamente ragionare su questo. Cito anch’io e nuovamente Luisa Muraro: si tratta di togliere al denaro l’esclusività di renderci grandi.
Nella circostanza della recente elezione-rielezione del Presidente della Repubblica, tanti “semplici” cittadini hanno ritenuto di dover dire e perfino strillare la loro, benché sapessero che la Costituzione delega interamente la faccenda ai Grandi Elettori.
Al di là del “chi” e delle questioni strettamente istituzionali –la possibile transizione verso una Repubblica presidenziale- la domanda era di un/una Presidente dotato di tutta la forza necessaria a guidare il Paese, eppure “lontano dal potere”. Come se nel senso comune sopravvivesse l’idea di un’autorità che non ha a che vedere con il potere, che non è affatto un suo sinonimo. E anzi, che è proprio il contravveleno per il potere e i suoi abusi.
Da dove viene, questa idea di autorità? Che storia ci racconta questa parola?
Il linguista francese Émile Benveniste la rintraccia nel significato arcaico del latino augere: “atto di produrre dal proprio seno; atto creatore che fa sorgere qualcosa da un ambiente nutritivo e che è il privilegio degli dei, non degli uomini” (ma anche un po’ delle donne, volendo, e della potenza materna, che viene ben prima e va ben oltre ogni grossolano potere).
Traggo la citazione da un piccolo e scandaloso (nel senso che fa proficuamente inciampare) libro di Luisa Muraro, “Autorità”, Rosemberg & Sellier. Che partendo dai “pregiudizi, timori, avversione, malintesi, ma anche appelli e nostalgie” intorno all’idea di autorità, giunge a concludere che “coltivare il senso dell’autorità è una scommessa in favore di qualcosa di meglio per l’umanità e la civiltà… consapevolmente alternativa al culto del dio potere”.
L’autorità “non ha un fondamento, essa è un fondamento”, e lo è misteriosamente, per come tutti ne facciamo esperienza.“Può agire senza i mezzi del potere e del dominio”. Ha bisogno della libera fiducia della relazione, e si rinnova così, di volta in volta. Mentre il potere, che si dà una volta per tutte, dalla messa alla prova della relazione è costantemente minacciato, e se ne tiene alla larga.
La buona novella è questa: che “la forza fisica… non può sconfiggere l’autorità, perché questa è di un altro ordine”. Ordine che si richiama alla “relazione materna, relazione di somma disparità (tra la madre e il figlio neonato, ndr), di molta vicinanza fisica e di nessuna gerarchia”.
Quando si parla di un mondo più femminile, conviene pensare a questo.
CIBO DELL’ANIMA CIBO DEL CORPO
è il titolo di un ciclo di Tre lezioni di filosofia di Luisa Muraro
(su invito di Ida Faré, Rossella Bertolazzi e Sandra Bonfiglioli)
al Circolo della rosa, presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29 Milano – tel. 02 70006265
Primo appuntamento domani, martedì 9 aprile 2013, ore 18.30
Tiratevi su, si torna a combattere
È una nuova versione del “discorso del Castello” fatto al Castello Sforzesco di Milano per il Bookcity 2012, in cui molte/i sono rimaste fuori per il numero limitato di posti. Il discorso prende le mosse da una frase del poeta Wallace Stevens “La realtà divenne violenta e tale è rimasta”.
Lui si riferiva alla seconda guerra mondiale. Io penso al nostro presente. Senza però dimenticare né il passato né il futuro: questa lezione è dedicata ai morti della prima guerra mondiale (tra i quali, i due fratelli maggiori di mia madre), guerra della quale l’anno prossimo ricorrerà il primo centenario europeo; quello italiano sarà nel 2015.
qui il video della prima lezione
ed ecco gli altri due incontri
– martedì 16 aprile 2013, ore 18.30
La frana del patriarcato
In due parole: la frana del patriarcato non finisce di franare e vengono allo scoperto cose impensate. Prendete un posto in prima fila, ma attenzione che c’è da pagare.
Questa seconda lezione riprende e sviluppa il mio contributo al Colloque international di Parigi, 28-29 novembre 2012, dedicato a Françoise Collin. Il titolo era Il prezzo pagato, e di questo parleremo, di un prezzo parte già pagato e parte da pagare. La lezione è dedicata a Françoise Collin e a Francesco I (intendo il nuovo vescovo di Roma e papa).
– martedì 23 aprile 2013, ore 18.30
C’è una vis politica
La politica non è solo arte, è anche vis: forza, slancio, azione, impeto…, da cui viene anche violare (e violenza). Questa lezione prende le mosse da Michel de Montaigne e finisce con Lia Cigarini, passando per Hannah Arendt. In essa anticiperò una parte delle mie ultime ricerche, destinate a un librino della collana Le perle, editore Rosenberg & Sellier, intitolato Autorità. La lezione è dedicata a Donne TerreMutate dell’Aquila.
Ogni lezione sarà seguita da un buffet preparato dal gruppo Estia del Circolo della rosa e il tutto, cibo dell’anima e cibo del corpo, sarà offerto alle/ai partecipanti per dieci euro.
Qui lo streaming della seconda lezione di filosofia di Luisa Muraro, titolo: Un piede in due staffe http://qik.com/video/58118737
Ne ho parlato qui prima dell’estate, ma anche qui, e qui, e ancora qui, e poi qui, e un’infinità di altre volte.
Ora leggo sul quotidiano “Metro” un interessante corsivo di Luisa Muraro, che torna sul tema dopo la presa di posizione del sindaco di Milano Giuliano Pisapia a favore dell’adozione da parte delle coppie gay.
Ecco il testo di Muraro, dal quale mi sento perfettamente rappresentata.
“Meglio avere genitori omosessuali che non averne affatto”, ha detto il sindaco di Milano, secondo i giornali. Avrà detto proprio così? Me lo chiedo perché in queste parole ci sono due semplificazioni.
Avere dei genitori non è sempre meglio del non averli. Ci sono genitori indegni del loro compito. Quanto all’adozione, Pisapia sa bene che la nostra legge è diventata molto prudente nel concederla. Troppo, dicono alcuni, senza sapere dei molti bambini prima adottati e poi respinti. Ci vuole una valutazione severa, per esempio: sono adatti alla paternità i politici di professione, gli artisti?
Seconda semplificazione. Il sindaco ha parlato di coppie omosessuali, senza specificare se maschili o femminili. Ma è una differenza enorme. Le coppie femminili che desiderano figli, possono averli e così già fanno, con il tacito consenso della società circostante. Il problema si pone alle coppie maschili, in quanto naturalmente e ovviamente sterili.
Qui non prendo posizione pro o contro l’adozione. Affermo soltanto che, quando si ha davanti un problema, conviene dirsi chiaramente come stanno le cose. Il problema dell’adozione è degli uomini, non delle donne. E dietro alla pressante richiesta maschile di poter adottare, potrebbe nascondersi un’antica invidia verso la fecondità femminile. Mi sbaglio? Non lo escludo, ma in tal caso l’uomo dica apertamente: perché non voglio chiedere a una donna il dono di diventare padre? perché voglio fare la madre io?
E non riduciamo il problema a una questione di diritti. A questo mondo i desideri, compresi quelli giusti, non si traducono automaticamente in diritti.
Ricevo e pubblico un testo inedito di Luisa Muraro
Lunedì sette maggio, verso le sette del pomeriggio, sono entrata in un bar e ho ascoltato, dalla televisione accesa, la notizia di una donna uccisa dal marito in seguito a un “banale litigio”, a Napoli. Un’altra, un’altra e un’altra ancora. Nel bar è corso un brusio. Da dove nasce l’odio maschile per le donne? Che cosa nasconde?
Si tratta di un odio abnorme, che tira fuori il suo muso di assassino quando, per una ragione qualsiasi, lei non sta più dentro il quadro in cui lui l’ha messa e pretende che rimanga: il quadro disegnato da un misto di oscure aspettative e di ovvie comodità.
In passato, le nostre madri e antenate hanno speso tesori di pazienza e d’intelligenza per corrispondere alle esigenze maschili senza diventare sceme o pazze. Non tutte ci sono riuscite.
Oggi molte, la grande maggioranza, non ci stanno più. Si sentono libere e intendono comportarsi di conseguenza. Risultato: un crescendo di violenza maschile.
Fulvia Bandoli dice la cosa giusta quando, nell’appello agli uomini del suo partito, mette sotto accusa il loro atteggiamento d’ignoranza e disattenzione verso la novità storica della libertà femminile. L’ostacolo maggiore in questo momento storico è, infatti, l’arretratezza mentale e morale di uomini che hanno usato la propria posizione privilegiata per non cambiare. Ne cito uno soltanto, il più illustre della vasta schiera: Dominique Strauss-Kahn. Che si è messo fuori gioco con i suoi stessi eccessi. I mediocri, invece, resistono incollati ai loro posti.
“Quel maschio fragile che non accetta limiti” s’intitola il contributo della psicanalista Massimo Recalcati per fare luce sul tema. La psicanalisi comincia dunque a registrare che gli uomini arrivano impreparati all’appunto con la libertà femminile. Si tratta, suppongo, di un contributo iniziale. Per considerarlo un inizio promettente, e non la testimonianza d’obbligo in questo momento di mobilitazione anche maschile, mancano secondo me due spunti.
Primo, Recalcati non parla a partire da sé, uomo di sesso maschile. E tace ogni possibile legame tra la violenza sessista e la sessualità maschile con le sue ordinarie caratteristiche. I violenti vengono da lui compresi dentro un quadro patologico. Ma non è così. O così non risulta all’esperienza di donne che hanno conosciuto la violenza maschile. Ci sbagliamo noi o l’analista sta esorcizzando la sua propria violenza?
Secondo, Recalcati ignora l’incidenza della realtà storica. Parla, per esempio della “legge della parola” che unisce gli esseri umani, ma viene calpestata dai comportamenti violenti. Non so l’origine di questa formula “legge della parola”; se l’espressione ha un senso, non può non far pensare che le donne sono state escluse per legge dalla presa di parola in pubblico, dalla scrittura e dalla lettura, dal parlamento… Con innumerevoli conseguenze ancora vive e attuali nei rapporti fra i sessi. Contro cui, temo, l’ideale legge della parola enunciata da Recalcati non ha voce.
Ancor più pesa sullo stato dei rapporti fra i sessi il fatto che il cosiddetto contratto sociale, fatto per tutelare i cittadini dalle violenze dei prepotenti, non ha mai tutelato le donne dalla violenza privata maschile. Mai, in nessun paese del nostro civile Occidente.
Come si possa leggere insieme, ma senza fare confusione, la realtà storica e quella soggettiva, io non so, ma che si debba tentare, non ho dubbi, perché l’una e l’altra in me sono scritte insieme, sulla stessa pagina.