Dopo Covid-19 l’accelerazione riformista non basta. Donne di tutto il mondo sono al lavoro per un cambio di paradigma. Questo il nostro contributo alla discussione: i corpi al centro, con il loro spazio-tempo inviolabile, e un’altra idea di lavoro. Appunti per un Manifesto sulla Città, luogo della trasformazione e della politica
Depressione maschile, efficacia femminile: il mondo che viene avanti
Non si deve avere paura: il contrattacco maschile è solo qui e ora, destinato a finire. In cerca della nostra efficacia, tenendo all’orizzonte il cambio di civiltà
Piano per la fertilità? No, serve un piano contro la cattiva politica
Spiacente, ma il nome non funziona. Perché non imposta correttamente il problema. C’è falsa coscienza.
“Piano nazionale per la fertilità”, come l’ha chiamato la ministra della Salute Beatrice Lorenzin, annunciando un tavolo che studierà la nostra denatalità (1.23 figli per donna) e le misure per incrementare le nascite, ricorda troppo i “figli alla patria”, non pone al centro la libertà femminile, che è il principale fattore in gioco, e la politica che la ostacola.
Vero: alle ragazze e ai ragazzi va ricordato che la funzione riproduttiva è un meccanismo delicato e a tempo -non c’è fecondazione assistita che tenga – e che le infezioni a trasmissione sessuale possono compromettere la fecondità. Che ci sono comportamenti -come l’abuso di sostanze, dal tabacco alla marijuana, i disturbi dell’alimentazione e l’eccessiva sedentarietà- che diminuiscono le probabilità di concepire. Ma se poi la politica non mette fuori legge gli ftalati, componenti di oggetti in plastica, creme solari, saponi e dentifrici (le ricerche hanno ampiamente dimostrato che sono un vero killer per la fertilità maschile) c’è poco da dirgli di non farsi le canne.
Il principale fattore di rischio resta senz’altro l’età, giusto avvisare.
Da noi l’età media in cui una donna partorisce il primo figlio è 31.4 anni, quando la possibilità di concepire è già ridotta del 60-70 per cento (nella gran parte dei paesi europei le primipare hanno 27-29 anni). Ma se la politica non interviene contro inoccupazione, instabilità del lavoro, scarsa o nulla tutela della maternità per non occupate, lavoratrici autonome e precarie, dimissioni in bianco, carenza di welfare e servizi di cura, caro affitti e zero mutui; se la politica non promuove un cambiamento culturale, assumendo con determinazione l’evidenza che le donne fanno più figli quando lavorano e non quando stanno a casa come piacerebbe ancora a molti uomini, politici compresi, c’è poco da incoraggiare a fare i figli prima.
L’intervento sociale, quindi, è prioritario per una prevenzione dell’infertilità e sterilità. Lavoro per le donne e welfare = aumento del Pil e delle nascite. Le politiche francesi hanno quasi raddoppiato la natalità. Non impedendo più alle donne che lo desiderano -se lo desiderano- di mettere al mondo bambini.
E’ il libero desiderio delle donne a essere decisivo, e a non dover essere ostacolato dalla cattiva politica.
AGGIORNAMENTO sabato 4 ottobre: mi spiegate a che cosa serve studiare l’infertilità italiana, se poi si aumentano le rette degli asili nido?
Caro Presidente Monti,
Natale di lavoro per molti, questo. Anche per me, si parva licet. E poiché quest’anno sono esentata dal turno cucina -dietro ogni piccola donna c’è sempre una grande donna che l’aiuta in casa, con i bambini, con gli ammalati e tutto il resto- posso permettermi di stare qui all’alba del 25 dicembre a scriverle, non senza averle prima rivolto i miei auguri.
E’ consolante che nella sua Agenda lei abbia parlato di noi donne, e lo abbia fatto evitando l’ottocentesca locuzione “questione femminile”: perché in questo Paese, si sa, la questione è tutta e pervicacemente maschile. E che abbia riferito quel famoso dato espresso dalla Banca d’Italia, secondo la quale, come lei ha detto, “se raggiungessimo il traguardo fissato dal Trattato di Lisbona – un’occupazione femminile al 60 per cento – il nostro Prodotto interno lordo aumenterebbe del 7 per cento”. Molte di noi si sono chieste, in questi anni, perché questa grande opportunità non venisse colta senza esitazioni.
Anche dal suo governo in verità ci saremmo aspettate di più: speranza corroborata dal fatto che per la prima volta nella storia di questo Paese a discutere di riforma del lavoro c’erano tre donne -Fornero, Marcegaglia, Camusso- che a quel tavolo avrebbero finalmente potuto portare tutta la competenza delle donne in materia: perché da sempre e ovunque nel mondo sono le donne a lavorare di più, il lavoro è un’esperienza prevalentemente femminile, che sia una faccenda da uomini è solo un trompe-l’oeil ideologico. Ma è come se di quel fatto essenziale -essere donne, con tutto il loro grande sapere – le nostre protagoniste si fossero dimenticate, come se l’avessero messo tra parentesi: capita spesso alle poche donne che riescono a entrare nella politica degli uomini. La lingua delle donne non è entrata in quella trattativa.
Sono una delle 188 firmatarie dell’appello per il ripristino della legge 188 sulle dimissioni in bianco, norma abrogata dal governo Berlusconi: pratica violenta, discriminatoria e iniqua che rappresenta perfettamente la profonda misoginia del nostro pensiero politico sul lavoro. Invece del semplice ripristino, purtroppo, si è scelta una soluzione compromissoria e incerta, che nella sostanza non cambia la situazione.
Incertezza che purtroppo ha caratterizzato tutta l’azione del suo governo in materia di lavoro femminile: scarsi incentivi all’assunzione di donne, minicongedo-paternità di soli tre giorni, nessun correttivo al gap delle retribuzioni, nessuna iniziativa a sostegno di quella flessibilità “buona” -orari elastici, telelavoro, postazioni in remoto, un riavvicinamento del tempo di lavoro al tempo di vita-, ovvero di quella dis-organizzazione del lavoro che costituirebbe una spinta potente in direzione degli obiettivi di Lisbona, e anche oltre. Con tutto il bene che al raggiungimento di questi obiettivi conseguirebbe: quell’aumento di natalità da lei stesso auspicato -le donne fanno bambini quando hanno un lavoro e non, altro trompe-l’oeil, quando sono costrette a casa-, una domanda indotta di servizi, ovvero altri posti di lavoro, una maggiore autonomia femminile e una riduzione della violenza sessista -non c’è nulla che metta a rischio una donna come il dover dipendere da un uomo-, un’immediata modernizzazione del Paese, apportata dall’irruzione dello sguardo femminile sul bene comune.
Il taglio dei servizi è stato il colpo di grazia: vero welfare vivente, in prima linea sul fronte dell’assistenza e della cura nell’ultimo anno, quello del suo governo, siamo precipitate dal 74° all’80° posto nel Global Gender Gap Report stilato annualmente dal World Economic Forum. In assenza di servizi efficaci -servizi per la famiglia, non per le donne, che si trovano semmai costrette a surrogarli- l’innalzamento dell’età pensionabile è stata una vera mannaia. Quelli tra i 60 e i 65 rischiano di essere gli anni più faticosi in assoluto per la vita di una donna: che mentre lavora, se la fortuna di un lavoro ce l’ha, potrebbe ritrovarsi a dover accudire figli adulti ma ancora privi di reddito certo, e quindi costretti a restare nella famiglia d’origine, nipoti -i servizi per l’infanzia sono insufficienti e costosi- e dato l’allungamento della speranza di vita, uno o magari entrambi i genitori. Sempre che la salute l’assista.
A quanto pare, caro Presidente Monti, porre con decisione le donne al centro della sua Agenda, o di qualunque altra agenda politica, farne il perno di un deciso programma di riforme -non è un caso che tutti i mali del Diciassettennio berlusconiano si lascino perfettamente rappresentare da un corpo di donna umiliato e degradato- costituirebbe la panacea per quasi ogni nostro male.
Con la fiducia nel fatto che da doveroso punto programmatico la condizione delle donne in questo Paese passi a essere la stella polare dell’azione del futuro governo, chiunque sarà chiamato a guidarlo -e con tante donne in squadra, speriamo- le rinnovo i miei più sinceri auguri di Buon Natale e felice anno nuovo.
Il lavoro sarà certamente al centro per le donne che da stasera a domenica si vedranno a Paestum per “Primum Vivere anche nella crisi: La rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica”. Logo dell’iniziativa (disegnato da Pat Carra), la silhouette di una Tuffatrice, femminile di quel Tuffatore del 470 a.C. esposto nel Museo Archeologico locale. Ma se il mare in cui lui si tuffa è l’aldilà, per lei è l’al-di-qua, il mondo, la polis, l’intreccio delle vite di tutti.
L’incontro è promosso da una trentina di protagoniste del femminismo italiano (da Lea Melandri a Lia Cigarini, Letizia Paolozzi, Bia Sarasini e altre) per misurarsi con “gli effetti di una crisi che sembra non avere una via d’uscita, e con una politica sempre più subalterna all’economia”. E verificare la propria capacità di “restituire alla politica corrente un orientamento sensato”. Quel “buon” senso delle donne chiamato oggi a esercitarsi nello spazio pubblico.
Il femminismo ha prodotto cambiamenti straordinari nella vita di tutte e tutti. Ma la crisi che riduttivamente chiamiamo “economica” chiede che il lavoro continui, se è vero, come dice il sociologo francese Alain Touraine, che “coscienza femminile e mutamento sociale non sono più separabili”.
L’idea ambiziosa e radicale: “Partire dalla vita delle donne e degli uomini” dice Lea Melandri “da quel congegno vita-lavoro che non tiene più, per ripensare anche l’economia e la politica. Per un’idea diversa di polis e di civiltà”. In cerca di un pensiero politico buono non soltanto per le donne, ma anche per gli uomini. I quali non sono espressamente invitati, ma Paestum non sarà off limits. La discussione sarà viva e libera: la ricerca di energia e significati si avvale anche della parola faticosa e ambigua e dell’impasse, tutto parla, non solo le parole.
Obiettivo su alcuni grandi temi: oltre a Economia, lavoro, cura, Voglia di esserci e contare, Auto-rappresentazione/rappresentanza, Corpo-sessualità-violenza-potere. Non è improbabile che le elezioni catalizzino l’attenzione. Dice Bia Sarasini: “Paestum non è per questo, ma potrebbe uscirne una proposta che ha anche a che vedere con l’immediato elettorale. Personalmente ci spero”.
Sulla battaglia per il 50/50, quel metà donne-metà uomini che ha già corso in alcune città, il consenso non è unanime: passaggio irrinunciabile per il cambiamento secondo alcune, rischio di prestarsi come “risorsa anticrisi” secondo altre. Ma il tema dell’efficacia è ben presente a tutte: è ancora utile l’“estraneità”, quell’attivo tenersi fuori dalla politica degli uomini a cui molte imputano il difetto di efficacia?
Tante giovani donne, a dispetto dell’estraneità da un lato e della misoginia dei partiti monosex dall’altro, nella politica si getterebbero a capofitto, con lo stesso slancio della Tuffatrice. “Un protagonismo” dice Giordana Masotto “che è una molla interessante. Un desiderio che non può essere oggetto di tabù, né visto come “poco etico” o smania di potere. Ma vogliamo ragionarci a fondo. Per capire che cosa le donne possono cambiare di quella politica, e che cosa no”.
Previste almeno 700 partecipanti.
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Titolo un po’ fortino, lo so. E poi non è del tutto vero.
Dell’aborto mi importa, e precisamente mi importa questo, in una logica di riduzione del danno. Nell’ordine: 1. che ricorrere all’aborto sia sempre meno necessario 2. che quando è necessario ricorrervi, sia possibile farlo in condizioni di minore sofferenza fisica e psichica possibili, e quindi con tutte le garanzie igienico sanitarie, e senza aggravare la pena psicologica 3. che sia queste condizioni si realizzino (e oggi, purtroppo, non si realizzano).
Ciò detto: non intendo essere ricondotta dal contrattacco a parlare dei minimi vitali, violenza sessista e aborto. Non voglio essere costretta in difensiva. Non ci casco. Intendo delegare, nella massima fiducia, ogni discorso sulla violenza sessista e sull’aborto a donne che se ne occupano con competenza da molto tempo, sempre pronta ad accorrere per sorreggerle e supportarle in caso lo richiedessero. Nel caso della violenza per esempio: prontissima a lottare perché i centri antiviolenza e le case delle donne abbiano finanziamenti adeguati e continuativi (no ai finanziamenti a pioggia, no ai progettifici di chi si improvvisa per intercettare fondi o per cavalcare il tema).
Ma non mi piace che tutte siamo inchiodate lì, che continuiamo a parlare di questo, in una sorta di autovittimizzazione secondaria, e che perdiamo di vista l’orizzonte grande. Perché potremo risolvere i problemi, anche quelli della violenza e quello dell’aborto, solo tenendo lo sguardo alto, puntato su quell’orizzonte. Il che ci consentirà di arrivare a occupare posizioni che ci consentano di decidere le priorità, la destinazione delle risorse, e così via.
E allora torniamo a parlare di rappresentanza, torniamo a parlare di organizzazione del lavoro, creiamo le condizioni perché le nostre pratiche siano massimamente efficaci, perché ci sia possibile parlare la nostra lingua politica, e basta con la formazione permanente! ci siamo già formate a sufficienza.
Non è più il momento dei cahier des doleances. E’ quello dei risultati.
Le proposte elaborate sono molte e interessanti, ma la novità più importante costituita dai partecipatissimi Tavoli delle cittadine milanesi, a cui il Comune di Milano si è aperto come una “casa comune”, sta nel metodo: ovvero nel fatto che sono le istituzioni, qui in particolare rappresentate dalle consigliere Anita Sonego e Marilisa D’Amico, a chiedere alle donne della città di portare all’interno della politica “seconda” le pratiche, le esperienze e i modi della politica prima, prossima alla vita, alle relazioni e ai bisogni. E nel fatto che le cittadine si siano riunite per portare in dono ai vari assessorati competenti il loro sapere e i loro desideri.
Non si tratta cioè di una contrattazione -le cittadine che chiedono alle istituzioni- ma di uno scambio all’insegna della gratuità e della permeabilità tra governo e governat*. Di una politica che si muove e si baricentra sempre più fuori dalle istituzioni, alle quali è chiesto di accoglierla, di valorizzarla, di farsene mediatrici riducendo gli ostacoli. Nel caso delle donne, questo scambio in direzione di una “democrazia partecipata” sembra funzionare particolarmente bene.
Numerose le proposte elaborate e presentate ieri sera.
Lavoro/welfare: per dirne alcune, una conferenza sul lavoro delle donne a Milano; il curriculum anonimo (che non indichi sesso, età e nazionalità); progetto coworking; album comunale baby sitter; congedo obbligatorio di tre giorni per i neopapà per i dipendenti comunali; “nidi” flessibili.
Salute: oltre a un progetto sulla violenza sessista, le “Giardiniere” (così si sono chiamate) promuovono un’idea di salute che non coincida con le prestazioni sanitarie, ma abbia al suo centro modello di sviluppo; un’indagine conoscitiva sui consultori
Spazi: istituzione di una Casa delle donne.
Proposte ottime, buone e meno buone (ognuna avrà il suo punto di vista: per esempio a me l’idea di una Casa delle donne appare un po’ regressiva) ma all’insegna del metodo innovativo che dicevamo.
Che tuttavia dovrebbe applicarsi anche ad altre questioni rilevanti per la città: è un peccato, ad esempio, che le cittadine non esprimano il loro punto di vista su questioni come la vendita di Sea e il bilancio, alle quali la politica degli uomini (ieri sera sostanzialmente assenti, salvo il presidente del Consiglio Comunale Basilio Rizzo) sta riservando la sua attenzione prioritaria.
Mi pare che di bilancio le donne si intendano parecchio. Anche questa competenza va messa alla prova.
La crisi ha messo tra parentesi tutte le riflessioni sul lavoro fatte specialmente da donne, che entrando in quel mondo delle fabbriche e delle aziende si sono ritrovate scaraventate in modelli organizzativi per loro assurdi (non dimenticare che l’esperienza del lavoro è soprattutto femminile, chi lavora nel mondo sono soprattutto le donne, è il lavoro salariato ad essere più maschile: i soldi se li tengono loro).
Quindi, o così, o pomì. Non farti venire strane idee di flessibilizzazione -alla tua maniera-, di postazioni in remoto, di orari elastici, o addirittura di leadershit, di non-funzionalità della gerarchia, eccetera eccetera. Se vuoi un lavoro, lavora e taci. Come se il dolore, la detenzione dei corpi, la frustrazione, la fatica inutile, le regole mutuate dai modelli militari garantissero maggiore fecondità e maggiore produttività. Siamo l’unica specie vivente a pensarla così.
E’ anche più doloroso, essendo che a parlare di riforma del lavoro sono tre donne, ma di questo pensiero femminile del lavoro, che farebbe una rivoluzione, che produrrebbe effetti a cascata sulla vita di tutt*, nemmeno l’ombra.
Eppure un cambiamento di quei modelli produrrebbe effetti straordinari, dal welfare all’inquinamento ambientale alle relazioni umane.
E invece niente. Mala tempora currunt.
Ma non perdere la fiducia. Bisogna mandare tante donne lì dove si decide, dove si stabiliscono le priorità e le agende.
Si deve rompere il monopolio maschile. Tenersi concentrate sull’obiettivo.
Ok, voglio farmi del male, stamattina.
Il Presidente del Consiglio Mario Monti, intervistato a Matrix, avverte i giovani che “il posto fisso non esiste più. E poi, diciamolo: che monotonia…”. Ti si accappona la pelle, se hai dei figli. Poi ti guardi intorno, e vedi che il premier sta descrivendo una realtà che ha già corso.
E poi ripenso quello che ho sentito dire in una pubblica discussione a Milano, indetta dall’Agorà del lavoro, che si incontra periodicamente per parlare di questi temi.
Le giovani generazioni che subiscono la precarizzazione ma anche la agiscono, a vantaggio del primato della vita: «Io sono il lavoro liquido dell’oggi, non minacciarmi con la cancellazione del precariato» ha detto, sorprendendo tutte, una giovane donna. «Io voglio trovare il mio senso in questa liquidità». E un’altra: «Non demoralizzate i giovani: il lavoro fisso non è tutto!».
Figlie di «garantiti» workaholic, gente condannata alle 8 ore per 11 mesi per 40 anni nello stesso posto, gente che ha smarrito il senso di che cosa sia semplicemente «vivere». E dicono cose scandalose come queste. Dicono che per loro la vita conta di più.
Proviamo a ragionarci su.
La ministra Elsa Fornero dice che l‘art.18 dello Statuto dei lavoratori non è un totem. Giusto. E allora mettiamo tutto nel piatto: una riforma del lavoro non può essere fatta partendo, a muso durissimo, dall’abolizione di una delle poche garanzie che restano a tutela dei lavoratori.
Nessun tabù: ma allora parliamo di tutto, mettiamo tutto sul tavolo. Il precariato, lo sfruttamento, il fatto che i salari di molte categorie sono più bassi della media europea, la grande arretratezza nell’organizzazione del lavoro -parlavo qui l’altro giorno di telelavoro, altro tabù nelle aziende italiane-, le lettere anticipate di dimissioni richieste alle donne in cambio dell’assunzione, il gap delle retribuzioni e quindi delle pensioni tra i sessi, il misconoscimento del lavoro di cura, il welfare, e così via. Altrimenti rischiamo che capiti anche qui quello che è successo alle donne, ritenute “pari” soltanto in uscita, e su tutte le altre possibili “parità” nessuna garanzia.
E magari smettiamola di dire sciocchezze tipo “la sintonia tra Camusso e Fornero scricchiola sul piano della solidarietà di genere” (come leggo oggi su Il Fatto, tanto per dirne uno). Qui la solidarietà non c’entra un accidente. L’auspicio può solo essere che nessuna delle interlocutrici -Fornero, Camusso e Marcegaglia- debba dimenticare di essere donna, sedendosi a questo supertavolo, e si senta libera di cercare un linguaggio e delle soluzioni che tengano conto del fatto di non essere un uomo, di avere del lavoro un’esperienza ben diversa, di auspicare soluzioni ben diverse, di non sentirsi costretta alle ritualità e al simbolico maschili.
p.s. Questo essere tutte donne ai livelli massimi del confronto non deve essere visto come occasione di “solidarietà”, ma come occasione di esprimere a quel tavolo, pur nel conflitto delle rispettive posizioni, la grande competenza femminile sul tema del lavoro.