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Politica

Politica Febbraio 8, 2016

Fine del modello Milano: #tuttacolpadiPisapia. O quasi

Milano, ieri sera all’Elfo Puccini: il vincitore delle primarie Beppe Sala. A fianco, il suo grande elettore Piero Bassetti e Paolo Limonta. Sullo sfondo il sindaco uscente Giuliano Pisapia e la candidata sconfitta Francesca Balzani

 

Il sindaco in scadenza Pisapia è visibilmente mesto, un sorriso stampato e tirato che di tanto in tanto cede a una maschera livida tipo Padre Pio. #TuttacolpadiPisapia stavolta è vero. Se non tutta quasi, e tutti lo pensano. All’Elfo Puccini, la Bastiglia della Rivoluzione arancione (se non vi ricordate quei giorni leggete qui) la resa è rovinosa. Dal momento dell’annuncio della sua non-ricandidatura, ormai quasi un anno fa, Pisapia non ne ha fatta una giusta: un libro inopportuno per bruciare il suo ex-supercompetitor Stefano Boeri e Pierfrancesco Majorino, la caparbia convinzione di poter decidere il successore, un’andatura da Sor Tentenna che ha logorato la fiducia dei suoi adoratori, il cedimento su Beppe Sala, il lancio –in ritardo- di Balzani, due umilianti viaggi a Roma da Matteo Renzi, e poi “sarò arbitro imparziale” e invece no, in extremis, “sto con la mia vicesindaca”. Un disastro.

L’errore più grave è stato scappare dal secondo mandato. “E dire” giura un super-renziano nel foyer “che Matteo sperava davvero in una sua ricandidatura. L’avrebbe sostenuto. Il rischio a Milano era troppo grande. Preferiva non correrlo. Ma non c’è stato verso”. Pisapia non sarà più sindaco, ma non sarà neanche il leader politico che progettava di essere. Solo tiepidi applausi, qualche fischio e qualche “buu” quando pronuncia il suo discorsetto retorico, ai limiti dell’afasia, per onorare il vincitore delle primarie Beppe Sala. Un’uscita ingloriosa.

La sala dell’Elfo Puccini si riempie solo intorno alle 22.30, quando lo spoglio conferma gli exit poll. Prima di quel momento solo un centinaio di fedelissimi, prevalentemente balzaniani e majoriniani. Clima da funeral house. Il morto è il modello Milano. Un sottofondo di musica funky e groove rende tutto più surreale. Sembra una convention di rappresentanti di spazzole.

La prima ad arrivare è Francesca Balzani, elegantemente sorridente (34 per cento). Si mangerebbe Majorino con patate ma non lo dà a vedere. Il carattere freddo e controllato aiuta. A ruota Majo (23 per cento) accolto dalla ola dei supporter. Raggiante e baldanzoso come se avesse vinto lui (ma forse qualcosa l’ha vinto uguale). Ultimo, il vincitore vero, Beppe Sala. Non proprio trionfatore, ma comunque vincitore. Altre due settimane di campagna l’avrebbero sfibrato: partito con un 60 per cento di consensi, si è dovuto accontentare del 42, mentre Balzani cresceva a vista d’occhio.

Jeans, camicia bianca e giacchetta kaki, la faccia ancora segnata da una ragionevole preoccupazione, Sala si arrampica sul palco accompagnato da un incongruo “Heroes”, un po’ tantino per un ragiunatt. Giura che non deluderà Milano, ringrazia Pisapia (niente applausi), parla di squadra e di politica “dal basso” (mamma che noia). Nessun trionfalismo, l’italiano scabro e un po’ incerto da uomo dei conti. La soddisfazione di essere andato bene in periferia: sarà anche il più destro dei candidati, ma forse è anche l’unico, da ex-manager Pirelli, ad aver visto le tute blu. Balzani giura fedeltà. Majorino giura fedeltà. Perché “la battaglia vera comincia adesso” etc etc. E ciao.

Non giurano fedeltà i loro sostenitori, quelli che per tutta la campagna hanno detto “però poi se vince Sala poi sto a casa”. Sel prende una bella botta e si ritira per l’ennesimo seminario di terapia e pallottole. Con Sala, con Passera sempre più destro, con Parisi o chi per lui come candidato del centrodestra vero, la voglia di stare a casa (o andare al mare o, a scelta, in uno slancio dadaista, di votare la sciura Bedori detta Misery) è più che giustificata.

A Milano #thedayafter niente arcobaleni, né singoli né doppi, un grigio londinese. Era tutto scritto, la parentesi arancione stava per chiudersi, ma tanti sembrano pugili suonati. Tutti a lavorare, è lunedì. I morti sono già bell’e sepolti. Ma un certo terrore ligure serpeggia. Che cosa fa Sel? E se si candida Civati? Capiterà qualcosa a sinistra? E’ giorno di riunioni politiche, più o meno carbonare. Milano ha retto agli austriaci e ai sabaudi. Qualche problema potrebbe crearlo anche al Partito Nazione.

Majorino ha ragione: la battaglia vera comincia adesso. Forse non solo nel senso che intende lui.

 

 

bambini, Corpo-anima, Donne e Uomini, Femminismo, Politica, questione maschile Gennaio 27, 2016

Si parla di utero in affitto (o maternità per altri) alla Libreria delle Donne di Milano

Il dibattito alla Libreria delle Donne di Milano

 

Questo il mio intervento al dibattito di ieri sull’utero in affitto alla Libreria delle Donne di Milano. Con me, la filosofa Luisa Muraro e Daniela Danna, ricercatrice in scienze sociali all’Università Statale di Milano (purtroppo non dispongo di loro testi da pubblicare, né della discussione che è seguita, ma qui è visibile tutto lo streaming). A chi frequenta abitualmente questo blog gli argomenti che porto saranno in buona parte già noti. Sono molto soddisfatta della serata e ringrazio le tantissime che hanno partecipato.

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“Penso su questa cosa dell’utero in affitto più o meno in solitudine da tanti anni, ma a volte diventa tutto così complicato che non vorrei pensarci più per attenermi alla semplicità quello che Eduardo fa dire a Filumena Marturano, “i figli non si pagano“.

Ma in questi tempi di dirittismo esasperato le cose tendono a complicarsi. La verità della relazione madre-figlio è molto semplice ed è un fondamento di civiltà sottratto al mercato (appunto, i figli non si comprano e non si pagano). Quel due indistinguibile dall’uno è una delle poche verità fondative che ci restano. Anzi, lo metto in forma di domanda: che cosa c’è in quella relazione che va assolutamente preservato, e che cosa c’è invece che si vuole rimuovere e nascondere?

Se cominci ad ammettere eccezioni, se tu pensi che separare madre e figlio sia un’operazione ammissibile, che tutto ciò che le tecnologie riproduttive ti consentono sia eticamente e umanamente accettabile e in automatico possa tradursi in mercato e neo-diritti, quella verità ti esplode fra le mani e deflagra in una complessità ingovernabile e in un enorme disordine simbolico.

Quando nelle relazioni, quando per esempio in una famiglia si arriva a mettere tutto sul piano dei diritti vuole dire che le cose non stanno andando bene.  Il “dirittismo” ossessivo e pervasivo con cui oggi si pretende di regolare la convivenza umana è il segnale che qualcosa sta andando storto, che c’è una guerriglia in atto.

Vi faccio un esempio di questo dirittismo esasperato: una bioeticista, Chiara Lalli, sostiene che è tutto da vedere se per i bambini che nascono da utero in affitto sarebbe preferibile non essere nati, dice che non abbiamo elementi per sostenerlo: e poiché quei bambini possono nascere solo con utero in affitto, negare questa possibilità equivarrebbe a negare a questi individui in potenza il diritto di tradursi in atto, ovvero di venire al mondo. Cioè si attribuiscono diritti non solo all’individuo esistente, ma perfino all’idea di individuo, all’individuo in potenza, a ciò che potrebbe essere individuo e ancora non lo è ma potrebbe esserlo.

Si tratta forse di riportare la questione da questo enorme disordine simbolico a quello che Luisa Muraro per prima ha chiamato ordine simbolico della madre, e forse è questo il tentativo che oggi faremo qui. Tanto per cominciare, facendo un po’ di pulizia su questi neodiritti.

Per esempio, il diritto alla “genitorialità, figlio di una cultura dirittistica e adolescenziale che non distingue tra desideri e, appunto, diritti, e fonda un diritto per ogni desiderio. Sarebbe come affermare il diritto ad avere un marito o una moglie: il mio diritto, semmai, è che nessuno mi impedisca di legarmi liberamente a qualcuno/a, ma non posso certo pretendere che mi venga garantito un legame affettivo. Così per i figli: ho diritto a metterli al mondo, se intendo farlo, ho diritto a che nessuno mi impedisca di diventare madre o padre minacciando per esempio di licenziarmi, come avviene correntemente alle giovani precarie (diritto per il quale si battono in pochi). Ho diritto a cure mediche ragionevoli, se la mia salute riproduttiva le richiede. Ma non posso chiedere che lo Stato mi garantisca di essere padre o madre a ogni costo e in qualunque condizione, fino a consentire un vero e proprio mercato dei figli. L’unica titolare di diritti è la creatura: diritti a cui le convenzioni internazionali riconoscono assoluta superiorità, e che nei discorsi sull’utero in affitto e più in generale sulla fecondazione assistita vengono invece tenuti spesso come terzi e ultimi.

Anche perché affermare un diritto significa ipotizzare un corrispettivo dovere: se, quindi, si pone un diritto alla genitorialità, chi è titolare del dovere corrispondente? se ho diritto ad avere un figlio, chi ha il dovere di darmelo? Una donna, al momento non c’è alternativa. Quindi toccherebbe alle donne farsi carico di questo dovere.

Un altro diritto di cui si discute è quello a fare del mio corpo quello che voglio.

Qui è interessante quello che ha detto Judith Butler, ovvero che “il corpo è mio e non è mio”. L’idea che il corpo sia solo mio è un trompe l’oeil, un’illusione, come tante volte abbiamo detto che è un’illusione l’individuo assoluto, cioè letteralmente sciolto da ogni legame e libero da ogni dipendenza. Questo in qualche modo è assunto dalla nostra legge e dalla nostra Costituzione, per la quale il corpo è indisponibile: non posso, cioè, farne sempre quello che mi pare, né tanto meno oggetto di mercato. L’unica eccezione è un uso solidale. Posso cioè donare sangue, midollo, o anche un rene a un consanguineo, ma non posso metterli in vendita o comprarli. Nessuno di noi ha perciò diritto di mettere in vendita parti del proprio corpo. E’ una limitazione alla propria libertà? Sì, lo è.

Anche nel caso dell’utero in affitto la legge ammette, ad alcune precise condizioni, la pratica solidale: i nostri tribunali hanno già ammesso casi di “utero solidale” dopo aver vagliato attentamente le situazioni, aver accertato l’esistenza di una relazione affettiva tra la donatrice e i riceventi, e aver escluso ogni passaggio di denaro. Si deve peraltro dire che l’utero solidale è solo un numero infinitesimo di casi.

Ma l’analogia si ferma qui: perché se la donazione d’organo è un fatto tra due, il donatore e il ricevente, nel caso dell’utero c’è un terzo, il nascituro, le cui ragioni vanno tenute per prime. L’esserci di questo terzo rende problematico anche il paragone dell’affitto di utero con la prostituzione. Nella cosiddetta libertà di prostituirsi c’è un accordo –anche se spesso niente affatto libero- tra due, qui c’è questo terzo che al momento dell’accordo non ha voce in capitolo, e che non può essere pensato come prodotto, ma è a tutti gli effetti il protagonista muto della vicenda.

E ancora, l’uguale diritto di uomini e donne, che non tiene conto della differenza sessuale. Quando si evidenziano i limiti “naturali” (ovvero fondati nella biologia dei corpi) che impediscono a molti desideri di tradursi automaticamente in diritti, molte e molti reagiscono con stizza, come bambini a cui sia negato di avere tutto ciò che vogliono e che di “no” (o magari di doveri che bilancino i diritti) non vogliono sentir parlare. Ma spesso si tratta di desideri indotti da un mercato che non si dà limiti di profitto, il cui obiettivo non è certo farci crescere in umanità, e che di consumatori-bambini ha sempre più bisogno.

Si fa la lotta per i diritti degli omosessuali, senza tenere conto della differenza sessuale che riguarda anche gli omosessuali. Si commette un grave errore quando sul fronte della genitorialità, secondo una logica paritaria fuorviante, si fa un tutt’uno tra gay e lesbiche, invocando “uguali diritti”. Non mettiamola sul piano di gay e lesbiche uniti nella lotta, mettiamola sul piano degli uomini e delle donne, a prescindere dall’orientamento sessuale. Ci viene per così dire in aiuto il fenomeno degli etero padri single, che in America sta diventando cospicuo. Si tratta di uomini single eterosessuali che si fanno “produrre” un figlio tutto per sé. Perché non hanno una compagna, o non intendono condividere con una donna l’esperienza della genitorialità. Una vera partenogenesi maschile, ha quanto meno un merito: quello di sgomberare il campo dalla questione dell’orientamento sessuale degli uomini che ricorrono a madri surrogate. E sgonfia la possibile accusa di omofobia nei riguardi di quel femminismo che lotta contro l’utero in affitto. In questione non è l’essere gay o etero. In questione è l’essere uomini che fanno scomparire la madre. E quale legame ha questa scomparsa con le radici del patriarcato.

Sulla scelta di una donna, lesbica o non lesbica, di diventare madre non è necessaria la mediazione della parola pubblica: è lei che decide, che sia sola o abbia un compagno o una compagna, con l’unica possibile differenza di non concepire, forse, se è lesbica, via rapporto sessuale. Nel caso di un maschio, invece, che sia gay o un eterosessuale deciso a concepire fuori da una relazione con una donna, la parola pubblica è decisiva, perché il suo desiderio necessita di almeno tre livelli di mediazione: dev’esserci un mercato dove acquistare ovociti e “affittare” uteri (o molto più di rado averli in dono); dev’esserci una medicina che ti assista, dal momento del prelievo (doloroso) degli ovociti, all’impianto dell’embrione, alla gestazione; dev’esserci un quadro normativo che ti permetta di condurre in porto l’operazione.

Non vi è, quindi, alcuna uguaglianza del corpo né “parità di diritti” su questo fronte fra uomini e donne, che siano etero o omosessuali. Questo è triste e doloroso per i gay che vogliono un figlio geneticamente proprio ma che non ama sessualmente le donne? Immagino di sì, ma non ci si può fare molto. Esiste pur sempre l’opzione di fare quel figlio con una donna che lo desideri, e che sarebbe sua madre (senza costringerla a scomparire).

L’utero in affitto ci riporta al dispositivo patriarcale nella sua purezza quando pensa alla madre portatrice come semplice contenitore-incubatore: la visione aristotelica fondativa del patriarcato postula la naturale inferiorità del genere femminile. Nella riproduzione, secondo Aristotele, il maschio è attivo, è il vero genitore che dà forma alla materia inerte femminile, la donna è invece “passiva” in quanto  “è quella che genera in se stessa e dalla quale si forma il generato che stava nel genitore” (il maschio). Questa riduzione della potenza materna sta proprio al centro del dispositivo patriarcale, questo movimento di predazione dell’utero, mosso dall’invidia dell’utero, del vaso alchemico, è movente primario del patriarcato.

La coppa piena di sangue del Graal, eternamente ricercato, somiglia molto a quella coppa piena di sangue che è l’utero. Invidia dell’utero come ben sapete rovesciata dalla narrazione patriarcale nel suo punto più alto e sofisticato in invidia del pene. Ecco, forse il dibattito in corso sull’utero in affitto, ha quanto meno il merito di fare molta chiarezza, è un riflettore puntato sulla questione. C’è un dibattito su questo anche tra psicoanaliste che osservano il fenomeno e parlano di fantasma dell’utero vagante, scisso dal corpo, “di un’isteria collettiva –la radice di isteria è appunto la parola greca per utero- in un’epoca riconoscibile come borderline, nella quale si grida “diritti” ma non doveri, non attese, non rinunce”.

Chi pensa alle portatrici come semplici contenitori che alla fine della gestazione consegnano docilmente il prodotto ai committenti, si allinea alla violenza di questo pensiero patriarcale. La “semplice” portatrice non ha legami genetici con il bambino, ma ha importanti legami epigenetici, che influenzano il fenotipo (ovvero la morfologia, lo sviluppo, le proprietà biochimiche e fisiologiche comprensive del comportamento etc.) senza modificare il genotipo.  In parole semplici, durante la gestazione tra lei e il feto avvengono scambi biochimici decisivi per lo sviluppo del bambino, scambi che continuano nella fase perinatale e che fanno di quel bambino quello che sarà”.

La madre è lei.

 

 

 

 

Femminismo, Politica Gennaio 14, 2016

Sbagliamo tutti. Sbaglio anch’io

Tutte e tutti sbagliamo, ma ci sono errori che continuano a bruciare e non riesci a perdonarti. Conviverci fa parte dell’adultità.

Per esempio, uno degli errori che non mi perdono è quello di aver speso un’enorme quantità di energie per sostenere la lotta politica di una donna, l’attuale senatrice Laura Puppato, già assicuratrice, sindaca di Montebelluna e consigliera regionale veneta, che lanciando il cuore oltre l’ostacolo aveva deciso di candidarsi alle primarie per la segreteria del Pd.

Mica ero la sola, intendiamoci: ci cascarono per esempio Marco Travaglio, Marco Paolini, Concita De Gregorio (non è una chiamata di correo: solo per dire che la signora era piuttosto convincente). Si spesero per lei parole grosse, tipo che era la nuova Tina Anselmi. A Milano le organizzai un parterre da regina al Circolo della Stampa, a cui parteciparono tantissime protagoniste della vita cittadina, con tanto di cortese presenza del sindaco Pisapia e consorte. Alcune amiche femministe venete avevano attivato una rete nazionale in suo sostegno. Uno dei nodi della rete ero io. Si vedeva in lei, in un paese politicamente molto misogino e arretrato, la punta di diamante di una riscossa delle donne, una possibile leader. Invece, a quanto pare, la forza delle donne veniva utiizzata solo per passare agevolmente e con i riflettori dalle istituzioni locali a quelle nazionali. Una volta dentro, nessuna significativa battaglia per le donne, rapida svestizione dai panni di leader “femminista”, disinteresse totale compensato da un maniacale impegno per ogni quisquilia veneta. E da un impressionante saltafosso sulla riforma della Costituzione.

Ora, dopo aver espugnato il Senato, si tratta come per quasi tutti di riuscire a restare a Roma –che sarà anche ladrona, ma è sempre meglio che fare l’assicuratore in Veneto-. E nell’evidente auspicio di una ricandidatura la senatrice dedica all’ex-avversario Matteo Renzi (che carinamente la chiama Tata Lucia) una performance che farebbe impallidire Apicella.

Chiedo perdono a tutte e a tutti.

 

 

Politica Gennaio 4, 2016

Sapessi com’è strano svegliarsi l’8 febbraio a Milano

Dopo un’estenuante serie di preliminari, le primarie milanesi del centrosinistra (più Pd che altro) sono entrate nel vivo.

Il gioco tra i tre principali contendenti (Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala) non è proprio all’insegna del fairplay. Balzani entra in campo baldanzosamente, ostenta da subito un parterre de reine, chiede perentoria al collega Majorino candidato da tempo di mollare il colpo, porta a casa un bel picche, e al momento arranca un po’, affaticata dalla scarsa notorietà, dai troppi appelli eccellenti in suo favore e dall’accusa di salottismo.

Majorino sembra ringalluzzito, campagna molto social e luogocomunista, esagera con la promessa un po’ molto pacchiana di un assessore Lgbt –quei voti gli servono, vuole perdere bene-, sostanzialmente è raggiante perché Giuseppe Sala, il probabilissimo vincitore, lo omaggia riconoscendogli una sensibilità sociale di cui lui difetta. Leggi: tranquillo, come minimo ti rifaccio assessore. In fondo è quello che, sparando alto, l’abile Majorino sperava di portare a casa. Qualcuno grida scandalosamente al ticket occulto.

Quanto a Sala, asso pigliatutto, campione del Partito-Expo-Nazione, entusiasma perfino certe furbette assessore di Sel, Cristina Tajani e Daniela Benelli: le idee non si mangiano. Piace a Cielle, a Ncd, a Scelta Civica (Scelta Civica????) e a un bel pezzo del centrodestra, orientato a candidare un uomo di paglia per non dare troppo disturbo all’uomo che garantirà un po’ tutti. E si comincia a intravedere la cospicua fila dei saltatori sul carro dell’ultim’ora. L’impatto mediatico dell’ex-ad Expo, oltretutto, è sorprendente: chi tra i suoi antagonisti sperava in un’immagine scostante da manager anglofono ha dovuto ricredersi. L’uomo ha la concretezza del gran lombardo, dà del tu all’interlocutore, non si perde in chiacchiere e promesse volatili, punta dritto al tema delle periferie -vulnus della gestione Pisapia- dove intende radicare il suo successo, ha quella faccia un po’ francese da sindaco di Milano. Forse è tutta fuffa, ma presentata bene. In breve: per i competitor un osso durissimo.

A meno di miracoli sempre possibili o di fattori esogeni imprevisti, tipo irruzioni della magistratura, l’8 febbraio, il giorno dopo le primarie, Milano si sveglierà di fronte alla seguente scena politica: un candidato centrista (Sala), un altro candidato centrista (Passera), un candidatuccio di centro destra (?), e la signora Bedori, carneade 5 Stelle, che dal momento della sua candidatura è totalmente sparita dai radar.

Il popolo arancione, rosso, rosa e verde si ritroverà desolatamente alla deriva, anche e soprattutto a causa di una partita condotta davvero malissimo dal sindaco uscente. Un popolo frantumato tra una mesta realpolitik, un orgoglioso aventino e la tentazione 5 Stelle che a Milano non è mai andata oltre la protesta pre-politica. A meno che, ed è la variabile su cui tenere lo sguardo, a questo popolo non venga offerta a sorpresa un’alternativa, un/a candidato/a che potrebbe puntare a replicare l’exploit ligure, quel 10 per cento guadagnato dal candidato “civatiano” Pastorino, o perfino bypassarlo se la proposta sarà sufficientemente suggestiva.

Del resto nemmeno Renzi può pretendere che un bel pezzo di Milano, quello che ha dato carne e sangue all’anomalia pisapiana, a questo punto si dissolva come neve al sole, parola turna indré, come si dice da queste parti. Anche perché questa gente, altro che indré, ha l’ambizione di andare avanti.

 

 

Donne e Uomini, italia, Politica, questione maschile Dicembre 18, 2015

Lotta alla violenza. Pia Locatelli, firmataria dell’emendamento contestato: “Mi sono sbagliata. Azzeriamo e ricominciamo a discutere

Pia Locatelli, parlamentare Psi, è sempre stata in relazione con il movimento delle donne. Vedendo il suo nome tra i firmatari del pessimo emendamento Giuliani alla legge di stabilità (quello sulla violenza a donne e affini: omosessuali, handicappati e altre minoranze da “tutelare” in un percorso ospedaliero, emendamento avversato da chi sulla violenza ha lavorato davvero, leggete qui) a tante è preso un colpo.

Tante amiche l’hanno detto: ma cos’hai firmato? Oltretutto io sono stata anche contro la non revocabilità della querela…”.

Ecco: cos’ha firmato?

Ammetto di aver firmato senza leggere. Di default. E spiego perché. Alla Camera faccio parte di un intergruppo trasversale di 80 donne parlamentari che ha iniziato a lavorare sui temi con approccio gender sensitive. Abbiamo pensato di agire anche sulla legge di stabilità, presentando svariati emendamenti. Alcuni buoni, come i 15 giorni di congedo di paternità, l’estensione del voucher baby sitter anche alle lavoratrici autonome (di cui sono prima firmataria) e via dicendo. Per favorire il lavoro trasversale -e forse anche perché sono un po’ pollastra- mi sono impegnata a firmare tutti gli emendamenti che sarebbero stati presentati”.

Quindi anche quello sulla violenza.

“Precisamente. Anche se non c’entrava con la legge di stabilità. Poi mi sono resa conto, le amiche furibonde mi hanno aperto gli occhi”.

E ora?

“La prima firmataria Fabrizia Giuliani non intende ritirarlo. C’è stata una seconda formulazione dell’emendamento, che a mio parere riduce i danni. Ma l’impianto è quello che è”.

Ma non si può ritirare la firma?

“A questo punto no. L’emendamento è già passato in Commissione Bilancio”.

Quindi non c’è più niente da fare.

Marisa Nicchi di Sel, Pippo Civati e altri parlamentari intendono presentare un emendamento abrogativo che cancelli l’emendamento oggetto di polemiche. E’ importante recuperare il rapporto con le associazioni delle donne che pure, a mio parere, hanno avuto una reazione eccessiva”.

Be’, se non avessero reagito “eccessivamente” nessuno le avrebbe ascoltate. Come al solito.

“D’accordo. Ma ora vediamo di rimediare. Facciamo tabula rasa, e ricominciamo a discutere sulla questione della violenza. Votando l’emendamento abrogativo si potrebbe azzerare la querelle”.

Ma lei è firmataria dell’emendamento contestato: ora può sottoscrivere il contro-emendamento?

“Certo che sì.  Non posso aver cambiato idea? Dacia Maraini ha sottoscritto l’appello di Snoq Libere contro l’utero in affitto, e poi ha cambiato parere. Quando le questioni sono complesse…”.

Ha fiducia nel fatto che l’emendamento abrogativo possa passare?

“Non è facile, lo ammetto”.

Anche la fiducia delle associazioni è scarsa. Tant’è che si preparano a ricorrere al Consiglio d’Europa perché possa verificare e sanzionare l’oggettiva incongruità dell’emendamento Giuliani con i criteri della lotta alla violenza sessista ratificati nella Convenzione di Istanbul.

 

Molto duro il comunicato di D.i.Re

Comunicato Stampa di D.i.Re, Rete nazionale dei Centri Antiviolenza

I CENTRI ANTIVIOLENZA E IL FEMMINISMO CONTRO L’EMENDAMENTO DETTO “PERCORSO TUTELA VITTIME DI VIOLENZA”

Settantatre Centri Antiviolenza rappresentati dall’Associazione D.i.Re, Telefono Rosa che gestisce il numero pubblico di emergenza 1522 per la violenza contro le donne, l’Unione Donne Italiane, la Casa Internazionale delle Donne di Roma, la Libera Università delle Donne di Milano, Ferite a Morte, la Fondazione Pangea, Be Free, Pari o Dispare, UIL, Le Nove, Giuristi Democratici, Ass. Scosse, hanno tenuto oggi una conferenza stampa per denunciare la pericolosità, la superficialità e la illegittimità dell’emendamento 451 bis e 451 ter alla legge di Stabilità detto “Percorso tutela vittime di violenza” e approvato il 15 dicembre dalla Commissione Bilancio della Camera.

Ricorreremo al Consiglio d’Europa per violazione della Convenzione di Istanbul. Assisteremo le vittime di violenza presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo qualora si sentano lese nei loro diritti dalle procedure dello Stato italiano”. Durissima Gabriella Moscatelli presidente di Telefono Rosa nazionale che gestisce il numero nazionale antiviolenza 1522 stamattina alla conferenza stampa contro l’emendamento Giuliani “percorso tutela vittime di violenza”, emendamento alla legge di stabilità che è stato approvato dalla commissione bilancio della Camera il 15 dicembre. Insieme a lei, Titti Carrano, presidente dell’associazione D.i.Re che raggruppa 73 centri antiviolenza e Vittoria Tola presidente dell’Udi nazionale.

“Chi ha scritto questo emendamento non conosce la vita delle donne e dei bambini in una famiglia violenta – ha aggiunto Moscatelli. Chi come noi si occupa di violenza da trent’anni sa che la denuncia è solo l’inizio di un percorso difficilissimo.

Titti Carrano ha detto: Chi ha scritto questo emendamento non sa nulla di questo fenomeno, perchè è impossibile assimilare le vittime della violenza maschile alle altre fasce deboli o vulnerabili. Le donne che subiscono violenza maschile, come prescrive la convenzione di Istanbul, hanno bisogno di un percorso individuale e specializzato. Questo emendamento nega la realtà della violenza di genere, la sua natura strutturale, persistente profondamente infiltrata nella nostra cultura e nella nostra società. Se questo emendamento dovesse essere approvato, non ci fermeremo e denunceremo in tutte le sedi internazionali: l’Italia dovrà rispondere puntualmente delle sua gravi responsabilità e per le  donne maltrattate e uccise.

Vittoria Tola, presidente nazionale UDI: “Questo emendamento è una vendetta e una manovra di chi, da anni, ha cercato di imporre un percorso di costrizione delle donne maltrattate nel Piano Antiviolenza e non c’era mai riuscito. Le conquiste delle donne sembrano una tela di penelope: i firmatari hanno votato la Convenzione di istanbul senza leggerla. Non ci fermeremo e combatteremo finchè questo pericolo non sarà sventato.”

Oria Gargano della Associazione Be Free che opera al Pronto Soccorso del San Camillo di Roma, con una accoglienza su misura per le donne maltrattate: “Dal 2009 ad oggi abbiamo seguito tremila donne, ma abbiamo proceduto all’inverso rispetto a quanto previsto nell’emendamento Giuliani. Siamo partite dalla collaborazione con l’Ospedale e abbiamo formato il personale del Pronto Soccorso per un anno. Gli abbiamo insegnato che le donne che hanno appena subito violenza, non pensano affatto a denunciare, ma a proteggere se stesse e i figli e spesso sperano di salvare ancora la relazione con l’abusante. Hanno bisogno di ascolto, pazienza, costanza, rispetto. E, soprattutto, ci vuole un rigoroso “fololw up”, proprio quello che l’emendamento Giuliani non prevede. E’ un rigoroso l “follow up” dopo la visita al pronto soccorso, che può salvare e salva la vita delle donne. Non dimentichiamoci che alcune di quelle che hanno denunciato, talvolta purtroppo sono state uccise. La denuncia non è il “fine” dell’azione contro la violenza maschile.”

Alla conferenza stampa sono intervenuti parlamentari, tra cui Pippo Civati, Roberta Agostini, Marisa Nicchi, Giovanna Martelli, Delia Murer. Tutti si sono augurati che sull’emendamento non venga posta la fiducia, in modo che possa essere discusso in aula “dal momento che – ha detto Roberta Agostini, responsabile donne PD – nasce da un metodo completamente sbagliato e inaccettabile ed è stato scritto senza nessun confronto con chi si occupa di violenza di genere e sa bene cosa serve e come funzionano le cose”.

“Siamo con voi” ha detto Pippo Civati. “E siamo con voi per una questione democratica e contro questa incomprensibile superficialità. In Italia è aperta una seria ”questione maschile” che si traduce in paternalismo, pretesa di tutela e prevaricazione”.

Alessandra Menelao della UIL: “Le donne maltrattate e stuprate non sono soggetti “deboli”. In questo Paese può essere presentato un emendamento simile, perchè non c’è più democrazia partecipativa. Non si decide sulla pelle delle donne, senza parlare con le donne.

Erano presenti molte attiviste femministe, anche quelle che non hanno mai messo la violenza di genere al centro della loro azione, come dice Alessandra Bocchetti, una delle madri del femminismo italiano che spiega: “Oggi sono qui perché trovo estremamente preoccupante la regressione a cui stiamo assistendo. Le donne vengono ricacciate in una sorta di “minorìa” della cittadinanza femminile. Le donne sono stanche di non essere mai nell’agenda politica di questo paese e, quando ci sono, non vengono nemmeno consultate.”

Daniela Colombo di Pari o Dispare, l’associazione di cui è presidente Onoraria Emma Bonino, ha denunciato il fatto che “Il Governo Renzi sta procedendo alla distruzione di tutto il sistema anti-discriminazione costruito in trent’anni di progresso insieme alla società civile. Tutto viene demolito, senza aver fatto nemmeno una verifica sui risultati. D’altra parte, quando era Sindaco di Firenze, Matteo Renzi ha istituito il primo cimitero per feti abortiti d’Italia e il femminismo non se lo dimentica. Inoltre ha tenuto per sé le deleghe alle Pari opportunità e la sua consigliera in materia, Giovanna Martelli, dopo un anno di tentativi, è stata costretta a dimettersi. Noi vogliamo un’autorità anti discriminazione nazionale e un punto nell’esecutivo con potere reale che risponda alla società civile.

D.i.Re Donne in Rete contro la violenza
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Cell 3927200580 – Tel 0668892502 – Fax 063244992
Email direcontrolaviolenza@women.it
www.direcontrolaviolenza.it

femminicidio, Femminismo, Politica, questione maschile Dicembre 16, 2015

Colleghe della stampa estera: raccontate il business della violenza in Italia, ormai nelle mani della politica

Le donne in questo Paese non sono affatto messe bene, no.

Ci mancava pure la jattura dell’emendamento bianco rosa o rosa bianca o come diavolo l’hanno chiamato, che spazza via in un colpo solo tutto il sapere cumulato sul campo in anni e anni dai centri antiviolenza autogestiti dalle donne, quelli a cui la Convenzione di Istanbul attribuisce un ruolo preminente.

Perciò spero che le mie colleghe straniere, le corrispondenti di Libé, del Frankfurter Allgemeine Zeitung, del Guardian e del NYT possano dare una mano a questa lotta, raccontando alla fin fine quello che è: la violenza sessista in Italia è diventata un business da milioni di euro, la formazione di esperti è il core business del business, e i soldi stanziati dalla politica per affrontare la questione, la politica intende riprenderseli.

Domani in una conferenza stampa Donne in Rete contro la violenza (D.i.R.e), Udi, Casa Internazionale delle donne, Telefono Rosa, Pari e dispare, Fondazione Pangea e altre ribadiranno alla stampa estera che le donne vittime di violenza non sono minori deficienti da tutelare, ma persone –spesso ad alta scolarità e con buon reddito- da accompagnare in un percorso ogni volta diverso nei tempi e nei modi. Che devono essere loro stesse le protagoniste della propria liberazione: la libertà non è una medicina che si può inoculare. E che il ruolo delle “esperte” è quello di condividere con empatia e rispetto l’esperienza autonoma della donna che intende fuoruscire dalla violenza, mettendo a disposizione consapevolezza e strumenti.

E invece, niente: un emendamento alla legge di stabilità firmato da Fabrizia Giuliani (sempre lei, la sedicente candidata unica di Se Non Ora Quando, alla faccia di tutte quante le militanti basite, la romana piazzata da Bersani nel listino protetto a Milano dove nessuna l’ha mai vista nemmeno per sbaglio etc. etc., soprattutto una che nei centri antiviolenza non si è mai vista) parla disastrosamente di un “percorso tutela vittime di violenza” (sic!) da istituire negli ospedali. E per tutte le vittime di violenza senza distinzioni -donne, anziani, bambini, portatori di handicap e omosessuali-. Non viene quindi riconosciuta alcuna specificità alla violenza sessista, come raccomandato dalla Convenzione di Istanbul. Un disastro simbolico e reale.

Si tratta di “un percorso obbligatorio e a senso unico” dicono le donne di D.i.R.e, Udi e le altre. “Una donna che si rivolge al Pronto Soccorso sarà automaticamente costretta un tracciato rigido, senza poter decidere autonomamente come agire per uscire dalla violenza, e si troverà di fronte un magistrato o a un rappresentante della polizia giudiziaria prima ancora di poter parlare con una operatrice di un Centro Antiviolenza che la ascolti e la sostenga nelle sue libere decisioni”.

Come se le “malate” da presidiare fossero le donne, e non gli uomini violenti.

Con molteplici rischi: che pur di evitare di essere inserita nel “programma protezione”, una i suoi lividi se li tiene e all’ospedale non ci va. Inoltre chiunque si sia occupata della questione sa bene che il momento del post-denuncia è pericolosissimo per una donna, che potrebbe vedere aggravarsi la violenza. Infine i centri antiviolenza sono di fatto tagliati fuori dall’ospedalizzazione-securitarizzazione: i 50 milioni di euro promessi dalla ministra per la Salute Lorenzin per la formazione del personale dedicato all’assistenza psicologica alle vittime di violenza, usciti dalla porta rientrerebbero dalla finestra: saranno le istituzioni a gestire i fondi.

Insomma, l’emendamento Giuliani, che molte hanno chiesto invano di ritirare, è una vera catastrofe. Non per Giuliani, forse: a cui, si mormora, si sta pensando per il Ministero Pari Opportunità. Ci mancherebbe anche questa.

Colleghe della stampa estera, occhio a questa brutta storia.

 

Questo il comunicato che indice la conferenza stampa:

Settantatrè Centri Antiviolenza rappresentati dall’Associazione D.i.Re, Telefono Rosa che gestisce il numero pubblico di emergenza 1522 per la violenza contro le donne, l’Unione Donne Italiane, la Libera Università delle Donne di Milano, Ferite a Morte, la Fondazione Pangea, Be Free, Pari o Dispare, Uil invitano le giornaliste e i giornalisti il giorno 17 dicembre alle 11 alla Sala Cristallo dell’Hotel Nazionale a Montecitorio (Piazza Montecitorio 131) per annunciare le prossime azioni contro l’emendamento Giuliani detto “percorso tutela vittime di violenza” approvato il 15 dicembre dalla Commissione Bilancio della Camera:

Il “percorso tutela vittime di violenza” rappresenta un attacco alla libertà e alla sicurezza delle donne, alla cultura, all’informazione e alla consapevolezza che le associazioni femminili e femministe hanno costruito in questo paese. Il “percorso tutela vittime di violenza” assimila la violenza maschile, che colpisce una donna su tre e spesso con esiti fatali, a qualunque altra violenza su soggetti per giunta definiti “deboli”: anziani, bambini, portatori di handicap e omosessuali. Prevede una procedura che, tra ambiguità e contraddizioni, mette al centro le istituzioni e il sistema di interventi invece della consapevolezza e libertà di scelta della donna.

Vìola l’ordinamento nazionale e internazionale, innanzitutto la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne e la violenza domestica che prescrive un approccio di genere, firmato da 32 paesi, e dall’Italia fra i primi. – è solo l’ultimo grave atto contro le politiche di contrasto alla violenza, che si aggiunge alla mancata erogazione del denaro pubblico dovuto per legge ai Centri Antiviolenza.

La violenza di genere contro le donne non è una questione privata, non è una questione di sanità o di ordine pubblico, non è un affare lucroso. E’ un grave problema sociale che ha radici nella nostra cultura e va affrontato con una coerente e seria guida politico-istituzionale. Non può essere liquidato in maniera parziale, in un emendamento alla legge di stabilità già contestato da un appello pubblico e da molte parlamentari. Perché le donne non vengano più picchiate e uccise, perché migliaia di bambine e bambini non assistano più ogni giorno alla violenza domestica, abbiamo bisogno di un approccio integrato che faccia tesoro di trent’anni di esperienza sul campo e promuova una sinergia fra tutte le forze e le competenze già all’opera. E del denaro necessario per realizzare tutto questo.

Oltre alle Associazioni saranno presenti attiviste e parlamentari.

 

AGGIORNAMENTO ORE 15 DEL 17 DICEMBRE: alcuni firmatari dell’emendamento Giuliani sarebbero intenzionati a fare marcia indietro, avendo compreso di aver sottoscritto una proposta sbagliata.

 

 

 

 

Politica Dicembre 4, 2015

Le cene del sindaco-re

L’idea di una cena borghese in cui si decide chi dovrà essere il sindaco di Milano è francamente irritante. Anche perché, per una volta, mi piacerebbe che il/la sindaco/a di Milano fosse qualcuno che è nato e vive nella cosiddetta periferia, visto che la questione, nella prospettiva della città metropolitana, sarà al primo posto delle agende politiche. Ma soprattutto non è accettabile l’idea di un sindaco-re che insieme alla regina e alla sua corte contende all’imperatore il diritto di decidere chi dovrà essere il suo successore, pur dopo aver garantito che per correttezza non avrebbe sostenuto alcun candidato.

Non che mi sia mai fatta alcuna illusione sulla “partecipazione”: lì o sei invitato a cena anche tu o non partecipi a un tubo. Ma che da questa fastidiosa retorica si passi a una spudorata logica dinastica, in effetti è un po’ tantino. È questo a prescindere dal valore dei candidati e delle candidate lanciati nell’agone, tutti ottimi, ci mancherebbe.  Mi auguro pertanto che sia Renzi sia Pisapia si muovano con maggiore discrezione su Milano: non credo affatto che il sindaco uscente sia maggiormente titolato a invadere il campo. Il/la sindaco/a che voterò lo voglio “periferico” e senza sponsor.

leadershit, Politica Dicembre 2, 2015

Elezioni amministrative: basta con l’uomo solo al comando. Fateci vedere la squadra

Linus, direttore di Radio Dj, è un tipo molto capace nel suo lavoro oltre che parecchio simpatico. A qualcuno del Pd milanese è venuta l’idea balzana di chiedergli di candidarsi alle primarie per la scelta del candidato sindaco. Non si sa bene a chi: di fronte al suo garbato rifiuto (“non sono all’altezza… la politica mi fa abbastanza impressione“) e alle ironie della rete, oggi tutti nascondono la mano. Un agnello sacrificale della società civile sarebbe molto utile per non dare l’idea che queste primarie sono primarie solo del Pd -e non del centrosinistra- e che Beppe Sala, commissario e ad di Expo, nei fatti non ha veri competitor. Un po’ di cortina fumogena. Peccato, anche stavolta non è andata.

C’è un fatto: tolto il caso di Beppe Sala, candidato unico del partito unico per la città unica etc etc, tutti gli schieramenti fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. La bizzarra operazione Linus si spiega anche così. A Milano vive un sacco di gente, e nel sacco c’è anche tanta gente capace e competente. Eppure nomi non ne saltano fuori.

La politica delle donne mi ha insegnato a interrogare gli ostacoli anziché cercare di dribblarli, e a scrutare anche nei vuoti e i silenzi: quando persistono, è perché lì c’è qualcosa di significativo e anche di buono da capire. In questo caso, nella fatica di trovare “il nome”, il buono è che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, le simpatie della moglie, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.

La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).

Ecco perché mi ritrovo perfettamente nell’impostazione suggerita da Francesco Rutelli, ex-sindaco di Roma: basta con l’uomo solo al comando,l’abbiamo già visto per carità. È giusto che il sindaco sia la guida, il direttore d’orchestra. Quella che è fallita è la solitudine del comando. Ed è per questo che a mio avviso che prima di andare a scegliere i candidati, o assieme a questa scelta, a Roma e nelle altre città si dovrà andare verso l’identificazione di progetti, ma anche e soprattutto di squadre di governo, di personalità, di competenze, perché la solitudine ha dimostrato di avere fallito“.

Se posso dire, una logica più femminile che maschile.

diritti, Donne e Uomini, Femminismo, Politica, questione maschile Novembre 30, 2015

Giovanna Martelli, consigliera di Parità dimissionaria: “Troppa disattenzione ai temi delle donne”

Ho “litigato” spesso –rispettosamente- con Giovanna Martelli, consigliera di Parità del governo Renzi. Con rispetto anche maggiore guardo alle improvvise dimissioni dal suo incarico istituzionale nonché dal Pd (è entrata nel gruppo misto alla Camera). Da quel carro si scende malvolentieri –il flusso più cospicuo è in entrata- e dagli incarichi non si stacca mai nessuno.

Il casus belli: il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, Martelli aveva chiesto di anticipare il suo voto per l’elezione di 3 giudici della Consulta, in modo da poter partecipare a un incontro sulla violenza a Milano. Dopo un iniziale ok, il permesso viene negato via sms.

E’ la goccia che fa traboccare il vaso di una generale disattenzione sui temi delegati a Martelli: “Nel partito” dice “a queste cose si guarda con troppo sussiego. Si pensa che il 25 novembre sia solo una celebrazione retorica. Le donne del Pd mi hanno cercato solo dopo le mie dimissioni. Non esistono più le condizioni per lavorare”.

Anche se i nodi da affrontare non mancherebbero: il surplace senza fine sui diritti; i molti problemi delle donne su cui, ammette Martelli, “stiamo assistendo a veri passi indietro”: lavoro, gap salariale e pensionistico, servizi, salute, legge 194. Al governo più femminile di sempre non stanno corrispondendo, paradossalmente, passi avanti per la cittadinanza femminile.

Nella legge di stabilità (articolo 1, comma 334, gli stanziamenti per le Pari Opportunità subiscono un taglio di 2,8 milioni di euro l’anno nel triennio 2016-2018. Quindi dai 28 milioni previsti inizialmente per il 2016 (e ridotti a 25) si passerà a circa 17.500.000 nel 2018.

Preso in contropiede dalle dimissioni, il governo tenta il recupero. L’ex-consigliera alza il tiro: “Intendo porre precise condizioni”. Per esempio la re-istituzione di un Ministero per le pari opportunità?Non credo che sarebbe lo strumento più efficace” dice Martelli.

Al segnale lanciato da queste dimissioni -e alla “trattativa” che ne consegue- non stiamo prestando sufficiente attenzione.

 

 

 

 

giovani, italia, lavoro, Politica, scuola Novembre 27, 2015

Università: meno chiacchiere deleterie, ministro Poletti. E più investimenti

Quella del ministro del Lavoro Giuliano Poletti è un’assoluta banalità: meglio laurearsi in fretta e misurarsi da ventenni con il mondo del lavoro – è a quell’età che si impara un mestiere- che tirare in lungo per uscire splendidamente alle soglie dei 30, trovandosi “a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro“.

Ma se il corso di studi si conclude troppo in là non è affatto per l’ossessione, stigmatizzata dal ministro, di “prendere mezzo voto in più“.

La questione è ben più seria, e ha soprattutto a che vedere con l’organizzazione della nostra università, che sembra congegnata per fabbricare fuoricorso. Per non parlare del business milionario dei troppi master e contromaster post-laurea che dissanguano le famiglie, trattenendo ulteriormente i giovani in parcheggio fuori dal mondo del lavoro.

In questo blog ne abbiamo parlato più di due anni fa riprendendo Ivan Lo Bello (oggi presidente di Unioncamere oltre che del Comitato consultivo dell’ Agenzia Nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), il quale chiedeva “di introdurre tirocinii e praticantati durante i corsi universitari, visto che oggi i nostri ragazzi incontrano il lavoro mediamente tre anni più tardi rispetto ai loro colleghi europei”.

Anche per consentire eventuali correzioni di rotta nel corso di studi, orientando con maggiore consapevolezza la propria formazione: un gran numero di ragazzi oggi sceglie la facoltà in modo casuale, con l’unico criterio di dribblare i test d’accesso, e infilandosi in strade senza uscita.

Da un ministro, quindi, è lecito attendersi interventi più articolati e meno bar-biliardistici: che entrino nel merito dell’organizzazione delle università, che indichino proposte, che delineino soluzioni contro la dispersione. Anche perché è sempre stato molto comodo per i governi trattenere i ragazzi in percorsi scolastici sine die: finché saranno in formazione non saranno censiti come inoccupati o come neet.

Ma quella di Poletti è anche una banalità pericolosa, data la leggerezza con cui viene affrontato il tema dello studio. Al grande pubblico le cose che dice arrivano così: vedete di portare a casa in fretta quel benedetto pezzo di carta straccia, e non perdete troppo tempo a studiare. Discorso doppiamente rovinoso: perché studiare non è mai una perdita di tempo, anche quando allo studio non conseguono pezzi di carta, anche quando si sta già lavorando e perfino quando si è ministri. E perché si sarebbe dovuto tenere conto del contesto: un Paese, il nostro, che nella classifica dei 34 più industrializzati si piazza ultimo per numero di laureati (è questo che dovrebbe preoccupare il nostro ministro) e quartultimo per soldi investiti nell’università in rapporto al Pil (recentissimo rapporto Ocse). Viceversa, come dicevamo, siamo ricchi di 25-34enni con un titolo equivalente al master che non riescono a trovare uno straccio di lavoro.

Anzichè far chiacchiere un ministro del Lavoro, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dovrebbe prospettare soluzioni e dare battaglia per aumentare gli investimenti. Che, certo, si vedrebbero meno dei 300 milioni per il bonus di 500 euro a pioggia per tutti i diciottenni da spendere in attività culturali.

Ma si avvicinano le elezioni, e i pacchi di pasta à la Lauro rendono molto di più.