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femminicidio

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Novembre 13, 2013

Un docu-film per il 25 novembre, giornata contro la violenza

Il documentario “Marta’s Suitcase” del regista austriaco Günter Schwaiger racconta la storia di una donna spagnola vittima di una brutale aggressione da parte dell’ex-marito, che ora sta per uscire di prigione. Lei è certa che ci riproverà, così a ormai 10 anni di distanza è ancora costretta a nascondersi e combattere quotidianamente il trauma e la paura.
In parallelo il documentario mostra l’attività dell’associazione Männerwelten di Salisburgo, che offre ascolto e sostegno agli uomini violenti. Uno di loro accetta di raccontare anonimamente la sua esperienza, fornendo un inedito e agghiacciante controcampo al racconto di Marta. Girato in Paesi culturalmente e socialmente distanti come Austria e Spagna, il film mostra l’universalità del problema a partire da due casi reali: la sofferenza e la lotta delle donne vittime di violenza domestica da una parte e il lavoro e le motivazioni di chi si impegna per prevenirla dall’altra.
In programmazione nelle sale spagnole, “Marta’s Suitcase” è stato presentato per la prima volta in Italia nel corso di “Internazionale” a Ferrara lo scorso ottobre, e fino alla prossima primavera sarà in tour in molte città italiane nell’ambito di “Mondovisioni – I documentari di Internazionale”, che ripropone in tutta Italia la rassegna presentata al festival.
Per il 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza -ma anche prima e dopo quella data- il documentario sarà disponibile -versione sottotitolata in italiano- a chiunque ne faccia richiesta per proiezioni speciali, incontri ed eventi.
Il documentario può essere richiesto scrivendo a: info@cineagenzia.it, o contattando il 347 5781713.
Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Ottobre 21, 2013

#leggefemminicidio: è rottura in Se Non Ora Quando

Se Non Ora Quando si divide al suo interno sulla legge antifemminicidio.

Ieri il Corriere della Sera ha ospitato una lunga lettera firmata da Se Non Ora Quando – Libere (ala più filogovernativa di Snoq, diciamo così), sottoscritta tra le altre da Cristina Comencini, Francesca Izzo, Licia Conte, Serena Sapegno, Fabrizia Giuliani (qui la lettera integrale).

Oggi la replica di Se Non Ora Quando Factory, ala più “indipendente” di Snoq, che mantiene molte riserve sulla legge:

Qui potete leggere di seguito: ampi stralci della lettera di Snoq Libere, che difende la legge. La mia risposta/commento di ieri. E infine la lettera di Snoq Factory giunta oggi.

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Snoq Libere analizza la legge a cominciare dall’aggravante introdotta quando vi sia o vi sia stato legame affettivo tra l’aguzzino/assassino e la sua vittima (“ora le donne vedono riconosciuta la loro cittadinanza anche dentro casa. Hanno una sicurezza in più“).

Quanto invece all’irrevocabilità della querela, punto più contestato della legge, si dice che essa “per situazioni particolarmente gravi, discende direttamente dal fatto che nella legge la vittima è vista come un soggetto libero e pienamente responsabile delle proprie azioni. E questo sarebbe paternalismo, negazione della libertà femminile, manifestazione di una logica securitaria?”. Se la si pensa in questo modo, continua la lettera, si ha una “visione antistituzionale, o radicalmente liberale, secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis“, logica che “non ha portato risultati positivi per le donne italiane“.

La lettera stigmatizza il fatto di “volere tante donne nelle istituzioni e poi combattere aspramente un provvedimento che reca comunque la loro impronta” come “segno di incomprensione o di pregiudizio ideologico” e segnala le leggi che “hanno cambiato la vita delle donne italiane, (dal divorzio al nuovo diritto di famiglia all’aborto“.

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Questo il mio commento

Sul punto dell’aggravante:  il valore simbolico è chiaro. Si inverte una logica in base alla quale se a violentarti o malmenarti è il marito o il fidanzato la cosa tutto sommato è meno grave, come se gli si riconoscesse una sorta di diritto a farlo. Anzi, si sancisce, qui la gravità del reato è anche maggiore. Resta tuttavia il fatto che gli aggravi di pena non costituiscono mai un deterrente efficace. E che su questa logica remunerativa e non riparativa (cfr. il recente dibattito nel movimento femminista indiano sulla pena di morte per gli stupratori: vedere qui) il movimento delle donne, che molto poco crede al carcere come luogo di effettiva rieducazione, ha sempre espresso molte riserve.

Sull’irrevocabilità della querela: non è affatto vero che valga solo per le situazioni particolarmente gravi. Secondo la Cassazione deve valere sempre. La conseguenza è che le donne, non potendo revocare, si risolveranno a questo gesto definitivo solo in casi davvero estremi, tirando pericolosamente in lungo situazioni che invece richiederebbero l’intervento del “terzo”. Non è affatto questione di libertà e responsabilità: in questione è la complessità delle relazioni d’amore (leggere Lea Melandri, che se ne occupa da sempre): se in generale le donne esitano a denunciare, di fronte alla mannaia della definitività esiteranno ancora di più, con effetti nefasti. Anche perché l’esperienza insegna che più della metà delle denunce per maltrattamenti familiari e stalking (Procura di Milano) viene archiviata senza alcun atto di indagine. I tribunali sono oberati, la sensazione che il parere della Cassazione vada in direzione di uno sfoltimento è molto forte. Più in generale, non si può non tenere conto del fatto che le operatrici e le volontarie dei centri antiviolenza e delle case delle donne, che operano sul territorio da oltre un trentennio (per esempio quelli associati in D.i.re) hanno manifestato tutto il loro dissenso sul punto dell’irrevocabilità della querela: la loro competenza andrebbe tenuta massimamente in conto. Quanto alla logica securitaria, è stata espressa in modo inequivoco perfino da una delle stesse firmatarie della lettera, Fabrizia Giuliani, che in un’occasione pubblica ha affermato “abbiamo messo in sicurezza le donne”, linguaggio che con il femminismo non ha davvero nulla a che vedere.

Ancora: le leggi. Mi pare che qui la lettera operi una curiosa inversione. Non sono certo le leggi ad aver promosso libertà femminile. Semmai, al contrario, le leggi sono state la conseguenza di cambiamenti reali prodotti dalla forza e dalla libertà delle donne. Vale tra l’altro la pena di ricordare, fatto generalmente dimenticato, che il Pci frenò a lungo sul divorzio (l’immagine qui è molto eloquente)

 

E quanto alla legge 194, la scelta dell'”aborto di stato” -anziché la semplice depenalizzazione richiesta da una parte del movimento delle donne- ci ha condotto alla situazione di oggi: legge sostanzialmente inapplicata. Si valuta che in assenza di provvedimenti urgenti a brevissimo le italiane avranno solo la possibilità del fai da te, della clandestinità e dei cucchiai d’oro (vale la pena di ricordare anche questo: che meno di un mese fa il voto di un gruppo di consiglieri regionali Pd ha impedito che in Toscana passasse una mozione finalizzata a un’effettiva applicazione della legge, circostanza sulla quale, con poche eccezioni, le loro colleghe di partito hanno scelto di fare silenzio).

I “risultati positivi per le donne italiane”, quindi, sono essenzialmente frutto della lotta delle donne italiane, che hanno saputo fare passi da gigante nonostante le percentuali irrisorie di elette nelle istituzioni. Percentuali che oggi, sempre grazie alla lotta di tutte, sono significativamente aumentate: si tratterebbe ora di vedere segni concreti di questa massiccia presenza in un cambio vero di civiltà politica. Uno dei segni, per esempio, sarebbe quello di affidarsi alla competenza di chi da anni lavora in solitudine e senza risorse nel territorio della violenza sessista prima di varare un provvedimento su questi temi.

La lettera di Se Non Ora Quando Libere, infine, non fa menzione di altre due questioni significative:

la legge non fa riferimento a terapie alternative alla pena, ma parla unicamente di indicare agli ammoniti la possibilità di rivolgersi a centri che lavorano sulla violenza maschile. L’esperienza di anni  indica il fatto che il primo passo per un violento e/o sex offender è riconoscersi come tale: difficilissimo, quindi, che possa esservi un’adesione spontanea a un progetto di recupero. Diverso sarebbe se la terapia fosse alternativa alla pena, e quindi in qualche modo obbligatoria. Il desiderio di molte donne abusate si è espresso in questa direzione: vorrei che lui si curasse, non che andasse in galera. E in questo desiderio c’è molta sapienza -una logica, appunto, davvero riparativa e non semplicemente remunerativa- perché non se ne è tenuto conto?

Infine: a deporre a favore di un impianto sostanzialmente securitario c’è anche il fatto, di cui la lettera non fa menzione, che la legge, oltre che di donne si occupa di No Tavfurti di rame. Il che, insieme all’irresponsabilizzazione connessa all’irrevocabilità della querela, suggerisce  l’idea di una donna non soggetto della propria storia, ma in qualche modo oggetto -come il rame, come un’opera pubblica- da tutelare. Circostanza che ha autorizzato molte, e anche in Se Non Ora Quando, a parlare di un femminicidio simbolico.

Il problema non è la sicurezza femminile. Il problema è l’insicurezza (pericolosissima) maschile, che dal decreto scompare.

La questione è maschile.

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Ed ecco infine la replica di Se Non Ora Quando Factory: in Snoq, si precisa, non c’è un pensiero unico.

“Apprendiamo da una lettera alla vostra redazione quale sia la posizione delle “donne di Se non ora quando” sulla legge contro la violenza. Lo apprendiamo noi che facciamo parte di Se non ora quando. La lettera è stata firmata da un gruppo di donne che costituisce uno delle decine e decine di comitati Snoq sul territorio nazionale, il comitato “Se non ora quando–Libere”. Se non ora quando è un movimento molto ricco, attraversato da idee e visioni differenti. Da alcuni mesi non ha più un Comitato Promotore, quello che indisse la manifestazione del 13 Febbraio e indirizzò il percorso politico del movimento per circa due anni.

Il Comitato Promotore si è sciolto e diviso in due gruppi: “Se non ora quando–Libere” e” Se non ora quando-Factory”, e il movimento tutto si sta riorganizzando, con le sue molteplici realtà. Snoq, dunque, non ha più una voce unica con cui esprimersi. “Se non ora quando–Factory” è stato udito alla Camera a Settembre dove ha depositato un documento, firmato da 47 comitati territoriali di Snoq, in cui criticava con molte motivazioni il decreto legge. Ne rigettava l’impianto prevalentemente securitario e ne denunciava soprattutto l’insufficienza rispetto all’area della prevenzione della violenza, che tanto spazio occupa invece nella convenzione di Istanbul. La posizione espressa dalla maggioranza ha trovato discordi le donne di “Snoq–Libere”, autrici della lettera da voi pubblicata.

Noi crediamo di aver avuto, con le altre associazioni e parlamentari che hanno criticato il decreto, un ruolo importante nel promuovere la sua modifica. Pensiamo però che il risultato finale sia ancora lontano dall’impianto che dovrebbe avere una normativa sulla violenza efficace, che parta dalla prevenzione, dalla scuola e dall’educazione, che sostenga realmente i centri anti-violenza, e che soprattutto valorizzi la capacità di autodeterminazione delle donne, non che le individui come soggetti deboli da “mettere in sicurezza” per di più con la beffa di inserirle in un pacchetto dove si agisce, più nascostamente, su altre questioni come la Tav o i furti di rame.

Non pensiamo che questa nostra posizione sia una “visione antistituzionale, o radicalmente liberale secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis”, come scrivono le donne di “Snoq-Libere”. Tutt’altro. Noi pensiamo e affermiamo con forza che le donne e i loro corpi non possano essere utilizzati per far passare misure che non hanno niente a che fare con le loro vite e con il loro essere nella polis. Non “donne fuori, sopra o di fianco” alle leggi, ma donne messe “sotto” la legge. È possibile accettare una legge omnibus come questa, e dire addirittura che contiene qualcosa di rivoluzionario? Cosa c’è di rivoluzionario nell’utilizzare le donne come eterne ospitanti di questioni che non le riguardano? Proprio nulla. Che cosa le mette fuori dalla polis se non questo tipo di operazione, dove il riconoscimento della loro libertà è parziale, se non di facciata?

Le leggi non hanno “cambiato la vita delle donne italiane”, come scrivono le donne di Snoq Libere. Le leggi hanno registrato e testimoniato le conquiste fatte dalle donne con fatica e grande determinazione. Fare il percorso inverso, partire dalla legge per cambiare la vita delle donne può essere pericoloso, può farci perdere di vista proprio quelle vite. E il fatto fondamentale che è dalle vite che bisogna partire per fare le leggi.

In una fase come questa, – in cui l’autodeterminazione delle donne è continuamente messa in discussione, in cui la legge 194, senza un’adeguata regolamentazione dell’obiezione di coscienza, finisce per lasciare sole le donne, invece che essere il baluardo di un loro diritto inalienabile – noi non sentivamo proprio il bisogno di una legge che proteggesse le donne, che le dipingesse come soggetti deboli dove la libertà viene al secondo posto, dopo la “tutela”“. 

Se non ora quando – Factory

 

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, Politica Ottobre 15, 2013

#Femminicidio: il decreto della discordia

 

Ho voglia di confrontarmi con un uomo su questo bruttissimo decreto anti-femminicidio -meglio: su questo decreto-sicurezza, che riguarda anche il tema del femminicidio. Ne parlo con Stefano Ciccone dell’associazione Maschile Plurale. E per almeno due ragioni: a) insieme ad altri uomini, Ciccone riflette da anni ed efficacemente sulla sessualità maschile e sulla violenza; b) la questione va ricondotta a una dialettica viva e politica tra donne e uomini, fuoruscendo dalla logica emergenziale che ha informato il decreto secondo il quale il problema riguarda solo alcuni soggetti “criminali” e non invece le relazioni tra i sessi tout court.

Il problema fondamentale del decreto” dice Ciccone “sta nel fatto di aver voluto individuare una soluzione semplice a un problema complesso, in una logica più comunicativa che politica: dare una risposta immediata e tranchant a un’emergenza. Prima di essere “dimessa” la ministra alle Pari Opportunità Josefa Idem sembrava aver scelto un approccio diverso: partire dalle associazioni che lavorano da anni sul campo, costruire un percorso politico. Il decreto invece sembra cancellare tutta questa esperienza. Quella che ne esce è una rappresentazione delle donne come soggette deboli e bisognose di tutela”.

La discussione sulla irrevocabilità della querela non accenna a placarsi (qui, tra gli ultimi interventi, quello di Elettra Deiana) Anche il gratuito patrocinio per tutte conferma questa impostazione protettiva. Ma la protezione è l’altra faccia del dominio: ti proteggo, però devi fare come ti dico io.

Da questo punto di vista il decreto non sposta nulla. Lo stato di ‘minorità’ che giustifica il dominio qui si ripropone in chiave di tutela“.

Le donne vanno difese e “messe in sicurezza” e la violenza maschile è assunta come dato di natura: l’uomo mena, e non ci si può fare nulla…

La violenza viene letta come fatto criminale e non come il prodotto di una cultura radicata, sulla quale si può e si deve lavorare. Più la enfatizzi come emergenza, più rimuovi il fatto che si tratta di una questione che attiene alle modalità di relazione tra i sessi. Si rafforza un approccio di delega: la società affida al criminologo, alle forze dell’ordine, al giudice la soluzione di una questione che invece riguarda tutti “.

Nessun cenno a terapie obbligatorie – eventualmente alternative alla pena- per i maltrattanti e i sex offender. Si  parla solo di informare chi viene ammonito della possibilità di rivolgersi a un terapeuta (qui un elenco dei centri).

“Su questo è bene chiarirsi. Il sostegno ai centri di ascolto e di terapia per gli uomini violenti non deve andare a scapito di quello, importantissimo, ai centri antiviolenza per le donne. Una lettura patologica della violenza maschile rischia di distrarre dalla necessità di un lavoro che sia fondamentalmente politico”.

Il decreto è stato accolto come un passo avanti da molte donne…

Si è pur sempre trattato di un riconoscimento della centralità del fenomeno. Se ti metti nella logica delle risposte istituzionali, il decreto può essere inteso come un buon risultato. C’è questo clima creato dall’indignazione, che spesso si accontenta di una scarica motoria, purché sia. Ma credo che ci sia ampio spazio per tenere aperta la discussione. Nel femminismo paritario di Se Non Ora Quando c’è chi ritiene, come la deputata Fabrizia Giuliani, che l’obiettivo sia “mettere in sicurezza le donne”, in una logica emergenziale e non politica, stile “larghe intese”; ma c’è anche chi crede che la logica securitaria sia sbagliata, come la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli. Quanto al femminismo della differenza, credo che ci sia stata una certa esitazione a prendere in considerazione questi temi. Lì si sta lavorando su questioni come la politica della cura e l’autorità femminile: probabilmente tornare a parlare di violenza appariva come un ritorno indietro. Forse solo Lea Melandri, pur senza cedere al femminismo paritario, non ha mai smesso di interrogarsi sulla complessità delle relazioni d’amore”.

Sel e Movimento 5 Stelle non hanno votato il decreto perché veicolava contenuti che con la violenza sessista non avevano niente a che vedere: dall’esercito contro i NoTav al furto di rame.

“In effetti la sensazione è che si siano voluti rubricare sotto l’etichetta “femminicidio” provvedimenti che avrebbero suscitato molte discussioni se proposti in separata sede. Insomma, o mangi questa minestra… o niente decreto “a favore” delle donne”.

A parte Michela Marzano, Pippo Civati e pochi altri che hanno espresso le loro perplessità, il Pd, donne comprese, ha votato compatto. Te lo aspettavi?

“Francamente no. Abbiamo detto di Valeria Fedeli, c’erano anche altre parlamentari piddine che aveva espresso riserve. Forse il fatto di aver ottenuto finanziamenti per i centri antiviolenza è stato ritenuto un compromesso accettabile”.

Che cosa si dovrebba fare, a questo punto?

“Io partirei dai pochi elementi positivi. Nel decreto si parla anche di formazione e prevenzione: potrebbe essere utile una legge quadro che sposti il più possibile l’approccio: dal securitario-emergenziale al lavoro politico e culturale. Questo forse è anche il modo migliore anche per evitare una lacerazione tra le donne”.

 

Aggiornamento di domenica 20 ottobre, mezzanotte: 
la Cassazione ritiene che la querela debba essere SEMPRE irrevocabile.
Di male in peggio. Non denuncerà più nessuna.

 

Donne e Uomini, femminicidio, Libri, personaggi, questione maschile Settembre 29, 2013

Stupro: la pena di morte non serve. Parla Urvashi Butalia

La scrittrice ed editora indiana Urvashi Butalia

“La pena di morte non servirà a fermare la violenza. Anzi, potrebbe aumentare il rischio per le donne”: lo dice la scrittrice ed editora indiana Urvashi Butalia  intervenendo nell’ampio dibattito che si è aperto dopo la condanna alla pena capitale per gli stupratori e assassini di Jyoti Singh Pandey, la studentessa di 23 anni morta dopo 13 giorni di agonia in seguito alle violenze di branco subite su un bus di New Delhi, il 16 dicembre 2012.

Butalia è una scrittrice, storica ed editora indiana. Ha fondato la prima casa editrice femminista in India, “Kali for women”, e attualmente dirige Zubaan, che si occupa prevalentemente di temi di genere. E’ in prima linea nel movimento delle donne indiano. Ha lavorato molto sull’emancipazione delle donne dei villaggi, indagando sui crimini commessi contro di loro durante le guerre di separazione.Ha scritto tra  l’altro Speaking Peace: Women’s Voices from Kashmir (Zed Books 2002) e The Other Side of Silence: Voices from the Partition of India (Penguin 2000), ottenendo  numerosi premi e riconoscimenti.

Il prossimo 4 ottobre, ore 16, Urvashi Butalia parteciperà al Festival di Internazionale a Ferrara, giunto alla sua settima edizione, discutendo con le giornaliste Mona Eltahawy (Egitto), Chouchou Namegabe (Congo) e con la saggista femminista americana Rebecca Solnit sul tema “La guerra contro le donne. La violenza di genere, un’emergenza globale” (moderatore Riccardo Iacona).

In seguito allo stupro e alla morte di Jyoti Singh Pandey il tema della violenza sessista è posto al centro del dibattito politico e sociale in India. Secondo Eve Ensler, autrice dei “Vagina Monologues” e frequentatrice abituale del Paese, addirittura il tema politico centrale per la società indiana.  Chiedo a Butalia se è così:

 “Non mi pare” dice. “Il problema ha certamente assunto grande rilevanza per via della pressione dell’opinione pubblica e dei gruppi di donne. Ma in India ci sono questioni politiche non meno importanti: la povertà, la democrazia. C’è anche la questione di genere: non solo la violenza, ma la diseguaglianza tra i sessi”.

 Violenza che è effettivamente in aumento? O a crescere è la sensibilità alla questione?

Difficile dirlo. A Delhi dall’inizio di quest’anno il numero dei casi di violenza e di stupro è molto cresciuto. Ma è anche vero che è cresciuto il numero di donne che ha la forza di denunciare. La sensibilità al problema si è certamente acuita in tutto il Paese. La gente oggi ha ormai ben chiaro che gli stupri non hanno niente a che vedere con il modo in cui ti vesti o con il fatto che rientri tardi la sera. E che chiunque può esserne vittima, perfino avere un uomo accanto non è una protezione sufficiente. Nelle realtà urbane se ne parla anche a scuola: studenti, insegnanti e genitori che si confrontano sulla necessità di un’educazione sessuale. Ciononostante certi tipi di stupro, per esempio quelli a opera di militari nel Kashmir e nell’India di Nordest, regioni in cui l’esercito gode di un particolare status, non ricevono sufficiente attenzione. Su questi temi il movimento delle donne sta lavorando da tempo e continua a farlo”.

Abbiamo visto i festeggiamenti davanti al Saket Tribunal di Delhi dopo la sentenza di morte per gli stupratori di Jyoti Singh Pandey. Per molte femministe indiane, come la giornalista Shoma Chaudhury, la pena di morte non è tuttavia la soluzione. Che cosa ne pensa?

“Tutti hanno parlato di quei festeggiamenti. Ma quanta gente c’era a festeggiare? Un centinaio di persone? Duecento? Di sicuro non migliaia. Era un piccolo gruppo, fondamentalmente la famiglia della ragazza che, comprensibilmente, sperava in una sentenza severa. Nessuno però ha riferito delle molte manifestazioni contro la pena di morte, dei dibattiti, della campagna per abolirla. E’ su questo che si dovrebbe porre attenzione. Anch’io credo che la pena di morte non sia la soluzione, come praticamente tutte le femministe indiane. La vendetta o la cultura della punizione non possono essere la risposta, anche se è comprensibile che alle vittime e i loro cari appaiano come la sola forma di giustizia accettabile. Ma non c’è posto al mondo in cui la pena capitale abbia funzionato come deterrente. Non abbiamo alcuna garanzia del fatto che sia questa la strada per fermare la violenza. Anzi: se lo stupro fosse punito con la morte, aumenterebbero le probabilità che i violentatori uccidano la vittima per non essere identificati. Quindi, paradossalmente, la pena di morte farebbe crescere il rischio per le donne. Inoltre in tutto il mondo, non solo in India, la maggior parte degli stupri avviene tra le mura di casa o comunque a opera di persone conosciute. Se la violenza sessuale fosse punita con la morte, ben poche donne troverebbero il coraggio di denunciare qualcuno con cui hanno una relazione affettiva o convivono, e il silenzio sarebbe ancora più grande. Infine, se la pena fosse così severa, ci sarebbero ben poche condanne… quanti giudici si sentirebbero di mandare a morte un uomo? Capita già, e in tutto il mondo (insisto, non si tratta di un problema solo indiano), che i giudici consentano agli imputati per violenza di levarsi d’impiccio con ogni genere di giustificazioni, e comminino pene di lieve entità: se ci fosse la pena di morte questo capiterebbe molto più spesso. In India attualmente ci sono circa 300 condannati a morte, ma negli ultimi 10 anni solo in 3 o 4 casi la sentenza  è stata eseguita, e tutti lo sanno: come può il governo ritenere che la pena di morte sia un deterrente?”.

 I dati parlano di una situazione molto difficile per le Indiane: il Paese si colloca al quarto posto nella classifica dello “Stato peggiore dove nascere donna” dopo Afghanistan, Congo e Pakistan. E al primo posto per il numero di spose bambine. Quali sono gli obiettivi su cui sta lavorando il movimento femminista indiano?

 “La situazione è dura, ma non in modo così uniforme. E perfino in mezzo a simili difficoltà molte donne indiane riescono a fare cose meravigliose. L’India è un grande Paese, ci sono situazioni di ogni tipo, è come se vivessimo in molti secoli allo stesso tempo. Grazie a una legge del 1992 nei villaggi e nelle città ci sono un milione e duecentomila donne elette in posizioni di potere politico che stanno facendo un magnifico lavoro per migliorare la condizione di vita dei poveri nei villaggi. In nessun altro luogo del mondo esiste una simile forza politica! Perché allora ci limitiamo a parlare dei problemi delle indiane? Abbiamo molte importanti aziende, specie nel settore informatico, in cui il 50 per cento del personale è costituito da donne. Ci sono donne alla guida di importanti industrie, di tre fra le maggiori banche farebbe pubbliche e private indiane, HDFC Bank, ICICI Bank, The New Bank of India. Ci sono indiane che pilotano aerei (in una linea privata il 50 per cento dei piloti è di sesso femminile), che guidano taxi e camion… potrei continuare all’infinito. Eppure nessuno ne parla, specialmente sui media internazionali. Si parla solo delle cose che non vanno, mai di quelle che vanno. E’ facile vedere l’India come un paese terribile per le donne. Più difficile guardarla come una nazione complessa, dove il bene e il male coesistono e dove molte voci si sono levate contro lo sfruttamento e la violenza”.

Quali sono le principali differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale?

 “Diversamente da molti altri paesi abbiamo un forte movimento che lotta per i diritti delle donne, e che ha saputo cambiare molte leggi. Quanto meno non nascondiamo le cose sotto il tappeto. Le statistiche sugli stupri sono molto peggiori in America che in India. Ebbene: quand’è stata l’ultima volta negli Stati Uniti si è manifestato contro la violenza? E chi ne sta parlando? Nemmeno in Italia i dati sulla violenza sono confortanti: quando c’è stata l’ultima manifestazione sulla violenza nel vostro Paese? E il vostro movimento delle donne ne parla a sufficienza? Se ci si chiede quando c’è stata l’ultima manifestazione in India, non si va molto indietro nel tempo. Noi parliamo dei nostri guai, non li nascondiamo. E non puntiamo l’indice contro altri Paesi dicendo che il problema sta lì e non qui. Non ho visto molti altri fare questo. Tornando alla domanda: sì, ci sono differenze tra il femminismo indiano e quello occidentale. Tutti i movimenti femministi si radicano nelle realtà politiche e storiche locali, e vale anche per l’India. La lotta del femminismo indiano non è separabile dalla lotta per i problemi più pressanti del paese. Non si possono ignorare la povertà, la globalizzazione nei suoi aspetti negativi (e positivi), la questione della salute delle donne, dell’educazione e dell’alfabetizzazione, della mancanza di cibo, e via dicendo. Forse la questione che non ha confini è proprio la violenza contro le donne, che nelle varie culture può assumere forme diverse. Ci sono differenze ma anche somiglianze che permettono di connettere le donne di tutto il mondo. A distanziarci semmai è il fatto che noi femministe indiane non presumiamo di poterci pronunciare sulle realtà degli altri, e non riteniamo di sapere che cosa sia giusto o sbagliato per gli altri. Non pensiamo al femminismo come a una gara in cui certi paesi sono in vantaggio rispetto ad altri, né che la strada per l’emancipazione debba essere la stessa per tutte. La cosa più importante da comprendere per una femminista è la differenza, contro ogni logica gerarchica. Per questo non sentirai mai una femminista indiana dire: “Le cose vanno storte in quel posto”, mentre sentirai spesso un’americana o un’europea dire “le cose vanno molto male in India”, come se i guai fossero solo qui e non nei loro Paesi. Mi spiace insistere su questo, ma è un problema che sento molto”.

Per molte indiane di successo il fattore decisivo è stato l’autorizzazione paterna a studiare e a emanciparsi. E’ andata così anche per lei?

 “Direi che ciò che conta è l’autorizzazione di entrambi i genitori. Nella nostra cultura i vecchi sono molto ascoltati. I miei sono stati molto incoraggianti e aperti. Così come non mi hanno imposto di sposarmi, non hanno mai deciso quale mestiere dovessi fare. Quando ho cominciato a lavorare nell’editoria guadagnavo molto meno di quanto avrei potuto intraprendendo altre professioni. I miei genitori dissero semplicemente che se era questo che volevo fare, per loro andava bene. Penso di essere stata fortunata”.

L’India, come dicevamo, ha il primato delle spose-bambine, ma forse anche il primato negativo delle single e delle donne senza figli, che sono pochissime. Lei stessa ha scritto sulla sua condizione di childless…

 “Il matrimonio è una tappa importantissima nella vita di un’indiana. Anche se le nozze delle bambine sono vietate dalla legge, proprio per questa centralità del matrimonio molte famiglie fanno comunque sposare le loro figlie in giovanissima età. Il governo e i gruppi femministi stanno facendo del loro meglio per affrontare il problema. La grande importanza del matrimonio spiega anche il bassissimo numero di single, anche se ci sono molte donne che vivono sole perché il marito è emigrato in città, o perché sono rimaste vedove o sono state abbandonate. A causa della povertà e dell’analfabetismo poche accedono al divorzio: spesso non sanno nemmeno che è possibile. Tuttavia oggi esiste una piccola percentuale di donne, scolarizzate e spesso privilegiate, che sceglie di non sposarsi. Il fenomeno non è esteso, ma è comunque significativo e ormai visibile nelle realtà urbane. Io per esempio sono sempre stata single. In India questo non mi ha mai creato problemi. L’unica volta che ho sentito la mia condizione come svantaggiosa è stata nei due anni che ho trascorso in Gran Bretagna, ormai quasi trent’anni fa. Ero giovane e tutti si aspettavano che fossi in coppia. C’era sempre un certo imbarazzo tra gli amici quando si trattava di invitarmi a cena, perché si doveva essere pari e non sapevano come regolarsi con una single. Per loro era più facile comprare 4 bistecche che 3, a quanto pare! Pensavano anche che in quanto single io fossi infelice. E’ l’esatto contrario. Invece in India, ribadisco, problemi non ne ho mai avuti”.

 Su che cosa sta lavorando, ultimamente?

 “Non ho tempo per scrivere, purtroppo. Sono troppo occupata come editore. Ma ho appena finito di curare “Reader on India”, antologia di scritti sulla storia, la cultura e le politiche in India dall’antichità a oggi. Sarà pubblicato anche negli Stati Uniti dalla Duke University Press. Il mio prossimo progetto, già quasi ultimato, è un libro sulla vita di un transgender, una hijra: i temi della sessualità, della cittadinanza e del genere visti attraverso la vita di questa persona. Spero poi di poter finalmente scrivere un libro sulla casa di mio nonno in Lahore, e su mia nonna che fu costretta in quella casa dopo la Partition, la guerra di separazione dl sub-continente indiano alla fine degli anni Quaranta, nonché costretta a convertirsi all’Islam. Mi piacerebbe trovare un modo per entrare nella sua testa e parlare dell’India e del Pakistan attraverso la sua storia e la storia della casa. La casa editrice ha in cantiere progetti molto eccitanti: un secondo libro di Baby Halder, lavoratrice domestica la cui autobiografia, pubblicata alcuni anni fa, è stata il nostro più grande successo editoriale; il libro su una donna di bassa casta di Gujarat; un meraviglioso racconto sui cinesi in India; un libro sul rapporto tra un gatto e la sua padrona, e molto altro”.

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Settembre 25, 2013

Il silenzio di Ilaria, morta ammazzata

Ci penso e ci ripenso a questa ragazza di vent’anni, Ilaria Pagliarulo, ultima vittima di femminicidio -almeno fino alle 9 di stamattina, in media ce n’è una ogni due giorni***-.

Non lo faccio mai, mi sembra una violazione, ma stavolta sono andata a guardare la sua pagina Facebook, ho sbirciato tra le sue foto. Le piaceva Eminem, poi c’è una serie di immagini di lei molto dark, forse era Halloween, parole d’amore, piccole trasgressioni, malinconie, insomma una ventenne, nata a Erba, cresciuta a Como, trasferita a Statte (Taranto) probabilmente per ragioni familiari.

cambiamento totale,ascoltare la musica napoletana,e invece prima ascoltavo il metal. Si cambia nela vita”.

Non le piaceva stare lì, rimpiangeva il lago, i suoi amici.

“alla maggiorparte penso,xke sn al sud se su a como stavo bn,senza pensieri,senza paure e senza problemi.caxo voglio scappare via di qua”. “mizega ke palle,a casa senza u cor mi,ce noia. Mi manca como,ragashish mi mancate tutti”.

Una dichiarazione d’amore che sembra un sonetto:

“cm sto buon cu te,si ttt cos x me.ser il bene ke mi fa bn,cu te vogl viver.io sl a te vogl,sta vita e bell cu te,i basc tui sn carnali e fan ben al anima.io e te,cuore contro cuore.io e te,favola d’amore.io e te,nui nun putim mai perdr.io e te,cielo e universo.io e te,sim sempr i stess.io e te,siamo una bomba d’amore”.

Quasi certamente era per quel ragazzo, Cosimo De Biaso, con cui viveva da qualche mese nella vlletta di Statte, al piano di sotto -sopra, leggo, stava la padrona di casa insieme alla mamma di Ilaria, che le faceva da “badante”-. Quel ragazzo, 24 anni, a quanto pare la menava e la maltrattava da tempo. La sera di domenica 15 settembre lui le ha sparato, la pallottola ha perforato un rene.

Ilaria non dice niente a nessuno, cerca di tamponare l’emorragia, se ne va a letto sanguinante e dolorante. La mattina dopo -come in un film dell’orrore- lui le spara nuovamente, perforandole un polmone. Stavolta Ilaria avvisa la madre, arriva l’ambulanza, Cosimo spara altri due colpi, contro l’auto che sta trasportando Ilaria all’ospedale, e contro la madre della ragazza. Ilaria muore dopo una settimana di agonia.

Stavolta pare che ci sia poco da capire. Lui aveva già fatto varie stramberie, è stata disposta una perizia psichiatrica. Secondo il gip Pompeo Carriere, che ha convalidato l’arresto, avvenuta alcuni giorni fa, De Biaso «ha dimostrato di essere soggetto portatore di una spiccatissima e assolutamente allarmante inclinazione alla violenza» e di non avere «scrupolo di utilizzare con disinvoltura armi da fuoco». O invece no, invece, come quasi sempre, anche in questo caso il femminicida è perfettamente sano di mente.

Da capire certamente c’è lei, questa ragazza di vent’anni nata e cresciuta al Nord e trasferita al Sud che si lascia malmenare per mesi dal ragazzo che ama tanto, continua ostinatamente ad amarlo, gli perdona proprio tutto, lo copre anche quando lui la ferisce gravemente, chiede aiuto solo alla seconda pistolettata, per puro istinto di sopravvivenza.

Se si fosse fatta aiutare subito, Ilaria sarebbe ancora viva. Perché ha rinunciato a difendersi? Che cosa l’ha trattenuta dal farlo? Che cosa le passava per la testa?

Metto insieme un po’ di pensieri, che sono solo miei -non ho che l’empatia a mia disposizione- per provare a immaginare, perché cercare le risposte serve a tutte, è un esercizio utile per tutte, me compresa:

“L’ho fatto incazzare, è colpa mia“. “Lui è nervoso, ma è buono e mi ama“. ” Gli uomini picchiano sempre, è normale“. “E’ soltanto un graffio, ora smetterò di sanguinare e domani starò meglio”. “Non posso denunciarlo. Io con gli sbirri non ci parlo“. “Meglio che non dico niente a mia madre, se no succede un casino”. “E se lui se la prendesse pure con lei?”. “Mi vergogno a raccontare quello che mi ha fatto. Mi vergogno a essere una che si lascia maltrattare come quelle che si leggono sui giornali”. “Tanto anche se lo denuncio è inutile“. “Tanto se lo denuncio quando torno a casa lui mi ammazza sul serio”. “Non è vero, non può essere vero, questo è un incubo. Poi finisce”. “Non mi merito baci e carezze”. “Non è successo niente, non è successo niente, non è successo niente”.

Non riesco a non pensare a questa povera bambina.

 

*** Aggiornamento di giovedì 26: la “prossima” è arrivata. Eccola qui

 

femminicidio, Politica, questione maschile, scuola Settembre 20, 2013

Sulla violenza: lettera Snoq alla ministra Carrozza

 

Maria Chiara Carrozza, ministra dell’Istruzione

Se Non Ora Quando Factory invia una lettera alla Maria Chiara Carrozza, ministra dell’Istruzione, sulle “donne, la scuola, i programmi”.La pubblico volentieri

 

“Gentile Ministra Carrozza,

siamo un gruppo di donne che insieme ad altre hanno organizzato la giornata del 13 febbraio 2011, giornata che è rimasta nel cuore di tutte. Le confessiamo che il grande successo di quella manifestazione ci ha riempito di gioia, ma anche ci ha lasciate sgomente dal senso di profonda e drammatica necessità che tante donne portavano nelle piazze, necessità e urgenza di cambiamento, di ossigeno. Ricorderà che in quel periodo le nostre istituzioni, il Parlamento, si trovavano impantanati in storie ridicole trasformate in affari di Stato, si votava sulla nipote di Mubarak.

Questa nostra presentazione non serve per farci grandi, ma per poter meglio far comprendere che da quel giorno la necessità e l’urgenza di cambiamento non ci hanno più abbandonate e sono diventate per noi interrogazione quotidiana.

Una lettera alle istituzioni di questi tempi è inusuale, troppo divaricata è infatti la forbice tra governanti e governati, troppa sfiducia, troppo sospetto, troppa estraneità. Ma questo non vale per Lei, signora Ministra. A parte la stima grande per la sua storia di scienziata, ci è molto piaciuto il suo discorso a Cernobbio. Anche noi pensiamo, come lei, che la politica ha fatto male alla scuola e che con questa classe dirigente omologata con poche donne non riusciremo ad uscire dalla crisi. Ci piace quando parla di investimenti per la scuola e non di spese. Ci piace quando va a inaugurare l’anno scolastico a Casal di Principe, significando così che nessuno deve essere lasciato indietro.

Nessuno deve essere lasciato indietro. Per questo le scriviamo.

Come tutti di questi tempi avrà sentito parlare di femminicidio, di violenza contro le donne ne avrà letto, ne avrà sofferto, come ogni donna, di quel dolore speciale, dolore che un uomo, anche il più buono e pietoso, non può provare. C’è chi dice che è un fenomeno antico, che c’è sempre stato, che i numeri non sono aumentati. Fatto sta che oggi di donne ne muoiono troppe e troppe sono ancora maltrattate. E che bisogna mettere le mani urgentemente per arginare questo fenomeno antico o moderno che sia. Per lo più le donne che vivono questa disgraziata condizione, o che ne muoiono, sono stanche di essere male amate, stanche di obbedire, stanche di servire. La loro sofferenza, la loro morte svela un mondo terribilmente impreparato alla libertà delle donne.

A questo punto Lei si chiederà perché le stiamo parlando di tutto questo. La risposta è semplice. Perché, come lei, pensiamo che sia la scuola la strada più importante per uscire da questa crisi. In questo caso non parliamo di crisi economica e politica, ma della crisi profonda dell’anima di questo paese. E’ questa una grande urgenza.

Vede, noi non crediamo che si possa vincere la violenza contro le donne con l’inasprimento delle pene. Poco, solo un poco, crediamo ai provvedimenti di allontanamento dei violenti, alla loro rieducazione. Noi pensiamo che l’unica cosa che salverà noi donne da tutto ciò sia la stima di sé, il rispetto di sé, la coscienza del proprio valore, il senso della propria dignità. E’ anche noi stesse che dobbiamo rieducare, quindi, per poter riconoscere la violenza prima che accada. Niente altro ci salverà.

Siamo state molto deluse dal Decreto Legge recentemente proposto, decreto per altro senza un euro di finanziamento, che affrontava la piaga della violenza contro le donne come problema di ordine pubblico, accomunandola  alla violenza negli stadi, a chi ruba i fili di rame, ai no Tav. Questo significa non capire nulla o meglio far finta di non capire che il problema della violenza contro le donne non è il problema dei violenti ma di un’intera società.

Non crediamo neanche alle “lezioni di buona educazione” che ogni tanto insegnanti di buona volontà impartiscono nelle scuole a ragazze e ragazzi. E tanto meno crediamo sia giusto e buona la pubblicità reiterata della violenza, anzi pensiamo che faccia male, male alle ragazze per la spontanea identificazione con la vittima, con la parte debole, e male ai ragazzi per i possibili sensi di colpa e l’identificazione con la parte comunque forte. Lottare, poi, contro gli stereotipi nei libri di testo è ottima cosa ma pensiamo non basti. Per quanto ci riguarda ci auguriamo un mondo dove nessuno sia servo di qualcun altro e dove ognuno pulisca ciò che ha sporcato.

Che fare, allora. Abbiamo parlato di autostima, unica soluzione possibile. Ma la stima di sé comincia sempre prima di noi. La stima di sé per essere ha bisogno di due cose, l’ammirazione per coloro che sono venuti prima di noi e le aspettative di chi ci sta intorno. Questi sono i due nutrimenti necessari. La nostra società di aspettative nei confronti delle donne ne ha ben poche, lo sanno tutte le donne che hanno voluto e vogliono mettere al servizio della società i loro talenti, le loro ambizioni. Tutte possono, infatti, raccontare strade faticosissime. E l’ammirazione per chi è venuta prima di noi è semplicemente impedita. Le donne della storia, le filosofe, le scrittrici, le artiste, le scienziate sono dimenticate. La scuola non le racconta.

Noi crediamo profondamente nella differenza tra uomini e donne. L’uguaglianza non è per noi un valore, se non nella dignità e nel diritto. Crediamo nella differenza come ispiratrice di una giustizia migliore, una società più accogliente, più equilibrata. Uomini e donne hanno corpi differenti, differente storia, differente cultura. Noi donne veniamo da una storia pesante e dolorosa, ma che ci ha insegnato molto, questo è il nostro tesoro. Pensiamo che sia il tempo di mettere al lavoro questa differenza per una nuova concezione del mondo, per una nuova visione della società. Uomini e donne insieme nel governo della cosa pubblica, nel pensare, nel fare delle scelte che riguardano la vita di tutti, nella scienza: a questo bisogna preparare ragazze e ragazzi.

Noi pensiamo, l’abbiamo detto, che per dare forza, stima di sé, rispetto di sé alle ragazze come ai ragazzi siano necessarie delle figure da ammirare. Le ragazze hanno bisogno di figure di riferimento forti, donne forti, che hanno dato il meglio di sé, esempi da seguire. Questo è un nutrimento simbolico necessario. Ma la nostra scuola insegna solo ad ammirare gli uomini e le loro opere.

Le poche donne che restano nei programmi finiscono per rappresentare delle eccezioni, il loro potenziale simbolico è nullo, la loro forza resta intransitiva. Ai ragazzi si mostra un mondo di uomini, alle ragazze è riservato uno specchio vuoto. Questo è male per entrambi

Questo non era grave in un mondo dove le donne vivevano sotto tutela, quando non potevano accedere alle professioni, non potevano amministrare i loro beni, non votavano. Ma oggi no, oggi una ragazza sceglie cosa vuole studiare, può viaggiare, vota, può scegliere con chi dividere la propria vita, può avere figli o no, se non li desidera, può vivere dove vuole.  Ma la scuola di oggi per lei è ancora quella Ottocentesca, nelle sue linee fondamentali. Le donne non ci sono, non si ricordano, non si studiano, non esistono.

Dove sono le Maria Montessori, le donne che hanno covato l’Illuminismo nei loro salotti, Madame Curie, Santa Teresa d’Avila, le donne che hanno fatto la loro parte nel Risorgimento, le tantissime poete, le grandi scrittrici, le matematiche, Simone Weil, Hannah Arendt? Non ci sono, se non per la buona volontà di alcuni insegnanti disposti a “fuori programma”. Perché non si celebra l’8 Marzo come giorno della memoria del percorso delle donne, e degli uomini loro alleati, verso la loro libertà? Perché non si racconta ai ragazzi e alle ragazze le tappe di questo cammino luminoso?

Degli psicologi, reduci da un’inchiesta in tre licei della Regione Umbria, ci raccontavano della grande difficoltà in cui si trovano oggi le ragazze, per il semplice fatto che l’assenza di figure forti di riferimento entra in contraddizione con la libertà che godono, creando spaesamento, confusione, senso di solitudine, debolezza.

Lei non era ancora Ministra, quando si è indetto l’ultimo concorso per i nuovi docenti. Nel programma di Letteratura Italiana, su cui dovevano rispondere i candidati, su 30 autori c’era una sola donna: Elsa Morante. Anche questo è femminicidio. Si dice che le donne debbano andare avanti solo con il merito, ma alla povera Grazia Deledda, evidentemente, non è valso nemmeno il premio Nobel.

Gentile Ministra, ci rivolgiamo a lei, perché lei in questo momento è quella che può fare moltissimo contro la violenza alle donne, ma non solo, è quella che può rendere questo paese più civile, più equilibrato. La rivoluzione, non abbiamo altro termine, deve cominciare  dalla scuola, può essere solo nella formazione. Cambiare urgentemente i programmi, per dare forza alle ragazze, non farle sentire aggiunte in questa società, ma necessarie. Questo prima di tutto. Non c’è vero discorso sulla modernizzazione della scuola se non si parte da qui.

Ma non solo. Ridare dignità alla figura del docente, non farlo vivere sulla soglia della miseria, non farne un vinto. E rendere difficilissimo diventare insegnanti, che non sia una professione di rimedio ma di vera vocazione. Questo però è un altro discorso.

Se condivide quello che abbiamo detto, ci piacerebbe incontrarla per raccontarle il nostro lavoro.

Confidiamo molto in Lei. Grazie per la sua attenzione”.

Se non ora quando FACTORY

 

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Settembre 2, 2013

Forti contro i violenti: il diritto di reagire

Un giorno sento raccontare a Marisa Guarneri, presidente onoraria della Casa delle donne maltrattate di Milano, del caso paradossale di una donna che veniva malmenata dal marito in carrozzella: pur essendo fisicamente più valida, e quindi perfettamente in grado di difendersi dal suo aguzzino, non attivava la sua forza e stava lì a prenderle.

Poi, l’altro giorno leggo del presidente del Consiglio centrale islamico, Nicolas Blancho, un convertito all’Islam che nel corso di un dibattito politico alla tv svizzera DRS ha sostenuto che “picchiare una donna fa parte dei diritti dell’uomo” e ancora che  “picchiare le donne fa parte della libertà religiosa“. “Non devo fornire nessuna giustificazione” ha replicato i suoi interlocutori, che avevano reagito vivacemente perché non ho commesso nessun reato. Ognuno è libero di credere a quello che vuole, purché rispetti la legge”.

Riporto la vicenda su Facebook, con la frase: “perché non muori subito?”.

Tra i molti consensi, alcuni commenti esprimono rammarico per la mia uscita, fra cui questo: “Io ti seguo da lungo tempo, e scrivi delle ottime cose – non condivido alcuni aspetti delle tue riflessioni, ma gli obiettivi credo siano comuni. Non trovo nessuna ragione con la quale giustificare una antisessista e una femminista che augura la morte ad una persona che SENZA SE E SENZA MA dice una cosa inaccettabile… La società per cui tu ed io ci battiamo non è una società in cui le donne vivono libere e chi dice una cosa gravissima come questa viene ucciso. Sbaglio?”.

Io in verità non affatto ho invocato la pena di morte per questo orribile individuo, mi sono solo appellata a una giustizia cosmica. Inoltre il fatto che sia un’autorità dell’Islam per me non ha alcun significato: è un uomo perverso e violento, alle cui affermazioni ho sentito di reagire esprimendo il mio intenso desiderio che sparisca immediatamente dalla faccia della terra. Lui e quelli come lui.

Marisa Guarneri dice che ha sentito molte donne maltrattate esprimere questo desiderio:

“Perché lui non muore?”. Come a dire: così risolviamo tutti i problemi. Ma è raro che le reazioni vadano al di là delle esternazioni rabbiose. Quasi sempre le donne si lasciano maltrattare senza trovare e nemmeno cercare la forza per reagire. Come se avessero paura di passare dalla parte del torto, perché il mondo si aspetta da loro non violenza, mitezza, comprensione… E invece la reazione immediata a un primo maltrattamento potrebbe interrompere subito la catena di violenze”.

Che cosa intendi per “reazione”?

“Intendo che è come se le donne mancassero di una competenza rispetto al difendersi. E’ un tabù profondissimo e millenario, che le paralizza fisicamente e psichicamente e impedisce loro di reagire alla violenza. Via via si instaura un circolo vizioso: la donna maltrattata si debilita psichicamente e fisicamente, e la forza la perde del tutto”.

Non mi hai detto che cosa intendi per “reazione”…

“Anzitutto la sottrazione di sé. Non stare lì a prenderle. Andarsene. O esigere che non girino armi per casa. E comunque tenere conto del fatto che è pur sempre prevista la reazione per legittima difesa”.

Se tu aggredisci un animale, lui si difende, lotta, reagisce. Noi non ci consentiamo nemmeno il pensiero di farlo.

“Per prevenzione della violenza si intende andare a parlare nelle scuole. Attività utilissima, ma è prevenzione anche attrezzare psicologicamente le donne a un’autodifesa efficace. Perché si tratta anzitutto di rompere un tabù interiore, di disinnescare un freno a mano millenario che ti impedisce anche solo di pensare a una reazione. Anche per me non è facile parlarne. Ma è necessario entrare nel merito”.

Forse il tabù si incrinerebbe se provassimo a confrontarci sulle nostre fantasie reattive con un lavoro di autocoscienza. Ti dico le mie, un po’ “Kill Bill”: bande di “angels” che aspettano sotto casa il violento; armi paralizzanti distribuite alle donne a rischio, che mettano ko l’abusante per il tempo necessario…

“Quello che è certo, è importante parlarne, prima in ambito protetto e poi pubblicamente. Questo tabù –non sapersi difendere, non saper attivare tutta la forza necessaria- va fatto fuori”.

P.S.: un amico, sempre su Fb, interviene nel dibattito ricordando una dura riflessione di Hannah Arendt, suppongo tratta da “La banalità del male”: “E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato“. “Questo scriveva Arendt su Adolf Eichmann, dice l’amico, e per quanto mi riguarda dal punto di vista filosofico questo tizio è un Eichmann in sedicesimo che non ha ancora avuto occasione di fare vittime, ma la mentalità è quella”.

Come vedete, la discussione è assai complessa.

 

 

femminicidio, questione maschile Agosto 13, 2013

Non basta un decreto a fermare gli #stalker

Vittorio Ciccolini, penalista veronese, stalker e femminicida

Terribile giornata di violenza sessista, ieri.

A Genova una donna è stata gravemente ustionata con l’acido da un uomo all’interno dell’ospedale dove lavorava. Rischia di perdere un occhio.

Ad Avola Antonella Russo è stata uccisa a fucilate dal marito, padre dei suoi 3 figli, dal quale viveva separata. L’uomo si è poi suicidato. La donna viveva da tempo a casa della madre, lui la perseguitava.

Ma è soprattutto il femminicidio di Lucia Bellucci, 31 anni, a Verona, che pare costituire una prima tragica risposta al decreto antiviolenza recentemente varato dal governo Letta, e delle cui criticità avevamo parlato qui.

Vittorio Ciccolini, 45 anni, assassino confesso, è un noto penalista del foro veneto. Lei lo aveva lasciato da un anno, lui non si dava pace. C’era stata una denuncia per stalking. Dopo una cena a due –gravissimo errore, anche la donna di Avola era stata convinta dal marito a una “passeggiata”: non farlo, mai!- lui l’ha strangolata e pugnalata al cuore. Il corpo è stato ritrovato nella Bmw di Ciccolini, parcheggiata nel garage della madre.

Il caso veronese è esemplare perché l’avvocato  femminicida era perfettamente consapevole, mentre perseguitava la sua ex, di adottare un comportamento penalmente rilevante. Ed era certamente più informato di tutti noi dell’aggravio di pena disposto dal decreto. Tutto questo non è bastato a fermarlo e a interrompere la classicissima escalation dallo stalking al femminicidio.

E che cosa avrebbe potuto fermarlo? Verosimilmente solo due cose, in alternativa: che la ex avesse ceduto alle sue pressioni tornando con lui; che un terapeuta lo avesse accompagnato nell’accettazione e nell’elaborazione del lutto costituito dall’abbandono.

Un uomo che uccide la donna che lo lascia è come un neonato di 80 chili che agisce le sue fantasie distruttive contro la madre che minaccia di togliergli il seno e abbandonarlo a morte sicura. Un uomo che uccide la donna che lo lascia si sente destinato a morire, separato dal corpo di lei che lui percepisce come un tutt’uno con il proprio corpo, senza soluzione di continuità (ecco infatti spesso, dopo l’omicidio, il suicidio, a raffigurare questa inseparabilità). Un uomo che uccide la donna che lo lascia non ha mai portato a termine quel processo di individuazione-separazione dalla madre che si dovrebbe compiere entro i primi tre anni di vita, permanendo in una fusionalità patologica.

Lo stalking funziona come una droga per attenuare la sofferenza. Finché alla fine non basta più.

E’ difficile che uno stalker smetta da solo. Non è difficile che l’esito dello stalking sia il femminicidio. Come dicevamo qualche giorno fa, solo un percorso terapeutico obbligatorio, eventualmente alternativo alle pene detentive, può disinnescare la bomba. Ma di tutto questo nel decreto Letta non c’è traccia.

Molte fra noi si occupano di questi temi da decenni. E’ davvero incredibile che il governo Letta di tutta questa sapienza non si sia voluto giovare.

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, Politica, questione maschile Agosto 9, 2013

Decreto antiviolenza: grazie. Ma si può fare meglio

Interrompo le vacanze per qualche considerazione sul decreto anti-femminicidio:

1. Un provvedimento legislativo era necessario, benché qualunque norma di legge vada a toccare la materia viva delle relazioni sia per definizione insoddisfacente. La vita reale nella sua complessità eccede sempre qualunque norma. Ma l’attenzione del legislatore serviva.

2. L’inasprimento delle pene non può essere inteso come un deterrente, ma ha una forte portata simbolica: serve a dire che la violenza sulle donne è giudicata un reato grave. Le attenuanti per i motivi d’onore, non dimentichiamolo, nel nostro Paese erano in vigore fino a pochi decenni fa.

3. La querela irrevocabile -una volta che hai denunciato non puoi più ritirare- è un punto assai critico. Se da un lato sventa il rischio che la donna ritiri la querela in seguito alle minacce del suo persecutore, dall’altro limita la libertà della donna, intendendola come oggetto da tutelare contro la sua libera soggettività. La libertà della donna è il migliore presidio contro il rischio di essere vittima di abusi, e non va limitata. Va ammessa la possibilità, in un percorso relazionale per quanto accidentato, che la donna decida liberamente di cambiare strategia. Anche questa “minorizzazione” delle donne ha una forte portata simbolica. Oltre ad aumentare il rischio che la donna rinunci a denunciare, spaventata dalla definitività.

4. Manca del tutto, mi pare, nel decreto, una proposta terapeutica per stalker, molestatori e violenti, eventualmente alternativa o da affiancarsi alla carcerazione o alle misure cautelari non detentive. Di un “fra-uomini” sul tema della violenza, che in alcune situazioni ha già dato risultati. Non si deve dimenticare il contesto in cui la gran parte dei femminicidi matura: l’abbandono da parte della donna, l’incapacità di gestire ed elaborare il lutto da parte del “ripudiato”, la sua solitudine e la mancanza, appunto, di un “fra-uomini” che lo accompagni nel percorso di accettazione e rompa la catena ossessiva rabbia-rifiuto-stalking, fino all’aggressione definitiva. La violenza sessista è una questione maschile, e come tale va affrontata.

5. Non ci sono soldi per nulla, vero: ma se i centri antiviolenza con la loro grandissima esperienza e l’elaborazione di pratiche sul campo non saranno adeguatamente supportati nel loro lavoro -che va dall’accoglienza delle donne alla formazione delle forze dell’ordine- i rischi che il decreto si fermi al “simbolico” sono piuttosto elevati.

6. Bene il permesso di soggiorno umanitario per le donne “straniere” vittime di violenza. Ma se le procure non smetteranno di archiviare -succede per esempio a Milano- oltre la metà dei procedimenti per maltrattamenti in famiglia e per stalking, lasciando la donna che ha denunciato a metà di un pericolosissimo guado, c’è il rischio che saranno le italiane a doversi rifugiare altrove per essere adeguatamente protette.

 

femminicidio, questione maschile Luglio 3, 2013

Fatemi capire che cos’è questo onore

Queste che vedete, con le loro incantevoli faccine sorridenti, sono due sorelle pakistane di 15 e 16 anni che ballano sotto la pioggia nel prato di casa -Chilas, nord del Paese- mimando allegramente una scena da Bollywood. Anche la mamma balla insieme a loro. Una scena di gioia e spensieratezza -che cosa c’è di più festoso e istintivo di un ballo?- che viene ripresa con il telefonino da un parente e diffusa tra amici e conoscenti.

Secondo il fratello delle ragazze questa scenetta di gioia disonorava la famiglia. Domenica sera, con l’aiuto di 4 amici, il ragazzo ha ucciso sua madre e le sue due sorelle. Per salvare l’onore, dopo una lunga premeditazione -il ballo sarebbe avvenuto 6 mesi fa- ha tolto la vita a chi gliel’ha data, e alle sue dolci sorelle, uccidendo una parte di sé.

Leggere questa notizia stamattina mi ha scaraventato in una tristezza abissale.

E’ intollerabile il contrasto tra la gioiosa innocenza di quel ballo sotto la pioggia, piccolo e domestico inno alla vita, e la turpitudine di quell’onore portatore di morte, più forte di ogni altro legame, più potente dell’amore.

Fatemi capire che cose’è questo onore.

Fatemelo capire, perché io sono una donna, e non lo so.

 

Giovedì, ore 11.30:

provo a darmi una spiegazione da sola.

Credo che l’onore sia un patto tra uomini maschi la cui violazione mette in pericolo tutta la “fratria”.
Le donne sono un pegno di questo patto, e vanno efficacemente controllate.
Se un uomo non sa controllare le “sue” donne non è un uomo, e mette in pericolo tutti.

La fratria gli chiede quindi una riparazione, anche al prezzo del sacrificio degli affetti più cari.