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bambini, Corpo-anima, Politica, salute Giugno 12, 2014

#Legge40: l’eterologa non è a rischio-zero

La neo-legittimità della fecondazione eterologa in Italia apre di sicuro problemi pratici, come notava Adriana Bazzi ieri sul Corriere della Sera. Problemi che riguardano procedure, caratteristiche dei donatori, l’eventuale costituzione di una Banca dei Gameti, e via dicendo. Ma forse non sono questi i problemi prioritari.

Sull’affermazione della Consulta che “non vi è differenza tra fecondazione eterologa e omologa” si potrebbe discutere a lungo. A quanto pare la Consulta intende suggerire che anche le famiglie che adottano non sono famiglie su base genetica (nel caso dell’eterologa sarebbero genetiche solo “a metà”). Ma il parallelo tra figli nati da fecondazione eterologa e figli adottati lascia qualche perplessità.

I figli sono sempre figli di chi li ama e li cresce, su questo nessun dubbio. Ma le traversie identitarie di un bimbo nato da fecondazione eterologa e quelle di un adottato possono essere molto diverse. Intanto il bimbo adottato è già al mondo, con tutte quante le sue ferite, ed essere accolto da una famiglia costituisce una riparazione affettiva. Il bimbo nato da eterologa invece viene chiamato consapevolmente e “problematicamente” al mondo.

Per gli adottati è ampiamente riconosciuto il tema del confronto con le proprie origini e con il fantasma dei genitori biologici. Sui bimbi nati da eterologa invece la discussione è più che aperta. Come avete letto, la presidente di Aidagg Paola Volpini è dell’opinione che “un gamete non è un genitore biologico”, che non vi sia alcun trauma di abbandono e alcun fantasma, e che “il caso del donatore di gameti invece è simile a quello del donatore di organi: conoscere chi ha donato può essere un’esperienza molto frustrante”.

Non ne sono affatto convinta. C’è un ampia letteratura –e perfino cinematografia- a dimostrare che anche un “gamete” è inteso dal figlio come propria radice, non indifferente per la definizione della propria identità, e che la sua “sparizione” può essere decodificata dal figlio come abbandono. Non è un caso infatti che la questione dell’anonimato, data da Paola Volpini e anche dalla legge come pacifica, pacifica non è affatto. Tant’è che in molti Paesi europei, come in Gran Bretagna e nel Grande Nord, il donatore NON può essere anonimo: decisione alla quale si è pervenuti dopo anni di esperienza.

Personalmente continuo a ritenere la “sparizione” del donatore come una ferita inflitta al bimbo che nasce, e sono convinta, al contrario, che tra il figlio e il “proprietario” del gamete che lo ha messo al mondo sia auspicabile il mantenimento di una relazione che può svilupparsi spontaneamente, diventando importantissima o secondaria nella vita del figlio. Quindi chi dona i propri gameti dovrebbe farlo accettando responsabilmente la relazione che nascerà, anche se non sarà formalmente responsabile della crescita e dell’educazione del bambino: penso alla relazione (a ogni relazione) come un dono, ed è solo in una logica di dono reciproco che riesco a inquadrare queste pratiche biotecnologiche.

Sono anche fermamente convinta, pur solidarizzando sinceramente con la sofferenza di chi non può avere figli,  che in questo campo gli unici diritti che contano sono quelli di chi viene messo al mondo.

Difficilmente si potranno affrontare argomenti tanto sensibili a colpi di sentenze. E anche se la Consulta precisa che non vi è alcun vuoto normativo e che la fecondazione eterologa sarà praticabile già da domani, mi pare auspicabile la riapertura di un dibattito in tutte le sedi, politiche e culturali.

 

 

bambini, Corpo-anima, salute Giugno 11, 2014

#Legge40: ti regalo il mio ovocita

Non discriminare le coppie infertili meno abbienti, che non possono permettersi di sostenere i costi del “turismo procreativo”. E riconoscere il fatto che “non c’è differenza tra fecondazione eterologa e omologa (con gameti dei due partner)”: ovvero le famiglie non si costruiscono imprescindibilmente sulla genetica, così come già riconosciuto dalle norme per l’adozione.

Sono queste le motivazioni in base alle quali Corte Costituzionale ha giudicato illegittimo il divieto di fecondazione eterologa stabilito dalla legge 40.

Secondo la Consulta, inoltre, la fecondazione eterologa è praticabile da subito, senza che si renda necessario intervenire con nuove norme: dal momento della pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale, prevista a giorni, le oltre 9 mila coppie in attesa potranno rivolgersi a centri pubblici o privati per intraprendere il percorso medicalmente assistito.

Pochi giorni fa è stata annunciata la nascita della prima associazione italiana di donatori di gameti a titolo altruistico e gratuito (Aidagg). L’associazione non è un centro per la procreazione medicalmente assistita né una banca di gameti, ma un’agenzia che intende rendere nota alle coppie infertili la possibilità di procreare con donazione di seme o di ovociti, oltre a vigilare contro abusi e mercificazioni.

Potranno donare i loro gameti uomini e donne di età compresa tra 25 i 35 anni, in buone condizioni di salute e in totale anonimato, come prevede la legge. Il numero di donazioni sarà limitato e da ogni donatore non potranno risultare più di sei gravidanze. Le donazioni saranno gratuite e volontarie, salvo il riconoscimento di un minimo rimborso delle spese sostenute. Le coppie non potranno scegliere il donatore e la donna ricevente non potrà avere più di 50 anni.

“Per quanto riguarda la donazione di seme è tutto piuttosto semplice” spiega Laura Volpini, presidente di Aidagg.Per la donazione di ovociti, invece, abbiamo 3 modelli diversi: ci sono coppie che hanno già ovociti congelati che possono essere donati: a Catania 11 donne hanno già dato la loro disponibilità. Vi sono poi giovani donne che si fanno prelevare e conservare ovociti in vista di un futuro progetto di maternità: anche in questo caso parte degli ovociti possono essere donati in cambio della crioconservazione gratuita. Infine esiste la donazione incrociata: voglio donare un ovocita a un’amica o a una sorella, ma la legge non lo consente perché la donazione non sarebbe anonima e/o esiste un legame di parentela. Quindi dono il mio ovocita alla banca dei gameti che “in cambio” fornirà un altro ovocita alla mia amica o sorella”.

Lei non ritiene che sia anche necessario un lavoro, sia sociale sia sanitario, per la prevenzione dell’infertilità?

“Senza dubbio. Chiediamo che il Ministero della Salute promuova una campagna in questo senso, anche nelle scuole, in cui si parli di orologio biologico, si chiariscano i rischi connessi alle malattie a trasmissione sessuale e così via. Perché si impari come avere figli, e non solo come evitare concepimenti indesiderati. Ma è necessario anche un lavoro culturale per la diffusione di un modello di famiglia plurale”.

 Siete d’accordo sull’anonimato del donatore?

“La legge stabilisce che sia garantita solo la tracciabilità dei dati. Ma quello dell’anonimato è un falso problema. Il caso dell’adozione non può essere portato a paragone: lì c’è il trauma dell’abbandono da parte del genitore biologico, per elaborare il quale può essere necessario l’incontro e la conoscenza. Il caso del donatore di gameti invece è simile a quello del donatore di organi: conoscere chi ha donato può essere un’esperienza molto frustrante”.

Non può manifestarsi, anche in questo caso, il fantasma dell’abbandono?

“Ma un gamete non è un genitore biologico! Semmai è importante che il bambino sia precocemente informato sulle modalità con cui è venuto al mondo. Per questo proponiamo un supporto psicologico alle famiglie che hanno fatto ricorso a eterologa”.

 Quali sono le motivazioni profonde che spingono una donna o un uomo a donare i propri gameti?

“Alla base c’è un’adesione altruistica. Non distruggere i propri ovociti in sovrannumero e donarli è un gesto di pura generosità. Viviamo in una società in profonda trasformazione, anche da questo punto di vista, e non possiamo ignorare le possibilità che ci sono offerte dalle biotecnologie riproduttive”.

A breve Aidagg comunicherà i suoi contatti.

p.s.: fin qui i fatti. Per le opinioni (le mie) ci risentiamo più avanti.

 

 

 

bambini, Donne e Uomini, economics Giugno 3, 2014

Il Papa, i cani, i gatti e i bambini

Se avessi il numero di Papa Francesco, al quale voglio bene, gli telefonerei per dirgli che la sua battuta sui cani e sui gatti non mi è piaciuta affatto.

Può anche essere che ci sia qualche coppia Dink (double income no kids) che a un bambino preferisce un soriano o un bulldog francese. Ma io conosco soprattutto un sacco ragazze che appuntano sulle loro bacheche di impiegate precarie foto di nipotini o di bimbi della pubblicità. Che osservano con angoscia il ticchettare del loro orologio biologico. E che alla fine prendono un cucciolo per riempire il vuoto, anche perché un cane o un gatto non fa scattare il licenziamento.

Da Papa Francesco, sempre così attento alle sofferenze umane, più che un’esortazione a fare bambini –suppongo che si sia spaventato di fronte ai numeri che illustrano la nostra natalità quasi-zero- mi sarei aspettata un severo monito a tutti coloro, a qualunque titolo, contribuiscono a dare vita a una società antimaterna. E il più delle volte per ragioni di profitto.

“Il demonio che attacca la famiglia”, come lui ha voluto dirlo, si chiama profitto.

Da Papa Francesco mi sarei aspettato una dura reprimenda contro i datori di lavoro che costringono le giovani donne alla sterilità, facendo loro firmare lettere di dimissioni in bianco, e contro quelli che le condannano, loro e i loro mariti o compagni, al precariato permanente, condizione che disincentiva ogni progetto genitoriale. Contro le banche che non concedono mutui. Contro uno Stato che, a differenza di quasi tutti gli altri Stati europei, non dà alcuna mano alle giovani madri e ai giovani padri, lasciandoli soli a godersi il “lusso” del figlio forzatamente unico.

Nessuna vera politica sulla famiglia, scarsissimo welfare, aiuti quasi-zero, sostegno economico idem.

La spesa media dei Paesi Ocse per la famiglia è del 2,2 per cento, con notevoli differenze. Francia, Gran Bretagna e Svezia sono i Paesi nei quali la spesa per le famiglie è più elevata (3,7 per cento in Francia, 3,5 in Gran Bretagna, oltre il 3 anche in Svezia). Tutti questi Paesi sono vicino ai 2 figli per donna. L’Italia spende per le sue famiglie l’1,4 per cento del Pil.

Leggo che il Sinodo del prossimo autunno sarà dedicato proprio al tema della famiglia. Mi auguro che Francesco colga l’occasione per aprire un vero e proprio conflitto con lo Stato Italiano e con la sua cultura anti-materna.

 

 

bambini, Donne e Uomini, italia, lavoro Maggio 5, 2014

Il Paese più vecchio del mondo (+precari = -bambini)

In mezzo ai tanti commenti su Genny ‘a Carogna e la débâcle dello stato democratico a cui abbiamo assistito sabato all’Olimpico, leggo sul Corriere, a firma Margherita De Bac, un’altra notizia molto sconfortante sul nostro Paese : i nostri tassi di natalità, già tra i più bassi del mondo, si stanno ulteriormente  riducendo a causa della grande crisi: -7.4 per cento tra il 2008 e il 2012, a cui si aggiungerebbe, secondo i primi dati provvisori, un altro calo pari al -4.3 nel 2013.

In parole povere, una catastrofe demografica. Siamo già il Paese più vecchio d’Europa, diventeremo un Paese vecchissimo. A ciò si aggiunga l’anzianità delle primipare italiane- record europeo pure questo: 4 su 10 mettono al mondo il primo figlio dopo i 35, con il bio-orologio già in fase di declino.

La natalità italiana tendente a zero va posta in correlazione diretta con la scarsa occupazione femminile –ancora non si è capito, o si finge di non capire, che le donne fanno tanti più figli quanto più lavorano- oltre che con la mancanza di servizi alle famiglie.

Osserva la sociologa Chiara Saraceno che “anche il tipo di contratto di lavoro conta ai fini delle scelte di fecondità… Nel 2013 aveva già un figlio il 34.1 per cento delle donne con un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23.8 per cento di chi ne aveva uno a tempo determinato”.

Il precariato, correlato a una bassa protezione sociale, aumenta la denatalità. Se a questo si aggiungono i servizi che mancano, i conti sono presto fatti.

Non la metterei sul piano dei numeri, delle statistiche e della demografia. Preferisco dirla così: tra i compiti del governo di un Paese c’è anche quello di non impedire alle cittadine quel “doppio sì” (sì al lavoro, sì alla maternità) che per moltissime –la gran parte?- qualifica il senso dell’essere donna. Direi di più: mettere al centro delle politiche questo “doppio sì” farebbe il bene di tutti.

Purtroppo la mancanza di misure davvero efficaci a favore dell’occupazione femminile, il consolidamento del precariato e l’assenza di vere politiche sulla famiglia vanno in tutt’altra direzione.

 

AMARE GLI ALTRI, bambini, Politica Aprile 14, 2014

Missione Mare Nostrum. Per curare la violenza

Domani mi imbarcherò sulla nave San Giorgio che dall’ottobre scorso, dopo la tragedia dei migranti nelle acque di Lampedusa, insieme ad altre navi della Marina Militare pattuglia il Mediterraneo nell’ambito della missione “Mare Nostrum”, operazione militare e umanitaria con l’obiettivo di salvare i migranti in mare e di rafforzare la protezione della frontiera.

In pochi mesi i recuperi sono stati quasi 20 mila, con un aumento esponenziale degli arrivi negli ultimi giorni date le buone condizioni del mare: solo tra il 7 e l’8 aprile 1049 migranti salvati.

La Fondazione Francesca Rava, che lavora sull’infanzia in condizioni di disagio -come nel post-terremoto ad Haiti e in Emilia- è in prima linea come partner nelle operazioni di salvataggio e di assistenza sanitaria ai migranti, sempre più spesso donne e bambini e minori non accompagnati in fuga dalla guerra e dalla povertà. Un team di medici, ginecologi, ostetriche e pediatri volontari che che affianca il personale sanitario della Marina nelle operazioni di primo soccorso: “Una realtà straziante” racconta Andrea, uno dei medici “che la normale quotidianità delle nostre vite ci porta a volte a dimenticare. Qui su nave San Giorgio, nel limite delle nostre possibilità, si cerca di creare un piccolo cambiamento nei gesti e nei valori che fino ad ora questi uomini hanno incontrato durante il loro viaggio: mesi o anni di cattiveria, disagio, pestaggi, fame e sofferenze di ogni genere… qui si cura la violenza“.

Nei prossimi giorni sono previsti molti nuovi arrivi: connessione permettendo, cercherò di raccontarvi in presa diretta lo svolgersi della missione.

Non mancano le criticità. Il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha recentemente dichiarato che “l’emergenza si fa sempre più grave e che non c’è uno stop agli sbarchi. Non sappiamo fin quando l’Italia potrà reggere i costi della missione Mare Nostrum. L’Unione Europeaha concluso Alfanonon può girarsi dall’altra parte perché è difficile pensare che un Paese possa farcela da solo“.

Al più presto notizie da bordo. Stay tuned.

 

bambini, Donne e Uomini, salute Aprile 10, 2014

Fecondazione eterologa: il figlio ha più diritti di tutti. E non solo “a sapere”

Capiremo presto se si dovrà riaprire il dibattito parlamentare sulla fecondazione assistita, come sostiene per esempio la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin. O se come ritengono alcuni giuristi, la sentenza della Cassazione, che dichiara lecita la fecondazione eterologa -ovvero ricorrendo a seme o ovulo donati da terzi- non  ha aperto alcun vuoto normativo che renda necessario un nuovo intervento del legislatore.

Mi pare abbia ragione la ministra quando sostiene che la liceità della fecondazione eterologa apre alcune questioni che vanno definite: e in particolare la questione dell’anonimato del donatore-trice e il diritto del figlio-a a essere informato.

In molte legislazioni internazionali si è passati dall’anonimato del genitore “terzo” alla primarietà del diritto del figlio-a a essere informato sulle sue origini biologiche.

In uno dei documenti fondamentali in materia, l’Human Fertilisation and Embriology Act, stilato nel 1990 nel Regno Unito, si legge:

In 2004, the Human Fertilisation and Embryology Authority (Disclosure of Donor Information) Regulations 2004/1511, enabled donor-conceived children to access the identity of their sperm, egg or embryo donor upon reaching the age of 18. The Regulations were implemented on 1 April 2005 and any donor who donated sperm, eggs or embryos from that date onwards is, by law, identifiable. Since that date, any person born as a result of donation is entitled to request and receive the donor’s name and last known address, once they reach the age of 18“.

Si riconosce quindi che il diritto del figlio-a sapere prevale rispetto al diritto del donatore-trice a restare anonimo-a (e della coppia a “cancellare” il donatore-trice).

La coppia che accede a fecondazione eterologa e il terzo-a che cede i suoi gameti scelgono infatti in piena consapevolezza, mentre la consapevolezza del nascituro-a va promossa e tutelata.

Il diritto a conoscere le proprie origini è un diritto fondamentale del minore sancito dall’ art. 7.1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che riconosce il “diritto […] nella misura possibile, a conoscere i suoi [del fanciullo] genitori […]”. Il termine “genitore” ricomprende tre categorie: il genitore genetico, il genitore biologico che partorisce e il genitore psicologico, ossia colui che cresce e si prende cura del minore per un periodo significativo della sua vita.

Quindi questo diritto va garantito, e la legge 40, profondamente cambiata da ben 32 sentenze in 10 anni, non consentendo fino a ieri la fecondazione eterologa non dice nulla su questo punto.

Vorrei aggiungere due punti alla discussione, questioni che non si lasciano facilmente tradurre in leggi e codici:

a) quello che fa “scandalo” e crea problema nella fecondazione eterologa è la “sparizione” del genitore-trice biologico-a o della madre surrogata. Per ricorrere a un esempio antico, la balia che dava il suo latte al posto della mamma instaurava una relazione tenera e affettuosa con il piccolo che attaccava al seno. Ho il ricordo personale di mio padre -sua madre, lavorando, non poteva allattare- che aveva mantenuto un rapporto tenero anche con i figli della sua balia, “fratelli di latte”. La nostra esistenza si dipana in una rete di relazioni. La “sparizione” del donatore-trice crea inevitabilmente un buco in questa rete. Non è, cioè, solo questione di anonimato e di diritto a sapere. E’ questione della mancanza di relazione -per sentimento di possesso da parte dei genitori, o per il fatto che il donatore-trice mette a disposizione i suoi gameti in cambio di denaro, o semplicemente non intende avere un posto nella vita del nascituro- che può creare un problema al figlio-a. Io credo invece che ci sia anche un diritto del figlio alla relazione. Che nelle relazioni vive tutto possa essere ricomposto: si dovrebbe trovare un nome e una parte nella vita del bambino-a per chi contribuisce alla sua venuta al mondo. Forse ci dovrebbe essere o dovrebbe essere costruita una relazione tra la coppia e il donatore-trice e/o la madre surrogata: un amico che dona il suo seme, o una sorella che “presta” il suo utero è cosa ben diversa da uno studente che offre i suoi gameti in cambio di soldi e poi sparisce, o da una donna indiana che offre il suo grembo per fame.

b) il ricorso alla fecondazione assistita, in particolare all’eterologa, dovrebbe essere intesa come extrema ratio, perché non è mai un’operazione a costo zero (costi psicologici, intendo). Questo significa concentrare i nostri sforzi nella prevenzione dell’infertilità, sulla quale non si fa quasi nulla. Il lavoro che va fatto su questo terreno è un lavoro scientifico -individuare le cause principali dell’infertilità e offrire soluzioni mediche- ma anche politico: creare le condizioni socio-economiche che permettano a una coppia di non rimandare sine die il concepimento. Oggi una donna di a 40 anni potrà anche dimostrarne 30 o ancora meno, ma il suo orologio biologico resta quello di una quarantenne. E concepire a quarant’anni resta molto più difficile che a 2o. Ci sono casi, come il rischio di trasmettere malattie genetiche, che non lasciano molta scelta: a meno di non scegliere di correre il rischio, la fecondazione assistita resta l’unica strada. Ma molti casi di infertilità possono essere prevenuti, e non solo con cure mediche. Una legge come quella che vieta le dimissioni in bianco o una politica che favorisce l’occupazione femminile (le donne mettono al mondo più bambini quando lavorano) possono fare moltissimo.

 

 

 

 

bambini, Donne e Uomini, economics, lavoro, pubblicità Gennaio 19, 2014

Prima madri e padri. Poi lavoratrici e lavoratori

Nell’attesa che si sciolga il nodo della legge elettorale, speriamo di liberarci dall’impiccio al più presto, vediamo quello che c’è subito dietro l’angolo. E scalpita, perché nessuno di noi può più permettersi di aspettare: la questione lavoro-welfare.

Qui c’è da fare e da dire moltissimo, e ognuno approccerà la cosa dal proprio punto di vista. Io non riesco che a partire dalla vita: dalle esistenze reali, dal cambiamento dell’idea del lavoro e del rapporto lavoro-vita, dalle soluzioni, dagli aggiustamenti e dalle invenzioni prodotte dalle persone reali, intuizioni che dovrebbero essere la materia prima politica con cui quell’altra politica può lavorare (quell’altra politica non inventa mai davvero nulla: quando è buona è perché sa cogliere ciò che sta capitando, rappresentarlo e facilitarlo).

Mi sembra interessante quello che è stato pensato da un gruppo di madri e padri che a Milano si sono incontrati per ragionare insieme e mettere in comune le proprie esperienze. E che tanto per cominciare si qualificano come “madri e padri” e non come lavoratrici-ori anche quando parlano di lavoro e welfare, privilegiando sempre (primum vivere) questo aspetto della loro identità, ciò che dà davvero un senso alla propria esistenza (vale anche per un numero sempre maggiore di uomini). Questa è la prima intuizione: rimettere le cose nel loro giusto ordine.

La seconda è l’assunzione che non solo il lavoro ma anche la percezione del lavoro sono profondamente cambiati: e infatti parlano di “nuovo lavoro“, tenendo in mente le/i venti-trentenni (le madri e i padri) che oggi hanno bisogno di un welfare che tenga presente, oltre alla minoranza dei dipendenti, la grande maggioranza di “autonomi, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti etc. etc.. Smantellando cioè un immaginario sul lavoratore che non ha più riscontri nella realtà e cambiando prima di tutto l’immaginario del cambiamento.

La proposta dell‘indennità di maternità universale prende le mosse di qui, da questi cambiamenti nel lavoro e dalla percezione del lavoro, e dall’idea che i figli e la cura non siano più una faccenda esclusiva delle donne: si parla infatti di un welfare per l'”universal caregiver, per chi presta lavoro di cura, preziosissimo e insostituibile, donna o uomo che sia.

Una terza intuizione (la proposta la trovate integralmente qui) è che il welfare non può essere inteso come un modello uguale per tutti, ma deve offrire “libertà di scelta in modo che ciascuna/o possa praticare le proprie “preferenze e strategie personali e familiari”, che cambiano da individua-o a individua-o e nelle varie fasi della vita.

Cerchiamo di non dimenticare mai la vita reale, anche quando parliamo di contratti e di servizi.

bambini, Donne e Uomini, questione maschile Dicembre 11, 2013

Io sono disperata

Ok, la politica è un grande show (impressionante sentire politici dire che “ormai il disagio è sottopelle”, quando la pelle non c’è quasi più) ma nel frattempo capitano cose che non possono essere ignorate. Non posso arrendermi sulla sentenza della Cassazione di cui parlavo nell’ultimo post. Quindi con il cuore pieno di sconforto ci torno sopra, ora che dispongo del testo della sentenza (che ripubblico parzialmente qui)

I fatti: una bambina di Catanzaro, 11 anni, famiglia disagiata, viene affidata a un assistente sociale sui 60 perché la segua nei compiti. Il sessantenne se la porta a letto. Non occasionalmente: nasce una “relazione”. La madre della bambina percepisce che qualcosa non va. L’uomo viene colto in flagranza di reato. Il Tribunale di Catanzaro lo condanna in primo e in secondo grado a 5 anni. La Cassazione annulla la sentenza d’appello e reinvia a Catanzaro. Il processo è da rifare, e per le seguenti motivazioni (provo a tradurre, leggere le sentenze è faticoso):

La Cassazione annulla la sentenza perché la Corte D’appello di Catanzaro non ha ritenuto fosse possibile riconoscere attenuanti all’imputato. In particolare non tenendo conto del fatto che, come sostiene la difesa, non c’è stata vera e propria violenza sessuale (sic!) in quanto la vittima era consenziente (!!!) e i rapporti avvenivano nell’ambito di una “relazione amorosa (!!!). La difesa non nega il reato (“disvalore oggettivo“) ma chiede che si tenga conto del fatto che gli atti sessuali non possono ritenersi invasivi “allo stesso modo dell’ipotesi in cui avvenga con forza e violenza e al di fuori di una relazione amorosa“. Perché un sessantenne che abusa di una undicenne, che approfitta del suo aggrapparsi e della sua solitudine per trarne soddisfazione sessuale, beh, è evidente, la ama. Insomma, non si può parlare di vero e proprio stupro. Non è violento e ricattatorio usare una bambina bisognosa di tutto. E l’attaccamento infantile di lei non è disperazione: è “consenso”.

La Cassazione ritiene che queste attenuanti non possano essere negate solo per il fatto che la vittima era una bambina. E’ vero, si ammette, che gli abusi sessuali comportano problemi al minore che li subisce, ma non si può escludere a priori che queste conseguenze possano essere “meno lesive“. In particolare, continua la Cassazione, la Corte d’Appello non ha considerato nel suo giudizio elementi quali “il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza (ragazza!!!). Insomma, non si capisce perché la Corte d’Appello non abbia considerato questi elementi per qualificare “una minore gravità” del reato e per concedere attenuanti. Inoltre, continua la Cassazione, non è chiaro come mai la Corte di Appello di Catanzaro non abbia considerato di concedere attenuanti anche sulla base del fatto che l’imputato era disponibile a risarcire il danno (di Euro 40.000,00 per la bambina, al fratello della minore della somma di Euro 5.000,00; di Euro 2.500,00 a ciascuno dei genitori e di Euro 5.000,00 nei confronti del comune di Catanzaro, che li aveva accettati). La Corte di Appello aveva giudicato incongrue queste somme di fronte alla gravità di abusi che potrebbero condizionare per sempre la vita della vittima. Ma, sostiene la Cassazione, “si tratta di una motivazione meramente apodittica e presuntiva”: mancano perizie mediche e psicologiche a quantificare i danni fisici e psicologici subiti dalla bambina: quindi come si fa a dire che le conseguenze siano effettivamente così gravi? Magari non è così. Inoltre non si era considerato che la famiglia della bambina era già gravemente disgregata prima di questa orribile vicenda, e non è detto che -come sostiene la difesa- quelle somme non fossero congrue.

Per tutte queste ragioni, la Cassazione ha annullato la sentenza reinviando a Catanzaro per un nuovo processo che consideri la possibilità di concedere attenuanti.

Io sono disperata, io sono affranta.

Qui una lettera-appello da sottoscrivere

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Qui la parte conclusiva della sentenza.

(…) è in parte erronea e in parte contraddittoria la motivazione con la quale la corte d’appello ha negato il riconoscimento della attenuante del fatto di minore gravità di cui all’art. 609 quater, comma 4. La sentenza impugnata, invero, ha motivato questa statuizione in considerazione del fatto che l’atto sessuale consumato dall’imputato costituiva la forma più invasiva e, pertanto, più grave di lesione dell’altrui integrità psicofisica; mentre non rilevava che l’imputato non avesse adottato forme di violenza o coartazione verso la vittima. Erano poi irrilevanti il consenso della vittima e la circostanza che i rapporti sessuali si erano innestati nell’ambito di una relazione amorosa. Ciò perchè il fatto che il L. avesse potuto provare un amore non meramente filiale verso la ragazza costituiva un sentimento innaturale, che comunque non aveva come ineludibile portato il congiungimento carnale. Un tale sentimento di affetto, anzi, avrebbe dovuto indurre il L. a preoccuparsi del corretto sviluppo psico-fisico della ragazza. Infine, l’imputato aveva dimostrato una notevole pervicacia. In sintesi, secondo la corte d’appello, al di là delle frasi di stile, l’attenuante in questione non poteva essere riconosciuta perchè vi era stata congiunzione carnale e perchè si trattava di una ragazza minore degli anni quattordici, il cui consenso non rilevava. L’attenuante è stata quindi esclusa sulla base di elementi in realtà non voluti e non previsti dal legislatore, nonchè di una giustificazione tautologica. Invero, esattamente il ricorrente osserva che il reato in esame indica senza dubbio un disvalore; tuttavia la prospettazione di una attenuazione in termini sanzionatori presuppone che, pur rimanendo fermo quel disvalore oggettivo, si possano ipotizzare ragioni mitigatorie attenuative, che certamente devono trarsi al di fuori di questo. La difesa aveva messo in rilievo che nel caso in esame, come emerge anche dalle sentenze di merito, l’atto sessuale si inseriva nell’ambito di una relazione amorosa; e che, sebbene l’abuso sessuale sia sempre connotato da grave invasività fisica, lo stesso nel caso di specie non poteva ritenersi invasivo allo stesso modo dell’ipotesi in cui avvenga con forza e violenza e al di fuori di una relazione amorosa, atteso che nel primo contesto derivano più contenute conseguenze negative alla minore sul piano psicologico. La corte d’appello in sostanza ha omesso di prendere in esame le considerazioni della difesa, e si è limitata a negare l’attenuante per ragioni che però non sono conformi alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “la circostanza attenuante fondata sulla minore gravità del caso è riferibile tanto alle condotte di violenza sessuale (art. 609 bis c.p., comma 3), eventualmente aggravate per l’età inferiore ai dieci anni della vittima (art. 609 ter c.p., comma 2), quanto all’ipotesi di atti sessuali con minorenne di analoga età (art. 609 quater c.p., comma 4, in relazione all’art. 609 ter c.p., comma 2). Ne consegue che la ricorrenza dell’attenuante non può essere negata per il solo fatto della tenera età della persona offesa, dovendosi piuttosto individuare dal giudice elementi di disvalore aggiuntivo, sulla base dei criteri delineati all’art. 133 c.p., rispetto all’elemento tipico dell’età inferiore ai dieci anni” (Sez. 3^, 9.7.2002, n. 37656, Capaccioli, m. 223672); “La circostanza attenuante della minore gravità nel reato di violenza sessuale non può essere negata per il solo fatto della tenera età della persona offesa (nella specie infradecenne), essendo necessari a tal fine elementi di disvalore aggiuntivo sulla base dei criteri delineati dall’art. 133 c.p., comma 1” (Sez. 3^, 26.1.2010, n. 11085, D.S., m. 246439) “in quanto, seppure gli atti sessuali commessi in danno di bambini in tenera età sono reati da considerare gravi per le ripercussioni negative sullo sviluppo del minore, non può escludersi che, per le circostanze concrete del fatto, tale delitto possa manifestare una minore lesività” (Sez. 3^, 10.5.2006, n. 22036, Celante, m. 234640). In particolare la giurisprudenza ha osservato che, premesso che la minore gravità del fatto può ravvisarsi in presenza di una più lieve compromissione della libertà sessuale della vittima e dello sviluppo del minore, resta fermo che essa è il risultato di una valutazione che deve tenere conto di tutte le componenti del reato, oggettive e soggettive, nonchè degli elementi indicati nell’art. 133 (Sez. 3^, 1.7.99, Scacchi; Sez. 3^, 3.10.06, m. 235031). Si è, peraltro, precisato che, nell’utilizzare i parametri di cui all’art. 133 c.p., (ai fini del riconoscimento dell’attenuate speciale in parola), si deve avere riguardo solo agli elementi di cui al primo comma in quanto, quelli del secondo comma, possono essere impiegati solo per la commisurazione complessiva della pena (Sez. 4^, 4.5.07, m. 235730). Invero, poichè l’attenuante in discussione non risponde ad esigenze di adeguamento del fatto alla colpevolezza del reo, ma concerne la minore lesività del fatto in concreto rapportata al bene giuridico tutelato, assumono particolare importanza: la qualità dell’atto compiuto (più che la quantità di violenza fisica), il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni (fisiche e mentali) di quest’ultima, le caratteristiche psicologiche (valutate in relazione all’età), l’entità della compressione della libertà sessuale ed il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (Sez. 3^, 29.2.00, Prillo della Rotonda; Sez. 3^, 24.3.00, Improta). Nella specie, la corte d’appello, invece, nel respingere la richiesta di attenuante formulata dal ricorrente, ha focalizzato la propria attenzione solo su uno (il turbamento e le conseguenze patite dalla vittima anche in un’ottica futura) dei molteplici aspetti da prendere in considerazione; per di più, senza nemmeno dare prova di avere ancorato il proprio asserto su emergenze specifiche (sì che l’assunto si propone quasi come un’affermazione di principio frutto di mera supposizione). In particolare, la sentenza impugnata ha focalizzato la propria attenzione sulla esistenza degli elementi che caratterizzano la fattispecie criminosa (età e atto sessuale), ritenendoli incompatibili con la specificata circostanza, senza considerare e valutare gli ulteriori e attenuativi aspetti della vicenda prospettati dalla difesa, quali il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza. Sul punto la motivazione è anche manifestamente illogica laddove riferisce gli effetti della dedotta relazione sentimentale all’imputato, anzichè alla ragazza. Manca poi la motivazione sulle ragioni per cui gli elementi addotti dalla difesa non possano qualificare la “minore gravità”; nonchè in ordine alla c.d. entità della compressione della libertà sessuale e al danno arrecato alla minore. 7. E’ fondato anche il quarto motivo, essendo effettivamente carente e contraddittoria anche la motivazione con la quale è stata negata l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, richiesta per avere il L. formulato prima che iniziasse il giudizio un’offerta reale di risarcimento dei danni nei confronti della minore della somma di Euro 40.000,00; al fratello della minore della somma di Euro 5.000,00; di Euro 2.500,00 a ciascuno dei genitori e di Euro 5.000,00 nei confronti del comune di Catanzaro (che li aveva accettati). La sentenza impugnata ha negato l’attenuante avendo ritenuto incongrue le somme offerte in considerazione della rilevanza e della portata dei beni interessi, anche di rango costituzionale, oggetto di lesione, sicchè non poteva assumersi come sufficiente ed idoneo parametro di valutazione e liquidazione quello equitativo puro, ma dovevano considerarsi tutte le componenti del danno, ed in particolare la lesione cagionata alla dignità della minore, attraverso condotte che ne avevano compromesso il regolare sviluppo psico-fisico e le capacità di relazione sociale, tenuto conto, sotto tale profilo, della condizione di isolamento in cui la P. aveva vissuto nel corso della relazione con l’imputato e della maturazione di un distorto modello di rapporti interpersonali, foriero di inevitabili conseguenze sull’assetto di vita della minore. La corte d’appello ha poi parlato di un assetto psicologico inevitabilmente alterato, con serio e grave pericolo che gli effetti dello stress post-traumatico si ripercuotano sul futuro della ragazza condizionandone negativamente e definitivamente l’assetto di vita personale e di relazione, e ciò pur in assenza di qualsiasi accertamento descrittivo di vera e propria malattia. Si tratta di una motivazione meramente apodittica e presuntiva, perchè si ammette che è mancato qualsiasi accertamento scientifico medico o psicologico sui danni concreti subiti dalla minore e di motivazione altresì contraddittoria, perchè si afferma contemporaneamente che la liquidazione del danno non può basarsi su criteri equitativi, sicchè dovrebbe fondarsi su basi concrete, che però non vengono individuate nè scientificamente accertate. La sentenza impugnata, invero, non fornisce alcuna prova di avere ancorato il proprio asserto su emergenze specifiche. Manca comunque qualsiasi puntuale e reale valutazione del danno al fine di poterne definire la capacità risarcitoria integrale della offerta reale o della manifestata volontà risarcitoria. Esattamente il ricorrente lamenta che la motivazione si risolve in una affermazione di principio frutto di mera supposizione, quasi da ritenersi non ammissibile e non riconoscibile l’attenuante invocata per reati di questa specie. Fra l’altro, la sentenza non risponde adeguatamente al motivo di appello con cui si lamentava l’incongruità della sentenza di primo grado, laddove, pur descrivendo la madre come colei che aveva “irresponsabilmente soprasseduto su episodi allarmanti” e il padre come “figura assente nella vicenda”, aveva poi giudicato incongrua la somma offerta. La corte d’appello, infatti, ha respinto la censura con mere illazioni, sostenendo che i genitori, oltre alla disgregazione familiare, avevano subito “una condizione di chiaro patimento personale derivante non solo dalle serie preoccupazioni, che nell’ottica genitoriale, le vicende della figlia ponevano loro in termini di corretto sviluppo psico-fisico della minore, ma anche dalla negazione del loro ruolo genitoriale rispetto alle scelte ed all’assetto di vita della figlia minorenne”. Si è però omesso di considerare e valutare le specifiche contestazioni mosse sul punto dalla difesa, che aveva eccepito come nessuna preoccupazione genitoriale fosse stata manifestata nel corso della vicenda che, pur conosciuta dalla madre, si era lasciato che si protraesse per alcuni mesi. La difesa, in particolare, aveva specificamente eccepito: che il padre era rimasto sempre assente ed era comparso solo per chiedere il risarcimento dei danni; che il comportamento della madre era stato già censurato dal giudice di primo grado; che il fratellino già non viveva con la sorella; che la famiglia era già distrutturata prima della comparsa dell’imputato; che la solitudine della ragazza apparteneva già ad un vissuto precedente, tanto che dalla sentenza di primo grado risulterebbe che cercasse il L. proprio per colmare un vuoto affettivo; che pertanto dovevano considerarsi congrue le somme offerte come risarcimento del danno, compresa quella di Euro 40.000,00 offerta per la ragazza. La sentenza impugnata ha in sostanza omesso di rispondere a queste specifiche eccezioni, e non ha offerto una dimensione quantitativa derivante da dati fattuali concreti, anche per l’inesistenza di una consulenza psichiatrica o psicologica sulle conseguenze dannose del reato. 8. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata in ordine alla valutazione sul riconoscimento dell’ipotesi attenuata del fatto di minore gravità e della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, con rinvio per nuovo giudizio al giudice del merito. Il giudice di rinvio, peraltro, dovrà necessariamente compiere una nuova globale valutazione dell’intero trattamento sanzionatorio, nell’ipotesi che accolga entrambe, o anche una sola, delle suddette attenuanti. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale si censura anche la motivazione sulla determinazione della pena base – resta pertanto assorbito, ma non precluso. Il giudice del rinvio, quindi, anche qualora ritenesse non concedibile nessuna delle dette attenuanti, dovrà comunque compiere una nuova globale valutazione del trattamento sanzionatorio alla luce anche delle eccezioni sollevate con il ricorso sulla contraddittorietà della giustificazione addotta dalla sentenza impugnata in punto di perimetrazione della pena base, fissata in misura alquanto elevata rispetto al minimo edittale. La sentenza impugnata ha invero giustificato la pena facendo riferimento alla gravità della condotta ed alla intensità del dolo, anche perchè il L. avrebbe dotato la ragazza di un cellulare per consentire “comunicazioni protette” e l’avrebbe indotta a costruire la falsa apparenza di una normale vita di relazione con un suo coetaneo per celare il proprio rapporto amoroso. Ciò però contrasta con quanto risulta da entrambe le sentenze di merito, le quali non indicano elementi di prova in ordine alla premeditazione nella dotazione del telefonino e nella costruzione di una falsa relazione con tale A., la quale al contrario viene invece spiegata come invenzione della ragazza volta a generare gelosie nell’imputato (pag. 2 della sentenza impugnata). 9. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio in ordine alla valutazione sulle richieste attenuanti ex art. 609 bis c.p., u.c., ed ex art. 62 c.p., n. 6, restando assorbito, ma non precluso, il motivo relativo alla determinazione della pena base. Nel resto il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Catanzaro limitatamente alle richieste attenuanti ex art. 609 bis c.p., u.c., ed ex art. 62 c.p., n. 6. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 15 ottobre 2013. Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2013

bambini, Donne e Uomini, questione maschile Dicembre 8, 2013

Il caso della sposa-bambina. In Calabria

Il Rapporto Censis 2013 indica le donne come la speranza reale di questo Paese “sciapo e triste”. Ma in queste stesse ore la mia collega Maria Novella Oppo viene investita sulla pagina Facebook di Beppe Grillo da una mostruosa violenza sessista mascherata da conflitto politico. E la Cassazione, con una sentenza choc -notizia riportata dal Quotidiano della Calabria- avrebbe almeno parzialmente riabilitato un sessantenne catanzarese che nei primi gradi di giudizio era stato condannato per avere avuto una relazione con una bimba di 11 anni -ripeto, 11 anni- a quanto pare con la motivazione che tra i due c’era “amore”. Una cosa che ricorda l’orrore delle spose-bambine: creature di 7-8 anni che vengono svegliate all’alba per essere condotte ignare alla cerimonia nuziale che le unirà a uomini che potrebbero essere i loro padri o nonni: succede in molti posti di questa Terra. A quanto pare, anche qui da noi (precisazione importantissima: qui non c’è affatto una famiglia che offre una bambina. Qui -il paragone vale per questo- c’è un uomo di 60 anni che la pretende, che non si riconosce come stupratore pedofilo, che dice che la bambina “lo amava” e, a quanto leggiamo, ne ottiene un vantaggio).

Le donne italiane sono al centro di un ciclone furioso, oggetto di domande schizofrenogene: chi chiede loro di tirare il carro di questo Paese malconcio, chi vuole ricondurle a una condizione di subordinazione pre-civile. E’ la questione maschile.

Cercheremo di capire meglio questa incredibile sentenza della Cassazione.

 

Aggiornamento ore 20:

in attesa di entrare in possesso della sentenza provo a spiegare con l’aiuto del collega Paolo Orofino quello che sarebbe capitato. La difesa del sessantenne aveva presentato alla Corte di Cassazione una serie di motivi per una revisione della sentenza di condanna comminata in due gradi di giudizio. Motivi che sono stati tutti rigettati tranne uno, che ha a che fare con la concessione di attenuanti, accolto invece dalla Cassazione.

Nel secondo grado di giudizio la Corte d’Appello non aveva concesso attenuanti in considerazione del fatto che la vittima aveva solo 11 anni. Secondo la Cassazione, invece, la giovane età non può essere considerata ragione sufficiente per escludere la possibilità di concedere attenuanti.

In particolare, si fa riferimento al punto 6 dell’art 62 del Codice Penale, dove si legge:

6) l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell’ultimo capoverso dell’articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.  

A quanto pare sarebbe il caso del sessantenne che, come raccontano le cronache, avrebbe offerto un risarcimento di 40 mila euro alla famiglia, che l’ha rifiutato. Quindi secondo la Cassazione la Corte d’Appello di Catanzaro dovrebbe riconsiderare la possibilità di riconoscere attenuanti.

A me pare ugualmente mostruoso. Quali attenuanti possibili per un uomo anziano che compie atti sessuali su una bambina di 11 anni?

 

Aggiornamento lunedì 9 dicembre ore 12.oo. ECCO LA SENTENZA.  leggetela

  • Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15-10-2013) 08-11-2013, n. 45179 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente – Dott. GENTILE Mario – Consigliere – Dott. FRANCO Amedeo – rel. Consigliere – Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere – Dott. RAMACCI Luca – Consigliere – ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: L.P., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza emessa il 10 ottobre 2011 dalla corte d’appello di Catanzaro; udita nella pubblica udienza del 15 ottobre 2013 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco; udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. POLICASTRO Aldo, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore avv. Salvatore Staiano. Svolgimento del processo 1. Con la sentenza in epigrafe la corte d’appello di Catanzaro confermò la sentenza emessa l’11.2.2011 dal Gip del tribunale di Catanzaro, che aveva dichiarato L.P. responsabile del reato di cui agli artt. 81 e 609 quater c.p., per avere compiuto atti sessuali con P.P., che non aveva ancora compiuto 14 anni, e con le attenuanti generiche e la diminuente del rito lo aveva condannato alla pena di anni 5 di reclusione, oltre pene accessorie e risarcimento dei danni in favore delle parti civili F.A. M., P.M., P.L. e P.P.. 2. L’imputato, a mezzo dell’avv. Salvatore Staiano, propone ricorso per cassazione deducendo: 1) nullità della sentenza in relazione all’art. 34 c.p.p., art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), e art. 179 c.p.p.; manifesta illogicità della motivazione. Ricorda che con l’appello aveva eccepito la nullità assoluta del decreto dispositivo del giudizio immediato e degli atti conseguenti, perchè emesso dal Gip che si trovava in una situazione di incompatibilità per avere già svolto funzioni giudiziali, determinandosi così una incompetenza funzionale. Non era praticabile la ricusazione perchè il decreto fu assunto a sorpresa, senza contraddittorio. In subordine aveva prospettato la illegittimità costituzionale degli artt. 33, 34, 37, 454, 455 e 456 c.p.p., rispetto agli artt. 3, 24, 25. 97, 111, 76 (eccesso di delega, per violazione delle direttive alla L. delega n. 81 del 1987, art. 2, nn. 67 e 104). L’eccezione – respinta dalla corte d’appello – viene riproposta in questa sede. Deduce che vi era incompatibilità ai sensi dell’art. 34 c.p.p., tra il Gip e il Gup che prescinde dalla emissione di atti definenti una fase o un grado, in quanto l’incompatibilità consiste nella pregiudicata imparzialità e terzietà del giudice. Nella specie, il decreto di giudizio immediato, costituendo l’esito di una valutazione in ordine alla sussistenza o meno della prova evidente al fine di consentire la contrazione del processo, non può essere assimilato ad una valutazione sulla ammissibilità della domanda del PM, ma costituisce un giudizio a tutti gli effetti, tanto che chi emette il provvedimento, alla stessa stregua di chi emette il decreto di rinvio a giudizio, non può più esercitare funzioni di giudicante nel medesimo procedimento. L’atto posto in essere dal giudice incompatibile è inficiato da vizio di incompetenza funzionale, riguardante la persona fisica del giudice, da cui deriva una nullità, rilevabile in ogni stato e grado del processo, che giustifica peraltro un annullamento dell’atto. In via subordinata, ripropone la eccezione di legittimità costituzionale degli artt. 33, 34, 37, 454, 455 e 456 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3 (eguaglianza), 24 (effettività della difesa), 25 (naturalità e precostituzione del giudice), 97 (imparzialità e correttezza degli organi pubblici), 111 (imparzialità e neutralità della giurisdizione penale), 76, eccesso di delega per violazione delle direttive di cui all’art. 2, n. 67, (divieto di esercitare reiteratamente le funzioni di giudice nello stesso procedimento) e n. 104 della L. d. n. 81 del 1987 (omologazione di tutti gli istituti processuali ai principi stabiliti per il giudizio). 2) nullità della sentenza in relazione all’art. 453 c.p.p., e contraddittorietà della motivazione. Ricorda che con l’appello aveva impugnato l’ordinanza del Gup di rigetto della eccezione: 1) di inammissibilità della richiesta di giudizio immediato avanzata il 9.9.2010, perchè depositata oltre il termine di 90 giorni dalla iscrizione ex art. 335 c.p.p., avvenuta nella specie il 25.03.2010 e comunque di nullità del decreto di giudizio immediato per essere stato emesso sulla scorta di atti investigativi svolti dopo il termine specificato, in particolare dell’incidente probatorio svoltosi il 23.07.2010; 2) di inammissibilità della richiesta di giudizio immediato ex art. 453, comma 1 ter, perchè presentata quando ancora non erano perenti i termini per proporre ricorso per cassazione del procedimento incidentale in materia de libertate (era stata applicata misura cautelare in carcere in data 22.6.2010). La corte d’appello ha respinto queste eccezioni con motivazione erronea. E difatti, in ordine alla eccezione di cui al punto 1), l’avere il giudice territoriale regredito la valutazione del Gip in ordine alla richiesta di giudizio immediato ad una valutazione di “ammissibilità” della domanda implicava un consequenziale inquadramento della sanzione, per l’assenza dei presupposti legali, nel regime della “inammissibilità”. Se la inammissibilità non viene rilevata in limine, vale la regola dettata per le impugnazioni dall’art. 591 c.p.p., comma 4, e può quindi essere dichiarata in ogni stato e grado del giudizio. Non vi è, poi, alcuna causa di sanatoria delle inammissibilità, ne è pensabile un’estensione delle cause di sanatoria previste per le nullità. La difesa aveva eccepito l’inammissibilità della domanda di giudizio immediato del PM per decadenza dei termini di presentazione della richiesta (90 giorni dalla iscrizione ex art. 335 c.p.p.) ovvero in assenza anche della perenzione dei termini di impugnazione dinanzi alla corte di cassazione. Si trattava quindi di inammissibilità. Peraltro è semplicistico l’automatismo di applicazione della nullità a regime intermedio considerandolo consequenziale alle nullità di cui all’art. 178, comma 1, lett. b), laddove si distinguono tra i presupposti individuati ex lege per l’attivazione di detto rito: l’evidenza probatoria, che evoca un giudizio di valore, distinguendola dai presupposti la cui assenza è facilmente verificabile per la loro oggettività come il mancato rispetto del termine di novanta giorni, riconducibile all’art. 178, comma 1, lett. c) stante l’evidente violazione del diritto di difesa. La eccepita inammissibilità della richiesta di giudizio immediato non è poi sanata dalla scelta del rito, che non copre eccezioni irrinunciabili. Ricorda inoltre che la richiesta del Pm ed il provvedimento del Gip si riferivano all’evidenza della prova e non all’ordine custodiale. Peraltro la richiesta era motivata, in punto di evidenza della prova, sulla scorta di atti (in specie l’incidente probatorio), che si acquisivano dopo il termine di 90 giorni dalla iscrizione del L. nel registro degli indagati ed erano quindi inutilizzabili. Deduce inoltre che non è esatto che la richiesta di giudizio immediato di cui all’art. 453, comma 1 bis, implica il superamento della valutazione in ordine alla evidenza della prova, giacchè il legislatore ritiene quel giudizio introitato attraverso il titolo custodiale (cfr. art. 273 c.p.p.) che ne costituisce l’imprescindibile presupposto. 3) nullità della sentenza per violazione dell’art. 609 quater c.p., comma 4, e art. 133 c.p.; contraddittorietà e carenza della motivazione. Lamenta l’erronea negazione dell’attenuante della minore gravità perchè ritenuta incompatibile con il danno apoditticamente ritenuto subito dalla minore, e con la condotta in contestazione per la consumazione del rapporto sessuale, protrattosi nel tempo. In sostanza, secondo la corte d’appello, non può essere riconosciuta l’attenuante in questione perchè vi è stata congiunzione carnale e perchè si tratta di minore di 14 anni. Sono state in tal modo introdotte oggettive “eccezioni” applicative dell’attenuante di cui all’art. 609 quater c.p., non previste e non volute dal legislatore. Inoltre, la giustificazione è tautologica. In particolare non si è considerato che il fatto è avvenuto nell’ambito di una relazione amorosa. 4) nullità della sentenza in relazione all’art. 62 c.p., n. 6, e art. 133 c.p.; carenza e contraddittorietà della motivazione. Lamenta la mancata concessione dell’attenuante prevista dall’art. 62 c.p., n. 6, per avere il L. formulato prima che iniziasse il giudizio un’offerta reale di risarcimento dei danni nei confronti della minore, dei fratelli, di ciascuno dei genitori e del comune di Catanzaro. La decisione si basa su affermazioni di principio frutto di mere supposizioni, quasi ritenendo non ammissibile e riconoscibile l’attenuante in questione per reati di questa specie. E’ poi contraddittoria la motivazione sulla determinazione della pena base. 3. In prossimità dell’udienza la difesa ha depositato motivi nuovi con i quali illustra ulteriormente i punti relativi alla minore gravità del fatto ed alla offerta reale. Motivi della decisione 1. Il primo motivo – con il quale si deduce nullità del decreto dispositivo del giudizio immediato perchè emesso da giudice che si trovava in una situazione di incompatibilità ex art. 34 c.p.p., per avere già svolto funzioni giudiziali – è infondato. Tutto il motivo, invero, si basa sull’assunto che il compito del giudice non si limitava ad una semplice constatazione della tempestività ed ammissibilità della domanda del PM, bensì consisteva in un vero e proprio giudizio sulla base di una valutazione di merito circa l’evidenza o meno della prova prodotta. Si tratta però di un assunto non esatto, perchè nel caso in esame il giudizio immediato non è stato chiesto e concesso ai sensi dell’art. 453 c.p.p., comma 1, (ipotesi della sussistenza di una prova evidente), bensì ai sensi dell’art. 451, comma 1 bis (ipotesi che la persona sottoposta alle indagini si trovi in stato di custodia cautelare). Ora, rileva il Collegio che, mentre nella prima ipotesi il giudice deve effettivamente compiere una valutazione di merito sulla sussistenza o meno di una prova evidente, nella seconda ipotesi invece non deve effettuare alcuna valutazione di merito, ma si deve limitare a rilevare se l’indagato si trovi in stato di custodia cautelare e se non sia trascorso il termine di 180 giorni dalla esecuzione della misura. In questo caso, quindi, non sono prospettabili (ed infatti non sono state prospettate) situazioni di incompatibilità che potrebbero incidere sulla imparzialità e terzietà del giudice. Il motivo deve quindi essere respinto, anche volendo tenere conto della eccezione del ricorrente che in questo caso, essendo stato il provvedimento emesso a sorpresa, non sarebbe applicabile il principio costantemente affermato secondo cui i provvedimenti adottati dal giudice che versa in una situazione di incompatibilità non sono affetti da nullità, in quanto le cause di incompatibilità non incidono sui requisiti di capacità del giudice, costituendo invece motivo di ricusazione, da far valere nei termini e modi previsti dalla apposita procedura. 2. Per la stessa ragione, è infondata anche la richiesta subordinata di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 33, 34, 37, 454, 455 e 456 c.p.p., in riferimento a diverse norme costituzionali, che si basa anch’essa sull’assunto inesatto che il giudice, nel disporre il giudizio immediato, avrebbe compiuto una vera e propria valutazione di merito circa l’evidenza o meno della prova prodotta. La proposta questione di legittimità costituzionale è infatti irrilevante ai fini del decidere perchè non riguarderebbe comunque l’ipotesi che si presenta nel caso di specie di giudizio immediato disposto ai sensi dell’art. 453, comma 1 bis. La questione inoltre sarebbe irrilevante anche per la ragione per la quale la Corte costituzionale, con ordinanza n. 238 del 2008, dichiarò inammissibile per difetto di rilevanza analoga questione – avente ad oggetto l’art. 34 c.p.p., comma 2 bis, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità del giudice che ha esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari ad emettere il decreto di giudizio immediato -, ossia perchè non viene esplicitato in base a quale principio o regola processuale l’accoglimento della questione determinerebbe la regressione del procedimento alla fase anteriore all’emissione del decreto di giudizio immediato. 3. E’ infondato anche il secondo motivo. Quanto alla dedotta inammissibilità della richiesta di giudizio immediato perchè depositata oltre il termine di 90 giorni dalla iscrizione ex art. 335 c.p.p., e comunque per essere stata fondata su prove inutilizzabili perchè acquisite dopo la scadenza del termine, va ribadito che nella specie non si è trattato di giudizio immediato disposto ai sensi dell’art. 453, comma 1, stante l’evidenza della prova, bensì di giudizio immediato disposto ai sensi dell’art. 453, comma 1 bis, nei confronti di persona che si trovava in stato di custodia cautelare, il quale prescinde dalla presenza di una prova evidente ed è soggetto solo al termine indicato dal detto comma 1 bis (180 giorni dall’esecuzione della misura) e non al termine di cui all’art. 454 (90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato). Secondo la giurisprudenza, invero, “il presupposto dell’evidenza probatoria, che qualifica l’instaurazione del giudizio immediato su richiesta del pubblico ministero, non trova applicazione nel caso di richiesta di giudizio immediato nei confronti di soggetto che per quel reato si trovi in stato di custodia cautelare” (Sez. 6^, 1.7.2009, n. 38727, Moramarco, m. 244804); “è abnorme, ed è pertanto ricorribile per cassazione, l’ordinanza con cui il G.i.p. rigetti la richiesta di giudizio immediato avanzata dal P.M. nei confronti di persona agli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 453 c.p.p., commi 1 bis e 1 ter, non per l’assenza dei presupposti previsti dalla legge, ma per la carenza del requisito dell’evidenza della prova, richiesto invece nella diversa ipotesi di giudizio immediato di cui all’art. 453 c.p.p., comma 1” (Sez. 6^, 20.1.2011, n. 7912, Guarcello, m. 249476). Inoltre, “E’ abnorme, perchè determina un’indebita regressione del procedimento, il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento dichiari la nullità per qualsiasi causa del decreto che dispone il giudizio immediato e ordini la restituzione degli atti al P.M., giacchè non è previsto dalla disciplina processuale un controllo ulteriore rispetto a quello tipico (art. 454 c.p.p.) attribuito al giudice per le indagini preliminari al momento della decisione sulla richiesta di giudizio immediato” (Sez. 1^, 25.10.2007, n. 46761, Gianatti, m. 238506; conf. Sez. 6^, 10.1.2011, n, 6989, C, m. 249563). E’ quindi irrilevante ogni considerazione relativa alla utilizzabilità ed evidenza delle prove nonchè al termine di 90 giorni dalla iscrizione della notizia di reato previsto dal comma 1. 4. Quanto alla dedotta inammissibilità della richiesta di giudizio immediato ex art. 453, comma 1 ter, perchè presentata quando ancora non erano perenti i termini per proporre ricorso per cassazione del procedimento incidentale in materia de libertate, va ricordato che, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte, “La richiesta di giudizio immediato può essere presentata dal pubblico ministero nei confronti dell’imputato in stato di custodia cautelare dopo la conclusione del procedimento dinanzi al tribunale del riesame e prima ancora che la relativa decisione sia divenuta definitiva. (Fattispecie nella quale l’ordinanza del tribunale del riesame non era divenuta definitiva perchè impugnata con ricorso per cassazione)” (Sez. 2^, 6.4.2011, n. 17362, Caputo, m. 250078; conf. Sez. 1^, 11.11.2010, n. 42305, Alikic, m. 249023; Sez. 1^, 21.12.2011, n. 3310 del 2012, Liotti, m. 251842; Sez. 2^, 15.6.2012, n. 35613, Prezio, m. 253896). 5. Infine, per completezza, può comunque ricordarsi che, secondo la giurisprudenza, “L’omesso espletamento dell’interrogatorio a seguito dell’avviso di cui all’art. 415 bis c.p.p., benchè sollecitato dall’imputato, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che non può essere dedotta a seguito della scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante della nullità ai sensi dell’art. 183 c.p.p.” (Sez. 1^, 5.5.2010, n. 19948, Merafma, m. 247566; conf. Sez. 6^, 1.10.2007, n. 44844, Arosio, m. 238030; Sez. 6^, 13.10.2011, n. 5902 del 2012, Adiletta, m. 252065). 6. E’ invece fondato il terzo motivo, in quanto è in parte erronea e in parte contraddittoria la motivazione con la quale la corte d’appello ha negato il riconoscimento della attenuante del fatto di minore gravità di cui all’art. 609 quater, comma 4. La sentenza impugnata, invero, ha motivato questa statuizione in considerazione del fatto che l’atto sessuale consumato dall’imputato costituiva la forma più invasiva e, pertanto, più grave di lesione dell’altrui integrità psicofisica; mentre non rilevava che l’imputato non avesse adottato forme di violenza o coartazione verso la vittima. Erano poi irrilevanti il consenso della vittima e la circostanza che i rapporti sessuali si erano innestati nell’ambito di una relazione amorosa. Ciò perchè il fatto che il L. avesse potuto provare un amore non meramente filiale verso la ragazza costituiva un sentimento innaturale, che comunque non aveva come ineludibile portato il congiungimento carnale. Un tale sentimento di affetto, anzi, avrebbe dovuto indurre il L. a preoccuparsi del corretto sviluppo psico-fisico della ragazza. Infine, l’imputato aveva dimostrato una notevole pervicacia. In sintesi, secondo la corte d’appello, al di là delle frasi di stile, l’attenuante in questione non poteva essere riconosciuta perchè vi era stata congiunzione carnale e perchè si trattava di una ragazza minore degli anni quattordici, il cui consenso non rilevava. L’attenuante è stata quindi esclusa sulla base di elementi in realtà non voluti e non previsti dal legislatore, nonchè di una giustificazione tautologica. Invero, esattamente il ricorrente osserva che il reato in esame indica senza dubbio un disvalore; tuttavia la prospettazione di una attenuazione in termini sanzionatori presuppone che, pur rimanendo fermo quel disvalore oggettivo, si possano ipotizzare ragioni mitigatorie attenuative, che certamente devono trarsi al di fuori di questo. La difesa aveva messo in rilievo che nel caso in esame, come emerge anche dalle sentenze di merito, l’atto sessuale si inseriva nell’ambito di una relazione amorosa; e che, sebbene l’abuso sessuale sia sempre connotato da grave invasività fisica, lo stesso nel caso di specie non poteva ritenersi invasivo allo stesso modo dell’ipotesi in cui avvenga con forza e violenza e al di fuori di una relazione amorosa, atteso che nel primo contesto derivano più contenute conseguenze negative alla minore sul piano psicologico. La corte d’appello in sostanza ha omesso di prendere in esame le considerazioni della difesa, e si è limitata a negare l’attenuante per ragioni che però non sono conformi alla costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale “la circostanza attenuante fondata sulla minore gravità del caso è riferibile tanto alle condotte di violenza sessuale (art. 609 bis c.p., comma 3), eventualmente aggravate per l’età inferiore ai dieci anni della vittima (art. 609 ter c.p., comma 2), quanto all’ipotesi di atti sessuali con minorenne di analoga età (art. 609 quater c.p., comma 4, in relazione all’art. 609 ter c.p., comma 2). Ne consegue che la ricorrenza dell’attenuante non può essere negata per il solo fatto della tenera età della persona offesa, dovendosi piuttosto individuare dal giudice elementi di disvalore aggiuntivo, sulla base dei criteri delineati all’art. 133 c.p., rispetto all’elemento tipico dell’età inferiore ai dieci anni” (Sez. 3^, 9.7.2002, n. 37656, Capaccioli, m. 223672); “La circostanza attenuante della minore gravità nel reato di violenza sessuale non può essere negata per il solo fatto della tenera età della persona offesa (nella specie infradecenne), essendo necessari a tal fine elementi di disvalore aggiuntivo sulla base dei criteri delineati dall’art. 133 c.p., comma 1” (Sez. 3^, 26.1.2010, n. 11085, D.S., m. 246439) “in quanto, seppure gli atti sessuali commessi in danno di bambini in tenera età sono reati da considerare gravi per le ripercussioni negative sullo sviluppo del minore, non può escludersi che, per le circostanze concrete del fatto, tale delitto possa manifestare una minore lesività” (Sez. 3^, 10.5.2006, n. 22036, Celante, m. 234640). In particolare la giurisprudenza ha osservato che, premesso che la minore gravità del fatto può ravvisarsi in presenza di una più lieve compromissione della libertà sessuale della vittima e dello sviluppo del minore, resta fermo che essa è il risultato di una valutazione che deve tenere conto di tutte le componenti del reato, oggettive e soggettive, nonchè degli elementi indicati nell’art. 133 (Sez. 3^, 1.7.99, Scacchi; Sez. 3^, 3.10.06, m. 235031). Si è, peraltro, precisato che, nell’utilizzare i parametri di cui all’art. 133 c.p., (ai fini del riconoscimento dell’attenuate speciale in parola), si deve avere riguardo solo agli elementi di cui al primo comma in quanto, quelli del secondo comma, possono essere impiegati solo per la commisurazione complessiva della pena (Sez. 4^, 4.5.07, m. 235730). Invero, poichè l’attenuante in discussione non risponde ad esigenze di adeguamento del fatto alla colpevolezza del reo, ma concerne la minore lesività del fatto in concreto rapportata al bene giuridico tutelato, assumono particolare importanza: la qualità dell’atto compiuto (più che la quantità di violenza fisica), il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni (fisiche e mentali) di quest’ultima, le caratteristiche psicologiche (valutate in relazione all’età), l’entità della compressione della libertà sessuale ed il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (Sez. 3^, 29.2.00, Prillo della Rotonda; Sez. 3^, 24.3.00, Improta). Nella specie, la corte d’appello, invece, nel respingere la richiesta di attenuante formulata dal ricorrente, ha focalizzato la propria attenzione solo su uno (il turbamento e le conseguenze patite dalla vittima anche in un’ottica futura) dei molteplici aspetti da prendere in considerazione; per di più, senza nemmeno dare prova di avere ancorato il proprio asserto su emergenze specifiche (sì che l’assunto si propone quasi come un’affermazione di principio frutto di mera supposizione). In particolare, la sentenza impugnata ha focalizzato la propria attenzione sulla esistenza degli elementi che caratterizzano la fattispecie criminosa (età e atto sessuale), ritenendoli incompatibili con la specificata circostanza, senza considerare e valutare gli ulteriori e attenuativi aspetti della vicenda prospettati dalla difesa, quali il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza. Sul punto la motivazione è anche manifestamente illogica laddove riferisce gli effetti della dedotta relazione sentimentale all’imputato, anzichè alla ragazza. Manca poi la motivazione sulle ragioni per cui gli elementi addotti dalla difesa non possano qualificare la “minore gravità”; nonchè in ordine alla c.d. entità della compressione della libertà sessuale e al danno arrecato alla minore. 7. E’ fondato anche il quarto motivo, essendo effettivamente carente e contraddittoria anche la motivazione con la quale è stata negata l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, richiesta per avere il L. formulato prima che iniziasse il giudizio un’offerta reale di risarcimento dei danni nei confronti della minore della somma di Euro 40.000,00; al fratello della minore della somma di Euro 5.000,00; di Euro 2.500,00 a ciascuno dei genitori e di Euro 5.000,00 nei confronti del comune di Catanzaro (che li aveva accettati). La sentenza impugnata ha negato l’attenuante avendo ritenuto incongrue le somme offerte in considerazione della rilevanza e della portata dei beni interessi, anche di rango costituzionale, oggetto di lesione, sicchè non poteva assumersi come sufficiente ed idoneo parametro di valutazione e liquidazione quello equitativo puro, ma dovevano considerarsi tutte le componenti del danno, ed in particolare la lesione cagionata alla dignità della minore, attraverso condotte che ne avevano compromesso il regolare sviluppo psico-fisico e le capacità di relazione sociale, tenuto conto, sotto tale profilo, della condizione di isolamento in cui la P. aveva vissuto nel corso della relazione con l’imputato e della maturazione di un distorto modello di rapporti interpersonali, foriero di inevitabili conseguenze sull’assetto di vita della minore. La corte d’appello ha poi parlato di un assetto psicologico inevitabilmente alterato, con serio e grave pericolo che gli effetti dello stress post-traumatico si ripercuotano sul futuro della ragazza condizionandone negativamente e definitivamente l’assetto di vita personale e di relazione, e ciò pur in assenza di qualsiasi accertamento descrittivo di vera e propria malattia. Si tratta di una motivazione meramente apodittica e presuntiva, perchè si ammette che è mancato qualsiasi accertamento scientifico medico o psicologico sui danni concreti subiti dalla minore e di motivazione altresì contraddittoria, perchè si afferma contemporaneamente che la liquidazione del danno non può basarsi su criteri equitativi, sicchè dovrebbe fondarsi su basi concrete, che però non vengono individuate nè scientificamente accertate. La sentenza impugnata, invero, non fornisce alcuna prova di avere ancorato il proprio asserto su emergenze specifiche. Manca comunque qualsiasi puntuale e reale valutazione del danno al fine di poterne definire la capacità risarcitoria integrale della offerta reale o della manifestata volontà risarcitoria. Esattamente il ricorrente lamenta che la motivazione si risolve in una affermazione di principio frutto di mera supposizione, quasi da ritenersi non ammissibile e non riconoscibile l’attenuante invocata per reati di questa specie. Fra l’altro, la sentenza non risponde adeguatamente al motivo di appello con cui si lamentava l’incongruità della sentenza di primo grado, laddove, pur descrivendo la madre come colei che aveva “irresponsabilmente soprasseduto su episodi allarmanti” e il padre come “figura assente nella vicenda”, aveva poi giudicato incongrua la somma offerta. La corte d’appello, infatti, ha respinto la censura con mere illazioni, sostenendo che i genitori, oltre alla disgregazione familiare, avevano subito “una condizione di chiaro patimento personale derivante non solo dalle serie preoccupazioni, che nell’ottica genitoriale, le vicende della figlia ponevano loro in termini di corretto sviluppo psico-fisico della minore, ma anche dalla negazione del loro ruolo genitoriale rispetto alle scelte ed all’assetto di vita della figlia minorenne”. Si è però omesso di considerare e valutare le specifiche contestazioni mosse sul punto dalla difesa, che aveva eccepito come nessuna preoccupazione genitoriale fosse stata manifestata nel corso della vicenda che, pur conosciuta dalla madre, si era lasciato che si protraesse per alcuni mesi. La difesa, in particolare, aveva specificamente eccepito: che il padre era rimasto sempre assente ed era comparso solo per chiedere il risarcimento dei danni; che il comportamento della madre era stato già censurato dal giudice di primo grado; che il fratellino già non viveva con la sorella; che la famiglia era già distrutturata prima della comparsa dell’imputato; che la solitudine della ragazza apparteneva già ad un vissuto precedente, tanto che dalla sentenza di primo grado risulterebbe che cercasse il L. proprio per colmare un vuoto affettivo; che pertanto dovevano considerarsi congrue le somme offerte come risarcimento del danno, compresa quella di Euro 40.000,00 offerta per la ragazza. La sentenza impugnata ha in sostanza omesso di rispondere a queste specifiche eccezioni, e non ha offerto una dimensione quantitativa derivante da dati fattuali concreti, anche per l’inesistenza di una consulenza psichiatrica o psicologica sulle conseguenze dannose del reato. 8. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata in ordine alla valutazione sul riconoscimento dell’ipotesi attenuata del fatto di minore gravità e della attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, con rinvio per nuovo giudizio al giudice del merito. Il giudice di rinvio, peraltro, dovrà necessariamente compiere una nuova globale valutazione dell’intero trattamento sanzionatorio, nell’ipotesi che accolga entrambe, o anche una sola, delle suddette attenuanti. L’ultimo motivo di ricorso – con il quale si censura anche la motivazione sulla determinazione della pena base – resta pertanto assorbito, ma non precluso. Il giudice del rinvio, quindi, anche qualora ritenesse non concedibile nessuna delle dette attenuanti, dovrà comunque compiere una nuova globale valutazione del trattamento sanzionatorio alla luce anche delle eccezioni sollevate con il ricorso sulla contraddittorietà della giustificazione addotta dalla sentenza impugnata in punto di perimetrazione della pena base, fissata in misura alquanto elevata rispetto al minimo edittale. La sentenza impugnata ha invero giustificato la pena facendo riferimento alla gravità della condotta ed alla intensità del dolo, anche perchè il L. avrebbe dotato la ragazza di un cellulare per consentire “comunicazioni protette” e l’avrebbe indotta a costruire la falsa apparenza di una normale vita di relazione con un suo coetaneo per celare il proprio rapporto amoroso. Ciò però contrasta con quanto risulta da entrambe le sentenze di merito, le quali non indicano elementi di prova in ordine alla premeditazione nella dotazione del telefonino e nella costruzione di una falsa relazione con tale A., la quale al contrario viene invece spiegata come invenzione della ragazza volta a generare gelosie nell’imputato (pag. 2 della sentenza impugnata). 9. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio in ordine alla valutazione sulle richieste attenuanti ex art. 609 bis c.p., u.c., ed ex art. 62 c.p., n. 6, restando assorbito, ma non precluso, il motivo relativo alla determinazione della pena base. Nel resto il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della corte d’appello di Catanzaro limitatamente alle richieste attenuanti ex art. 609 bis c.p., u.c., ed ex art. 62 c.p., n. 6. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 15 ottobre 2013. Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2013

 

 

Qui il post sulla vicenda scritto dalla Calabria, dal blog Sud-de-genere.

Rebloggo qui il post di Lorella Zanardo

LUI 60, LEI 11. Per la Cassazione è amore. Per me è un grande dolore e la dimostrazione di dove siamo con il riconoscimento dei diritti delle bambine.
Ieri la lettrice Marina mi ha segnalata una notizia su cui ho voluto riflettere prima di parlarne.
Lui 60 anni dipendente pubblico dei servizi sociali calabresi, lei una bambina di 11 anni che viene affidata alle cure dell’uomo.
Vengono trovati in una villetta sul mare, a letto e oltre non ho voglia di raccontare.
L’uomo condannato, oggi viene riabilitato perchè la Cassazione ritiene ci fosse “Amore” tra i due.
AMORE perchè la piccola gli scriveva messaggi d’amore e gli chiedeva” ma tu mi ami’?”

Io, scusatemi , stamani non ho voglia di fare la professoressa e di analizzare con freddezza il caso. Ho il cuore, più che la testa, coinvolto in questa storia.
Avete bambine di 11 anni per casa? ne avete conosciute?
E allora sapete che a 11 anni, anche se hanno un piccolissimo accenno di seni o si atteggiano a grandi, le bambine a 11 anni sono BAMBINE. Piccole. Sono appena uscite dalla scuola elementare.
Sono delle creature innocenti e aperte al mondo, come è giusto che sia.
Il caso ha voluto, ma sarà un caso, che mentre leggevo di questo caso calabrese, stessi guardando il film in dvd STELLA ed Sacher. Lo trovate in libreria e vi prego di guardarlo.
Racconta la storia di Stella una piccola di 11 anni che si confronta con una vita dura, forse come quella della piccola calabrese. Nessun voyeurismo nel film, solo una consapevoelzza magistrale nel tratteggiare come siano le BAMBINE di 11 anni.
Io ci credo che la piccola calabrese amasse il signore di 60 anni. Perchè no? Posso immaginare come ci si aggrappi a un uomo adulto che si occupa di te, quando la famiglia alle spalle, per ragioni diverse, latita.
AMORE nel senso più bello: ti amo perchè mi vuoi bene, avrà pensato la piccola che chiedeva rassicurazioni a questo signore che si prendeva cura di lei.
E se amo dunque mi fido. E se lui che amo mi dice che lo devo toccare, io lo farò. E se lui che amo mi dice di fare delle cose, io le farò.
Perchè no? di lui MI FIDO.
Ora io vi prego di considerare questa vicenda con tutto l’amore possibile per questa bambina. Non serve gridare al mostro. Serve spiegare a questa Italia allo sbando, a questi giudici di un Paese smarrito e feroce verso gli innocenti, COSA SIGNIFICHI essere BAMBINE e BAMBINI.
Aiutatemi a trovare il modo per arrivare al cuore e alle coscienze di uomini che non possiamo più chiamare “padri” perchè un Padre della sua bambina e dei suoi bambini tutti, sa prendersi cura. Sa proteggerli e ne conosce e riconosce la delicatezza dell’anima.
Aituatemi a trovare modi di comunicazione che arrivino agli UOMINI che prendono decisioni sul futuro dei piccoli e delle piccole. Cosa dobbiamo fare? un documentario? un appello? un video?
Siete consapevoli di cosa sta accadendo?
Centinaia di ore di tv, nelle scorse settimane, dove nei salotti discutevano delle matrone e dei canuti signori, delle responsabilità di 14 e 15 enni nel “concedere i loro corpi”, mi riferisco al caso Parioli. Nessun riferimento alle colpe degli adulti.
Una cattiveria feroce si riversa sulle bambine: lo vedete?
Modelle di 12 anni, soubrette appena maggiorenni col compito di attizzare vecchi corrotti, pubblicità che sfruttano ogni singolo pezzo di carne di corpicini in sviluppo.
Il mercato in affanno che dilania le giovanissime, target ambito.
E uomini impauriti che abdicano al loro ruolo di Padri, per fingere di essere eterni adolescenti.
DALLA PARTE delle BAMBINE.
Vi prego di ergervi ancora e ancora a tutela dei diritti delle BAMBINE. Tiriamo fuori il coraggio, rinunciamo al bisogno di approvazione. Rispettiamo il PATTO INTERGENERAZIONALE.
Dalla parte delle bambine.

bambini, Corpo-anima, esperienze, femminicidio, questione maschile Dicembre 5, 2013

Quanto ci costa il dolore

 

 

Ieri un convegno all’università Bocconi ha valutato in oltre 13 miliardi il costo medio annuo che grava sulla spesa pubblica italiana per le conseguenze dei maltrattamenti sui minori. Qualche settimana fa è stata quantificata in 17 miliardi la spesa media annua che consegue al maltrattamento sulle donne.

In questo periodo usa molto quantificare il costo del dolore. E allora due osservazioni:

1. la violenza sulle donne, ma anche la grande maggioranza degli abusi sui minori sono commessi da uomini. Una lettura neutra di queste casistiche non aiuta la prevenzione, che deve orientarsi su una comprensione dei meccanismi della sessualità e dell’aggressività maschili, intesi non come dati di natura immodificabili ma come modelli culturali tuttora dominanti ma in caduta, e sui quali si può e si deve lavorare

2. la quantificazione di queste problematiche può dare una misura precisa della loro entità, ma resta un’arma a doppio taglio. Ridurre ogni fenomeno infatti alla misura simbolica unica del denaro ci fa permanere in quella logica di consumo che attribuisce un prezzo a ogni cosa, riducendola a oggetto di mercato. E’ precisamente questa logica di oggettificazione dei soggetti -che siano donne o che siano bambine/i- quella che alimenta violenze e abusi.

L’esperienza del dolore -unica, soggettiva, irripetibile- non può essere ridotta a numeri. O meglio: può esserlo, ma si tratta di un approccio insidioso.