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AMARE GLI ALTRI, Corpo-anima, esperienze Luglio 10, 2014

Una pazzesca voglia di ridere (onore agli idraulici milanesi)

Alla mia amica Nadia non l’ho ancora detto, ma con lei, grande eccentrica, e un altro paio di amiche intendo presto eseguire l’osceno brano milanese (I Gufi) “Se gh’an de di’” e poi piazzarlo su Youtube. O anche no, solo a uso privato, pubblico scelto di una decina di persone.

Penso a come e quanto ridevano mio padre e mia madre, adolescenti sotto le bombe (mia nonna ci è pure rimasta, l’amato cugino Benedetto disperso in mare, e via e via): hanno cominciato a ridere il 25 aprile del 45 e sono andati avanti, loro e i loro amici, per una buona ventina-venticinquina d’anni.

Qua se non ricominciamo a ridere, dopo questa guerra economica che ha fatto morti e feriti, be’, amiche e amici, non ci libereremo più, le energie non si rimetteranno mai in moto.

E non mi riferisco a quelle risate stitiche da satira politica: le televendite di Renzi, la tappaggine di Brunetta, la plastica di Santanché, roba da sorrisi amari che finisce per rialimentare la depressione. Parlo di quell’assurdo, di quel surreale, di quella divina sofisticata e stralunata stupidera di cui per esempio noi milanesi, vessati da ritmi produttivi insostenibili, siamo sempre stati maestri con il nostro cabaret (oggi divorato dalla politica). Parlo della grassa risata romanesca, dei denti stretti liguri, della follia napoletana, del puparismo palermitano.

Parlo del fou rire, di quella risata irrefrenabile che smuove i sedimenti dello spirito, purifica le sinapsi, scioglie i blocchi, risana i chakra, riattiva le energie, scaccia apotropaicamente le paure. Tutta roba che oltretutto, se proprio uno tiene al punto, infastidisce più il potere di qualunque imitazione di Gasparri -che peraltro sembra un’imitazione già di suo-.

Onore a questi valorosi idraulici che beffardamente finiti sott’acqua causa esondazione del Seveso, prima di mettersi a spalare il fango, da milanesi perfetti hanno celebrato il momento con un fantastico balletto.

Godetevelo!

ambiente, Politica Dicembre 24, 2013

Milano sogna sempre l’acqua

Milano, quartiere di Gorla. Ponte Vecchio sul Naviglio Martesana

E’ stato anche grazie all’acqua, a quel naviglietto che arriva dall’Adda, che un quartiere milanese come Gorla, tanto per fare un esempio, negli anni Sessanta non è deflagrato sotto l’urto di un’immigrazione massiccia e improvvisa, migliaia di nuovi milanesi che arrivavano da Sud per lavorare nelle grandi e piccole fabbriche, palazzi come funghi, due camere e cucina impilati l’uno sull’altro, uno choc culturale e meteorologico per chi lasciava il sole per chiudersi nei reparti con le luci al neon (rivedersi “Rocco” e poi “Romanzo popolare”). E’ stato anche grazie al Martesana, detto “la” Martesana, a quelle acque un po’ fetide e così amate, al Ponte Vecchio e al Ponte Nuovo da cui sporgersi a contemplare i mulinelli e la prole delle anatre, che l’identità del quartiere ha tenuto, l’integrazione è stata sostanzialmente felice, cementata dai motti di spirito (“Oehi, Africa!”) e dalla certezza del pane.

I Navigli, il Grande, il Pavese e anche il Piccolo o Martesana che scorre da NordEst, sono sempre stati importanti per l’identità di Milano, memoria di tutta quell’acqua su cui galleggia la nostra città-chiatta circonfusa di vapori, brume e afa (“te dormet all’umid?” è un modo di dire qui, per stigmatizzare chi non corre al ritmo giusto, cioè al folle passo di pianura). La copertura di una lunga tratta della fossa interna negli anni 1929-30 ha ubbidito a un’anti-sogno modernizzante, e anche a ragioni igienico-sanitarie: ragioni che tuttavia si sono riproposte nell’intossicazione prodotta dai fiumi di metallo incolonnato e sgasante. Il rimedio è stato peggio del problema.

Area C ha segnato un’inversione di rotta, primo indizio di una visione che ha bisogno dell’acqua, ovvero di un ritorno di Milano a se stessa, per esplicitarsi.

Perché Milano sogna sempre l’acqua, in bianco e nero e a colori. Per questo sostengo con convinzione e commozione l’idea di una riapertura di grande parte dei navigli interrati (rii terà, li chiamerebbero a Venezia), come simbolo e driver di un cambiamento di rotta che la maggior parte dei milanesi ha già mostrato di approvare, cuore pulsante di una visione che fa un po’ di fatica a delinearsi.

Mancando, tanto per cambiare, i fondi necessari, indicati nella somma tutto sommato abbordabile di 200 milioni, mi pare ottima l’idea di bond-navigli lanciata dall’amico carissimo Ivan Berni su “La Repubblica”. Tanto più che grossomodo la metà di quella somma sarebbe recuperabile rinunciando al contestatissimo progetto della Via d’Acqua di Expo, 90 milioni per un’impresa faraonica e non necessaria.

La bozza di progetto è stata realizzata dall’equipe del Politecnico guidata da Antonello Boatti.

Sognamo l’acqua, questo Natale! E auguri a tutti.

Aggiornamento 29 dicembre: la Sovraintendenza “boccia” la via d’acqua, troppo invasiva.

 

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, Politica, questione maschile Giugno 15, 2013

Vandana all’Italia: puntate sulla qualità

Vandana Shiva

 

Vandana sorride sempre, e parla melodiosamente. Ma a colpire sono soprattutto gli occhi: lo sguardo attento e gioioso di una bambina che guarda il mondo come se fosse appena nato insieme a lei.

Vandana Shiva (qui il suo sito web) è una fisica quantistica, attivista per l’ambiente e madre dell’eco-femminismo. Complicato sintetizzare in poche righe il suo appassionato lavoro in difesa del pianeta vivente, dell’umanità e di tutte le altre specie: bestseller come “Terra Madre. Sopravvivere allo Sviluppo”, “Monoculture della mente. Biodiversità, biotecnologia e agricoltura scientifica”, “Le guerre dell’acqua”, e “Il bene comune della Terra”. E il Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource Policy, fondato nel 1982.

Tra i principali leader dell’International Forum on Globalization, nel 1993 ha ricevuto il Right Livelihood Award, premio Nobel alternativo, ed è anche vicepresidente di Slow Food. Da decenni battaglia per la salvaguardia della differenza, contro gli Ogm, le monocolture e la distruzione della biodioversità: il corpo-a-corpo di una piccola donna avvolta nel sari e della sua associazione Navdanya (9 semi) contro il colossi del settore tecno-alimentare e i brevetti sulle sementi, che distruggono la meravigliosa varietà naturale e le colture tradizionali e locali, isteriliscono la terra e mandano in rovina i contadini costretti a rifornirsi da loro.

A Milano in vista di Expo 2015, titolo “Nutrire il pianeta”, Vandana è madrina e prima firmataria della Carta Universale dei Diritti della Terra Coltivata, presentata dell’European Socialing Forum. Ispirato alla Carta Universale dei Diritti dell’Uomo, il documento sancisce i diritti fondamentali della terra (Dignità, Integrità, Naturalità e Fertilità): l’obiettivo è fare di Milano la capitale mondiale della sua salvaguardia, con un Palazzo della Terra coltivata, una Banca dei Semi e un Tribunale internazionale. Chiedo a Vandana, grande amica dell’Italia, se può regalarci una visione per il nostro Paese: su che cosa dovremmo scommettere per uscire dai guai?

Il vostro grande talento è uno straordinario senso della qualità. Una specie di istinto che non ha uguali nel resto del mondo, e che non smette mai di stupirmi. La cura nel presentarsi agli altri, ad esempio. L’abito. Un livello irrinunciabile di dignità che prescinde da quello che sei e dal lavoro che fai. Come se ci fosse un diritto alla bellezza per tutti. E la qualità del cibo, la grande attenzione a come viene coltivato, lavorato, cucinato, assaporato…”.

La nostra “crescita” è qui?

“Assolutamente. La vecchia idea di crescita quantitativa è al capolinea. E’ il cuore della crisi. Non tutti la pensano così, sia chiaro. Chi ci ha condotto nel baratro vorrebbe continuare a perseguire quel modello, secondo il quale la realtà non esiste, esistono solo numeri. Questo tavolo a cui siamo sedute: loro considererebbero solo le misure, e quanto business ci si potrebbe fare. Il cibo che stiamo assaporando: non conta quanto è buono, quanto è sano e nutriente, come è stato coltivato e cucinato. Loro pensano solo a quanto pesa, a quanto costa confezionarlo e poi trasportarlo… Un processo di astrazione ed estrazione, la realtà e l’anima delle cose ridotte a numeri. Ma quegli stessi numeri misurano anche l’impoverimento della natura e della comunità”.

Qualche mese fa a “Ballarò” il finanziere Davide Serra disse che i suoi argomenti erano “ridicoli” (qui il filmato) Le idee di Vandana, ma anche della Nobel Elinor Ostrom, di Amartya Sen e di altri “illuminati” sono buone per i dibattiti, ma non quando si tratta di prendere decisioni e di fare politica (qui il dibattito sul blog).

“Da quando lo sfruttamento economico è diventato l’asse del mondo, anche la natura della politica è cambiata. La democrazia dovrebbe appartenere ai cittadini, occuparsi dei loro problemi e a loro vantaggio. Con la globalizzazione è diventata invece lo strumento politico delle multinazionali, gestito direttamente da loro e nel loro interesse. E’ chiarissimo nel campo dell’alimentazione. La politica dovrebbe fare il bene dei coltivatori e di chi si alimenta. Invece le lobby lavorano per il bene della Monsanto e delle altri multinazionali del cibo. Il 6 maggio scorso la Commissione Europea sulla biotecnologie ha presentato una orribile bozza di legge contro la biodiversità delle sementi: se dovesse passare, sarebbe Bruxelles a dire ai contadini toscani da chi devono comprare i semi e che cosa possono coltivare. Chi usasse semi suoi sarebbe fuori legge”.  

 E’ come voler brevettare l’anima o l’amore. Si può fare qualcosa?

 “Ci si può riprendere la democrazia. Si può fare in modo che tornino a decidere i cittadini. Non c’è solo l’Europa. Ci sono vari livelli di governo: nazionale, subnazionale, regionale, locale. E’ a livello locale che la democrazia va ripensata e rinnovata. Una democrazia per tutta la Terra, ma agita nelle comunità reali”.

Pensare globalmente e agire localmente… Che cosa direbbe a un capitalista finanziario per convincerlo del fatto che le sue pretese di profitto non solo fanno male al mondo, ma che tutti quei soldi non garantiscono di incrementare il suo livello di felicità?

“I nativi americani dicono: dopo che avrai abbattuto l’ultimo albero, inquinato l’ultimo fiume e distrutto l’ultimo pesce, capirai che i soldi non li puoi mangiare. Porterei quell’uomo per tre giorni in una fattoria. Lo inviterei a mettere le mani nella terra. Sono sicura che capirebbe molto velocemente che i miliardi in banca sono poca cosa.”

Una “re-education farm”. Dove vede indizi e segnali di un nuovo rinascimento?

 “In tutto il mondo. Tra i 600 mila contadini con cui collaboro. In Bhutan, dove si è scelto di abbandonare il concetto di Pil per valutare il grado di felicità, il benessere effettivo della nazione. Ma non è il trend seguito da tutti. Dobbiamo decidere quale futuro vogliamo: o impareremo a sentirci tutti parte della comunità umana e della terra vivente, o vedremo una guerra globale e a ogni livello. O creeremo un sistema capace di includere gli altri e le altre specie, o vedremo nascere nuovi fascismi che procedono per gradi di esclusione”.

La filosofa Julia Kristeva dice che quando c’è un cambio di civiltà nessuno ha da ridere. La fine della civiltà patriarcale sta costando molto. In particolare alle donne e alle creature piccole. Che cosa dobbiamo temere?

 “I rischi sono enormi, perché il patriarca che si sente insicuro è molto pericoloso. In India stiamo vedendo un’incredibile esplosione di violenza contro le donne”.

Anche in Italia. Terribili colpi di coda dell’animale morente.

“Un animale morente è sempre feroce. C’è solo un modo per fronteggiarlo: non-violenza, compassione. Diversamente saremo specchi che riflettono quella paura, quella violenza. E fermeremo il cambiamento”. 

Le donne stanno facendo dure lotte per entrare in politica e nelle stanze dei bottoni: è la strada giusta per un mondo più femminile? E lì che le donne possono esprimere la loro autorità e la loro sapienza?

“Sono una fisica quantistica. Non penso in termini di alternative che si escludono, ma di possibilità coesistenti. Per la fisica quantistica tu puoi essere nello stesso momento una particella e un’onda”.

Quindi le donne possono essere lì ma anche altrove.

“Esattamente. Il più delle donne non vuole entrare nelle istituzioni rappresentative perché il modo in cui quelle istituzioni sono concepite e organizzate le pone “naturalmente” in minoranza. Per la maggior parte delle donne la strada è quella di esprimere autorità e saggezza nei contesti in cui vivono e operano. E’ vero: quelle istituzioni ci sembrano vecchie, inutili, corrotte e inefficaci. La crisi dell’economia è esondata in una crisi della democrazia. Ma non possiamo pensare di lasciarle nelle mani di pochi. Il cambiamento verrà comunque dalla partecipazione. In quelle istituzioni dobbiamo esserci, donne e uomini”.

Il fatto è che nelle istituzioni maschili le donne cambiano, perdono la loro differenza, finiscono per omologarsi…

“Si deve creare una cultura che aiuti le donne ad andare in quei posti in spirito di servizio, e non in una logica di potere”.

Vorrei che lei dicesse qualcosa ai giovani: in Italia siamo al 40 per cento di disoccupazione, con punte di 50 nel Sud.

“Essere inoccupati non significa essere inutili: la prima cosa che va capita è questa. I giovani italiani non devono pensarsi, come qualcuno crudelmente li definisce, una “generazione perduta”. Devono piuttosto imparare a vedersi come la generazione del cambiamento, quella che costruirà il mondo nuovo. Si arriverà ad altri modelli educativi, ad apprendistati diversi, adatti a pensare e fare le cose in un altro modo. Ma il più grande cambiamento sta nel fatto che invece di aspettare qualcuno che ci dia lavoro, lo creeremo noi stessi, in rete e in collaborazione con altri. Nuovi lavori, per costruire il mondo nuovo”.

Lei non perde mai la fiducia? Ci sono stati grandi hoffnungträger (portatori di speranza) come Alexander Langer o Petra Kelly, che alla fine hanno ceduto sotto il peso enorme del loro impegno.

“Petra e Alex erano cari amici. Io non piango facilmente, ma ho pianto molto per loro. Quanto a me, rifiuto di pensarmi come un Atlante con il mondo sulle spalle. E’ il mondo che porta me, non sono io a portare il mondo. Ogni mattina mi alzo e cerco di fare quello che posso per difendere la terra e gli sfruttati. Lo faccio con tutta la mia passione e con tutte le mie forze, ma non penso affatto che tutto dipenda da me. Sono solo parte del cambiamento, insieme a molti altri. Un atteggiamento che definirei “appassionato distacco”: passione nel fare ciò che va fatto, ma anche distanza dai risultati”.

E’ quello che dice Clarice Lispector, grande scrittrice brasiliana, quando racconta la sua scoperta: “il mondo indipende da me”.

E’ così. Io mi sento parte del mondo, eppure il mondo indipende da me. Per poter restare umili, è importante sapere di non essere indispensabili. E l’umiltà oggi è più necessaria che mai. Dobbiamo entrare in un’età dell’umiltà, prendendoci cura della terra e dei viventi”.

 

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European Socialing Forum

È ITALIANA LA CARTA UNIVERSALE DEI DIRITTI DELLA TERRA COLTIVATA

 Dignità, Integrità, Naturalità e Fertilità: sono questi i principi fondamentali sanciti dalla Carta Universale dei Diritti della Terra Coltivata. Il documento, presentato a Milano all’interno della prima edizione dell’European Socialing Forum, è stato firmato da Vandana Shiva.

“La Carta Universale dei Diritti della Terra Coltivata è stata realizzata per sancire alcuni diritti inalienabili per la salvaguardia delle terre coltivate”, spiegano Andrea Farinet e Giancarlo Roversi, che hanno curato la stesura dell’opera. “Il  documento si ricollega idealmente sia alla Carta Universale dei Diritti dell’Uomo sia alla Carta della Terra, ed è frutto di un lungo lavoro di ricerca e di riflessione durato due anni su come tutelare meglio la realtà agricola italiana ed internazionale. Il documento sarà sottoposto all’approvazione delle più grandi associazioni agricole, ambientaliste e naturaliste internazionali. Potrà così nascere un percorso di condivisione che porterà alla ratifica formale della Carta nel corso di Expo 2015. L’obiettivo finale è trasformare Milano nella capitale mondiale della salvaguardia della terra coltivata, fondando il Palazzo della Terra coltivata, la Banca dei Semi e il Tribunale internazionale dei Diritti della terra coltivata.”

Ho avuto modo di leggere e apprezzare la Carta. Per anni gli uomini – ha spiegato Vandana Shiva – hanno vissuto nell’illusione di essere gli unici padroni della terra. Illusione che non può durare. Attualmente stiamo vivendo un “apartheid” moderno in cui l’uomo si sta separando dalla terra. È importante quindi poter fissare in un documento i principi fondamentali per la salvaguardia del Pianeta. In particolare – spiega Vandana Shiva – dei quattro principi sanciti dalla Carta, la Fertilità è quello fondamentale, in quanto connesso alla felicità delle persone e alla base della vita stessa. È importante pertanto salvaguardare la fertilità naturale, e non quella ottenuta tramite sistemi chimici o fertilizzanti. Ritengo che Expo 2015 sia un ottimo punto di partenza e una grande occasione per portare all’attenzione progetti interessanti come la Carta Universale dei Diritti della Terra Coltivata, un’opportunità imperdibile per cominciare un percorso virtuoso per la Terra.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Senza categoria Marzo 29, 2013

Ciao Enzo, grazie di tutto (el gh’aveva i oecc de bun)

Quando ha scritto questa canzone Enzo Jannacci aveva 26 anni. Era questo Jannacci come lo amavo io, dolce, stralunato, surreale, spaesato. Era un milanese vero, cioè un terrone. Ha fatto la mia città, amandola così tanto, insieme a tanti altri arrivati da giù. Grazie, Enzo, ti voglio bene. Mi dispiace tanto, tanto, che tu te ne sia andato.

IL CANE CON I CAPELLI (1961)

Il cane con i capelli, quando andava per la strada, si molleggiava:
se passava davanti a una vetrina, si rimirava, si pettinava i suoi capelli
che erano finti e belli, disperazione dei suoi fratelli:
“non s’è mai visto, non s’è mai visto un cane con i capelli”.

Voleva sembrare un altro, e si illudeva di essere diverso
perchè per strada la gente lo guardava, lo accarezzava, gli accarezzava i suoi capelli
che erano finti e belli, disperazione dei suoi fratelli:
“non s’è mai visto, non s’è mai visto un cane con i capelli”;
“non s’è mai visto, no, non si è mai visto un cane con i capelli”.

Un giorno, ormai convinto d’essere diverso, il cane coi capelli
entrò bel bello in una tabaccheria: “tre sigarette, mi dia tre sigarette”;
nessuno rispondeva, no, non gli davan retta, anche se aveva dei bei capelli:
non si dà retta, non si è mai visto un cane con i capelli;
non si dà retta, non si è mai visto un cane con i capelli.

qui potete sentirla,

e qui un’altra canzone meravigliosa, Vincenzina e la fabbrica, colonna sonora di “Romanzo Popolare”.

Condivido, per finire, il bellissimo ricordo di Alfonso Gianni, che dà l’idea di come ci sentiamo, noi milanesi, dopo aver saputo che Enzo non c’è più:

E’ morto Enzo Jannacci. Era malato da tempo. La notizia non sorprende ma il vuoto che lascia è abissale. Forse è difficile per chi non è milanese capire fino in fondo Jannacci. Probabilmente è stato il più grande. L’unico che ha saputo cantare la dimensione urbana, la Milano operaia, quella delle periferie, quella della piccola ligera (in milanese malavita), quella degli emarginati, del non sense, cioè di quella particolare ironia surreale che nasce nel cuore di chi abita in una città che si avvolge nella nebbia, la Milano delle osterie, delle piccole meschinità di un popolo che amo, del fascino ingenuo delle macchinismo e della fabbrica, come luogo della fatica e allo stesso tempo della sicurezza del proprio futuro. Ricordate “Vincenzina davanti alla fabbrica” una delle canzoni più belle che siano mai state scritte. Il cantore di un mondo che non c’è più. E quando ti telefonavo Enzo, per invitarti a cantare rigorosamente a gratis alle feste del Movimento lavoratori per il Socialismo, dopo che ci incontrammo per la prima volta di notte a un picchetto davanti a una piccola fabbrica metalmeccanica davanti a un falò, sembrava sempre che ti svegliassi, qualunque fosse l’ora. E tu cominciavi a spiegarmi come era fatto il mondo, e come andava male, e come cazzo, insomma si sarebbe potuto, no, capisci, dovuto, se fossimo d’accordo ecco… Poi alla festa non saresti venuto perchè avevi le prove, o una registrazione o non ti girava. Ma nella mia testa continuavano a girare le tue parole. Ci riconoscevo dentro la vita di mio padre, che lavorava la notte in piazza Cavour, operaio nella tipografia dove si stampavano tutti i giornali, di destra e di sinistra, e spesso, sempre più spesso mi toccava andarlo a prendere all’osteria ( ora al suo posto c’è un orefice) perché da solo non sarebbe mai tornato a casa. E quando ti vidi per la prima volta nella Tv in bianco e nero, presentato da Mike Bongiorno, cantare “El purtava i scarp de tennis” mio padre era già morto da cinque anni, ma era come se me lo vedessi davanti, perchè lui se di notte ubriaco fosse tornato a casa da solo e avesse visto un “barbone” sotto un mucchio di cartoni si sarebbe fermato, avrebbe cercato di svegliarlo per offrigli qualcosa da bere. L’indifferenza, lui come te, non sapeva cos’era, perchè tu Enzo odiavi gli indifferenti. Te se andaa via. Ciao.

esperienze, Politica Marzo 22, 2013

Demagogia partecipata

In queste ore toste per il Paese, c’è una sòla che non tollero più di contribuire a tenere in piedi: l’idea di democrazia partecipata. Forse piano piano si arriverà a costruire qualcosa del genere. C’è da osservare attentamente quello che farà il Movimento 5 Stelle. Ma finora ogni promessa di democrazia partecipata è stata bellamente disattesa, con grave disillusione di chi ci aveva creduto.

Per esempio Milano e la sua “primavera arancione”, che di questa retorica si è ampiamente nutrita. Tolta la buona volontà di quei pochi e di quelle poche che continuano ad alimentare il sogno (penso, ad esempio, alla consigliera Anita Sonego e ai suoi tavoli delle donne, sulla cui efficacia tuttavia andrebbe aperto un discorso), di partecipato non c’è un bel tubo, se non il rammarico di dover semplicemente incassare decisioni già assunte.

Non c’è democrazia partecipata sul bilancio, sulla visione della città, sulle scelte di indirizzo, su Expo. Non ci sono incontri periodici con i cittadini -a parte i commossi bagni di folla in corso di campagna elettorale-. Non c’è chiarezza partecipata su scelte importanti come i rimpasti di giunta, e gravi come quella di liquidare in poche ore un assessore che stava lavorando tanto e bene: scelta in realtà maturata da molto tempo, si è solo colta l’occasione dell’ultima “finestra” disponibile. Si è cominciato con le sedute di consiglio su megascreen in piazza e si è finiti con un consiglio comunale che lamenta di non contare più di quanto contasse durante la giunta Moratti, allora stigmatizzata per il suo stile oligarchico.

Le esperienze civiche languono, i comitati dei cittadini si sono estinti per sfinimento. C’è solo il grande e consolatorio buzz della rete di cui tutti allegramente se ne sbattono. Ma la retorica della “democrazia partecipata” è ancora viva e vegeta, pernicioso trompe l’oeil. Sgombriamo il campo da queste fantasie romantiche e guardiamo in faccia, da cittadini adulti, la realtà.

Politica Marzo 18, 2013

Il caso Boeri e lo schizo-Pd

 

Certo: un sindaco può sempre revocare le deleghe a un assessore, è suo diritto. Ma trattandosi di fatto di una certa gravità, è bene che i cittadini  vengano messi al corrente nel dettaglio delle motivazioni. A maggior ragione se il sindaco si è sempre appellato a un rapporto “diretto” con la cittadinanza, non facendo parte di alcun partito con il quale sarebbe invece tenuto a confrontare le sue scelte. E in particolare quando il “licenziato” è Mr Preferenze -con i suoi 13 mila voti da capolista Pd Stefano Boeri è stato il secondo degli eletti a Milano dopo Silvio Berlusconi-. Quando sta lavorando moltissimo e bene: dall’invenzione di Bookcity all’Oca, spazio per la creatività giovanile negli spazi ex-Ansaldo, a mostre di grande successo come quella dedicata a Picasso, record storico di visitatori. E senza sforare il budget di 800 mila euro: che per la cultura, in una città come Milano, è davvero poca roba, e anzi riuscendo a trovando generosi sponsor in questo periodo di vacche magrissime.

I rapporti tra il sindaco Giuliano Pisapia e il suo ex-antagonista alle primarie non sono mai stati buoni. La “cacciata” dell’assessore  è una notizia, certo, ma anche no. La mannaia è sempre stata a pochi centimetri dal collo di Boeri. Il piatto freddo di quella che ha tutta l’aria di una vendetta è stato servito ancora tiepido, un annetto dopo la revoca dell’altro assessorato, quello a Expo. Caso finalmente risolto. Al posto di Boeri arriva il musicista Filippo Del Corno, già presidente della Fondazione Scuole Civiche.

Il casus belli sarebbe stato l’investimento di 160 mila euro per due mostre, ma la sensazione è che la causa sia del tutto occasionale e che il destino di Boeri fosse comunque segnato. Gli appelli in extremis, di intellettuali, personalità, cittadini e anche quello di una quindicina di consiglieri del Pd non sono stati minimamente considerati, a fronte di quello che è stato raccontato come il venir meno del rapporto di fiducia.

Oggi Pisapia offrirà al Consiglio le sue motivazioni -che Boeri abbia un caratteraccio in effetti non basta- mentre le proteste dei cittadini si moltiplicano. Ma ormai i giochi sono fatti, e non si torna indietro.

C’è dell’altro. E’ lo stesso partito, viene da chiedersi, quello che a Roma conduce in porto la splendida operazione Boldrini-Grasso, spalancandosi al meglio del civismo, e pensa a una futura squadra di governo informata dagli stessi principi, e quel Pd che a Milano dà il suo nulla osta alla decapitazione del suo ex-candidato sindaco supercivico, che al partito ha portato una cospicua dote di consensi, ottenendo a compensazione l’assessorato ai Lavori Pubblici per la pochissimo amata Carmela Rozza? Che cosa ci si deve aspettare? L’addio, prima o poi, anche a quei due magnifici neo-presidenti, al primo scatto di autonomia? O, viceversa, la sostituzione in blocco di un gruppo dirigente milanese che da troppo tempo non ne imbrocca una, totalmente incapace di intercettare lo spirito del tempo?

Nevica, in tutti i sensi, sulla primavera arancione.

Politica Febbraio 19, 2013

La Milano di Grillo

 

Mi pare che non ci sia molto da aggiungere a quello che vedete qui sopra. Il Movimento 5 Stelle è quasi certamente il secondo partito, e manca ancora piazza San Giovanni. Piazza Duomo piena di giovani. Presenti le tv di tutta Europa, dalla Gb alla Grecia. Dario Fo dal palco dice che gli ricorda una piazza del Dopoguerra, e supplica: “Vi prego, non mollate”.

(la piazza dall’alto guardatela in questo filmato)

ultim’ora, 21 febbraio ore 16.40:

Parte dei voti a Grillo non sono rilevati dai sondaggi:
lo votano e non lo dicono

http://affaritaliani.libero.it/roma/chi-vota-grillo-non-lo-dice-la-politica-morta-in-diretta-tv-21022013.html?refresh_ce
AMARE GLI ALTRI, bambini, TEMPI MODERNI Gennaio 29, 2013

Piccoli milanesi ad honorem

 

Metropolitana milanese. Mamma e figlio cinesi, lui sui dieci anni con borsone da calcio, lei di una pallosità materna senza confini: “Allola mi laccomando, poi asciuga bene capelli se no plendi laffleddole, e sotto metti la maglia (giuro, parlava così, ndr) e poi dimmi a che ola tolni, no come l’altla volta che hai detto sette e sei allivato a otto…”. “E basta ma’! E mollami!” la stoppa lui. “E che strèss! Se ti ho detto le sètte  vuole dire le sètte”, con una “e” che più aperta non si può. Una “e” della Bovisa, del Giambellino, di Quarto Oggiaro (vorrei farvela sentire: un’autentica meraviglia!). Una “e” del Ticinese, di Lambrate, di Gorla, in bocca a quel piccoletto con gli occhi monopalpebra.

L’essenza della milanesità –da sempre- è il meticciato. Il vero milanese è una creatura stralunata e scissa, le radici che pescano a centinaia di chilometri –quasi sempre più a Sud: terroni-, una creatura aggrappata alla città come una patella, attaccamento che si esprime in un fantastico e innamorato slang incapace di dieresi, di “ö”e figuriamoci di “ü” (che diventa “ju”). Il pugliastro dei baby boomers, avete presente? Un’intera generazione di figli di barlettesi, tranesi, baresi e brindisini che ha dato volto e voce a vari decenni di Milano: Celentano, Mazzarella, Jannacci, Abatantuono, Teocoli. Più milanesi del panettone.

Tocca a questi altri, adesso, pazzi di Milano: ragazze filippine (“…ma sei fuoori?”), “pinella” peruviani, piscinine del Senegal che ci riempiono di allegria e vitalità. Seconda generazione, ma è già in arrivo una terza. Più o meno un neonato milanese su tre è figlio di gente che viene da lontano. Il 20-30 per cento degli alunni è di etnia extra e di lingua madre italiana. Ma questi ragazzi hanno un problema in più. In base allo ius sanguinis (italiano chi è figlio di italiani) e alla pessima legge Bossi-Fini sull’immigrazione, solo a 18 anni potranno fare domanda per accedere alla cittadinanza, e con una procedura piuttosto complicata. Un’ingiustizia profonda che potrà essere sanata solo cambiando la norma nazionale. Ma l’amica consigliera comunale del Pd Paola Bocci ha proposto di anticipare gli effetti della riforma con un conferimento di cittadinanza onoraria.

E ce l’ha fatta! Ieri il Consiglio Comunale milanese si è impegnato a conferire con una cerimonia pubblica un attestato di riconoscimento simbolico di cittadinanza italiana ai bambini nati a Milano da genitori stranieri. Dice Paola: “Anche se questo non cambia lo status giuridico, afferma con forza la volontà di vedere i bambini e i ragazzi come tutti uguali, riconoscendoli come risorsa preziosa e insostituibile della Milano di adesso e di quella che verrà. C’è urgenza di cambiare una legge anacronistica… questi bambini si sentono italiani, frequentano o hanno frequentato le nostre scuole, conoscono bene la nostra lingua e sentono come loro questa città… Mi auguro che l’impegno preso oggi sia un monito per chi andà a governare il Paese, perché si impegni da subito a cambiare la legislazione vigente”.

Mi metterò un cappellino, andrò alla cerimonia, piangerò come una fontana.

 

p.s. Altre città: copiateci!

 

 

 

esperienze, Politica Ottobre 28, 2012

‘Ndrangheta: dove ho sbagliato?

Di porcherie ne avevamo viste già tante, anche su al Nord. Ma notizia dell’arresto dell’assessore lombardo Domenico Zambetti è stato uno choc. Una specie di spavento, per quanto mi riguarda. Sarà perché sono nata e cresciuta qui. Un soprassalto di fronte a questo “troppo” che trabocca: riuscire ad alimentare la fiducia mentre tutto sprofonda nel fango è una bella messa alla prova.

Eppure che la ‘ndrangheta abbia a Milano il suo cervello, il suo centro operativo –e dove, se no? è qui che girano i dané– non è precisamente una notizia.

La Lega insorse contro Roberto Saviano quando in “Vieni via con me” fece il suo monologo sulla ‘ndrangheta che controlla l’economia del Nord. Gianni Barbacetto e Davide Milosa hanno scritto un documentatissimo libro-inchiesta, “Le mani sulla città” (sarà il caso di ridargli un’occhiata). C’è “Alveare”, romanzo-inchiesta del giovane Giuseppe Catozzella sui goodfellas che controllano le case popolari del Giambellino, di Lambrate, di Bresso: è la “colonia Lombardia”, e lui c’è cresciuto in mezzo. Dare un’occhiata al sito http://www.milanomafia.com/: ci sarebbe materia per Matteo Garrone, o per Stefano Sollima, altro che Magliana o Comasina.

Sono fatti ultranoti, lo strapotere delle ‘ndrine, i cantieri, i locali che aprono e chiudono, la coca, i cenoni dei boss nei ristoranti dell’hinterland. Ci inciampiamo tutti ogni giorno, camminando per la strada, entrando in un negozio, in questo gigantesco “bisinissi”.

E allora, mi viene da dire: piano con lo sprezzo con cui si stigmatizza la rassegnazione, l’omertà, la connivenza  della gente del Sud. “Male non fare, paura non avere”: il motto ormai non vale anche “su al Nord”? Non siamo forse ugualmente omertosi e rassegnati? Non ci giriamo anche noi dall’altra parte? Non sta capitando anche a noi di non sentire, non sapere, non vedere, di fare finta di niente? Qual è stato il nostro contributo, attivo o passivo, a questa orripilante cancrena?

Lo chiedo a me stessa: ho tenuto gli occhi sufficientemente aperti?  ho saputo sempre leggere quello che vedevo? quante energie ho dedicato all’inessenziale, mentre stava capitando questo? dove ho sbagliato, e perché?

E’ un buon esercizio, credetemi, anche se ti indolenzisce le ossa. Ma se non passi di qui, dal centro di te stesso, non può cambiare nulla.

Politica Agosto 30, 2012

Boeri-Civati: attenti a quei due

 

Forse questo è un mini-inside, ma un inside affettuoso, e anche una piccola forzatura, perché li conosco politicamente e personalmente entrambi e vedo -forse più di quanto al momento riescano a vedere loro stessi- la possibilità di un dialogo fecondo fra loro.

pippo civati

In ordine alfabetico:

Stefano Boeri, già candidato sindaco per il Pd a Milano -e poi sconfitto- e ora attivissimo assessore alla cultura, Mr Preferenze con i suoi 13 mila voti, grande battitore libero, irriducibile outsider della politica politicante -il che forse non è comodissimo, ma significa anche, grazie a Dio, la garanzia di non omologazione a quelle logiche-, notevole uso di mondo, ottime relazioni internazionali che gli derivano dalla professione di architetto, grande capacità di visione, talento “situazionista”, relazione complicata ma passionale con il Partito Democratico, generazione -la mia- dei forever young, di quelli che hanno fatto moltissima politica da ragazzi e non hanno mai smesso di farla in altre forme e fuori dai partiti. Ha recentemente espresso la sua intenzione di partecipare a eventuali primarie per la premiership del centrosinistra.

Pippo Civati, neanche 40 anni, monzese, ottimi studi filosofici, quasi-padre di una bimba, già veterano della politica (debutta nel ’97 come consigliere comunale Ds nella sua città, oggi è consigliere regionale eletto con oltre 10 mila preferenze) e perciò “giovane” esperto del “vecchio” partito, detto “rottamatore” (definizione che non gli somiglia neanche un po’) insieme a Matteo Renzi, da cui oggi è amichevolmente distante, animatore della post-corrente “Prossima Italia” (programma visibile nel libro “10 cose buone che la sinistra deve fare subito”, Laurana: ah, ne approfitto per dire che anche Boeri ha un libro politico in dirittura d’arrivo), già noto alla platea nazionale e secondo più votato nel 2009 in un sondaggio online dell’Espresso per la scelta del nuovo leader Pd.

stefano boeri

Diversissimi ma complementari, ugualmente stra-pop, lavoratori tenaci e instancabili, identificati entrambi come innovatori, li tiene insieme una comunanza di visione su alcune questioni cruciali.

Oltre alla volontà di radicale innovazione del partito, e alla volontà di partito, e oltre al fatto che entrambi si muovono politicamente in ambito milanese-lombardo, ne cito almeno due: una grande attenzione al nodo strategico crescita-ambiente e la capacità-bisogno di dialogare con le donne e il femminile, ancora rarissima nella politica. Ma c’è anche la grande attenzione per la legalità e contro la corruzione, e l’idea assolutamente decisiva (qui è Civati che parla, ma vale anche per Boeri, che da architetto ad assessore è andato in perdita secca) che “chi vuole diventare ricco non deve fare politica, deve fare un altro mestiere“. Dopo decenni di affarismo, esplicitarlo non è inutile.

Una collaborazione più fitta, con il suo valore aggiunto inter-generazionale, potrebbe dare vita al coagulo per il progetto di un Pd-Nord capace di esprimersi sia a livello nazionale che regionale (più prima che poi si andrà al voto anche per la Lombardia).

L’idea non mi dispiace. Ma per niente.