Milano, quartiere di Gorla. Ponte Vecchio sul Naviglio Martesana

E’ stato anche grazie all’acqua, a quel naviglietto che arriva dall’Adda, che un quartiere milanese come Gorla, tanto per fare un esempio, negli anni Sessanta non è deflagrato sotto l’urto di un’immigrazione massiccia e improvvisa, migliaia di nuovi milanesi che arrivavano da Sud per lavorare nelle grandi e piccole fabbriche, palazzi come funghi, due camere e cucina impilati l’uno sull’altro, uno choc culturale e meteorologico per chi lasciava il sole per chiudersi nei reparti con le luci al neon (rivedersi “Rocco” e poi “Romanzo popolare”). E’ stato anche grazie al Martesana, detto “la” Martesana, a quelle acque un po’ fetide e così amate, al Ponte Vecchio e al Ponte Nuovo da cui sporgersi a contemplare i mulinelli e la prole delle anatre, che l’identità del quartiere ha tenuto, l’integrazione è stata sostanzialmente felice, cementata dai motti di spirito (“Oehi, Africa!”) e dalla certezza del pane.

I Navigli, il Grande, il Pavese e anche il Piccolo o Martesana che scorre da NordEst, sono sempre stati importanti per l’identità di Milano, memoria di tutta quell’acqua su cui galleggia la nostra città-chiatta circonfusa di vapori, brume e afa (“te dormet all’umid?” è un modo di dire qui, per stigmatizzare chi non corre al ritmo giusto, cioè al folle passo di pianura). La copertura di una lunga tratta della fossa interna negli anni 1929-30 ha ubbidito a un’anti-sogno modernizzante, e anche a ragioni igienico-sanitarie: ragioni che tuttavia si sono riproposte nell’intossicazione prodotta dai fiumi di metallo incolonnato e sgasante. Il rimedio è stato peggio del problema.

Area C ha segnato un’inversione di rotta, primo indizio di una visione che ha bisogno dell’acqua, ovvero di un ritorno di Milano a se stessa, per esplicitarsi.

Perché Milano sogna sempre l’acqua, in bianco e nero e a colori. Per questo sostengo con convinzione e commozione l’idea di una riapertura di grande parte dei navigli interrati (rii terà, li chiamerebbero a Venezia), come simbolo e driver di un cambiamento di rotta che la maggior parte dei milanesi ha già mostrato di approvare, cuore pulsante di una visione che fa un po’ di fatica a delinearsi.

Mancando, tanto per cambiare, i fondi necessari, indicati nella somma tutto sommato abbordabile di 200 milioni, mi pare ottima l’idea di bond-navigli lanciata dall’amico carissimo Ivan Berni su “La Repubblica”. Tanto più che grossomodo la metà di quella somma sarebbe recuperabile rinunciando al contestatissimo progetto della Via d’Acqua di Expo, 90 milioni per un’impresa faraonica e non necessaria.

La bozza di progetto è stata realizzata dall’equipe del Politecnico guidata da Antonello Boatti.

Sognamo l’acqua, questo Natale! E auguri a tutti.

Aggiornamento 29 dicembre: la Sovraintendenza “boccia” la via d’acqua, troppo invasiva.

 

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