La prospettiva di portare al governo nazionale l’efficace centrosinistra milanese rischia di essere compromessa da microinteressi, antipatie impolitiche e pregiudizi su Milano. Ma questo treno non si deve perdere
Milano non è la borghesia alla prima della Scala. Milano è il lavoro sui migranti, migliaia di giovani felici di viverci, una città rinata grazie al buon governo di centrosinistra. Che dovrebbe estendersi a tutto il Paese
Il sindaco in scadenza Pisapia è visibilmente mesto, un sorriso stampato e tirato che di tanto in tanto cede a una maschera livida tipo Padre Pio. #TuttacolpadiPisapia stavolta è vero. Se non tutta quasi, e tutti lo pensano. All’Elfo Puccini, la Bastiglia della Rivoluzione arancione (se non vi ricordate quei giorni leggete qui) la resa è rovinosa. Dal momento dell’annuncio della sua non-ricandidatura, ormai quasi un anno fa, Pisapia non ne ha fatta una giusta: un libro inopportuno per bruciare il suo ex-supercompetitor Stefano Boeri e Pierfrancesco Majorino, la caparbia convinzione di poter decidere il successore, un’andatura da Sor Tentenna che ha logorato la fiducia dei suoi adoratori, il cedimento su Beppe Sala, il lancio –in ritardo- di Balzani, due umilianti viaggi a Roma da Matteo Renzi, e poi “sarò arbitro imparziale” e invece no, in extremis, “sto con la mia vicesindaca”. Un disastro.
L’errore più grave è stato scappare dal secondo mandato. “E dire” giura un super-renziano nel foyer “che Matteo sperava davvero in una sua ricandidatura. L’avrebbe sostenuto. Il rischio a Milano era troppo grande. Preferiva non correrlo. Ma non c’è stato verso”. Pisapia non sarà più sindaco, ma non sarà neanche il leader politico che progettava di essere. Solo tiepidi applausi, qualche fischio e qualche “buu” quando pronuncia il suo discorsetto retorico, ai limiti dell’afasia, per onorare il vincitore delle primarie Beppe Sala. Un’uscita ingloriosa.
La sala dell’Elfo Puccini si riempie solo intorno alle 22.30, quando lo spoglio conferma gli exit poll. Prima di quel momento solo un centinaio di fedelissimi, prevalentemente balzaniani e majoriniani. Clima da funeral house. Il morto è il modello Milano. Un sottofondo di musica funky e groove rende tutto più surreale. Sembra una convention di rappresentanti di spazzole.
La prima ad arrivare è Francesca Balzani, elegantemente sorridente (34 per cento). Si mangerebbe Majorino con patate ma non lo dà a vedere. Il carattere freddo e controllato aiuta. A ruota Majo (23 per cento) accolto dalla ola dei supporter. Raggiante e baldanzoso come se avesse vinto lui (ma forse qualcosa l’ha vinto uguale). Ultimo, il vincitore vero, Beppe Sala. Non proprio trionfatore, ma comunque vincitore. Altre due settimane di campagna l’avrebbero sfibrato: partito con un 60 per cento di consensi, si è dovuto accontentare del 42, mentre Balzani cresceva a vista d’occhio.
Jeans, camicia bianca e giacchetta kaki, la faccia ancora segnata da una ragionevole preoccupazione, Sala si arrampica sul palco accompagnato da un incongruo “Heroes”, un po’ tantino per un ragiunatt. Giura che non deluderà Milano, ringrazia Pisapia (niente applausi), parla di squadra e di politica “dal basso” (mamma che noia). Nessun trionfalismo, l’italiano scabro e un po’ incerto da uomo dei conti. La soddisfazione di essere andato bene in periferia: sarà anche il più destro dei candidati, ma forse è anche l’unico, da ex-manager Pirelli, ad aver visto le tute blu. Balzani giura fedeltà. Majorino giura fedeltà. Perché “la battaglia vera comincia adesso” etc etc. E ciao.
Non giurano fedeltà i loro sostenitori, quelli che per tutta la campagna hanno detto “però poi se vince Sala poi sto a casa”. Sel prende una bella botta e si ritira per l’ennesimo seminario di terapia e pallottole. Con Sala, con Passera sempre più destro, con Parisi o chi per lui come candidato del centrodestra vero, la voglia di stare a casa (o andare al mare o, a scelta, in uno slancio dadaista, di votare la sciura Bedori detta Misery) è più che giustificata.
A Milano #thedayafter niente arcobaleni, né singoli né doppi, un grigio londinese. Era tutto scritto, la parentesi arancione stava per chiudersi, ma tanti sembrano pugili suonati. Tutti a lavorare, è lunedì. I morti sono già bell’e sepolti. Ma un certo terrore ligure serpeggia. Che cosa fa Sel? E se si candida Civati? Capiterà qualcosa a sinistra? E’ giorno di riunioni politiche, più o meno carbonare. Milano ha retto agli austriaci e ai sabaudi. Qualche problema potrebbe crearlo anche al Partito Nazione.
Majorino ha ragione: la battaglia vera comincia adesso. Forse non solo nel senso che intende lui.
Dopo un’estenuante serie di preliminari, le primarie milanesi del centrosinistra (più Pd che altro) sono entrate nel vivo.
Il gioco tra i tre principali contendenti (Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala) non è proprio all’insegna del fairplay. Balzani entra in campo baldanzosamente, ostenta da subito un parterre de reine, chiede perentoria al collega Majorino candidato da tempo di mollare il colpo, porta a casa un bel picche, e al momento arranca un po’, affaticata dalla scarsa notorietà, dai troppi appelli eccellenti in suo favore e dall’accusa di salottismo.
Majorino sembra ringalluzzito, campagna molto social e luogocomunista, esagera con la promessa un po’ molto pacchiana di un assessore Lgbt –quei voti gli servono, vuole perdere bene-, sostanzialmente è raggiante perché Giuseppe Sala, il probabilissimo vincitore, lo omaggia riconoscendogli una sensibilità sociale di cui lui difetta. Leggi: tranquillo, come minimo ti rifaccio assessore. In fondo è quello che, sparando alto, l’abile Majorino sperava di portare a casa. Qualcuno grida scandalosamente al ticket occulto.
Quanto a Sala, asso pigliatutto, campione del Partito-Expo-Nazione, entusiasma perfino certe furbette assessore di Sel, Cristina Tajani e Daniela Benelli: le idee non si mangiano. Piace a Cielle, a Ncd, a Scelta Civica (Scelta Civica????) e a un bel pezzo del centrodestra, orientato a candidare un uomo di paglia per non dare troppo disturbo all’uomo che garantirà un po’ tutti. E si comincia a intravedere la cospicua fila dei saltatori sul carro dell’ultim’ora. L’impatto mediatico dell’ex-ad Expo, oltretutto, è sorprendente: chi tra i suoi antagonisti sperava in un’immagine scostante da manager anglofono ha dovuto ricredersi. L’uomo ha la concretezza del gran lombardo, dà del tu all’interlocutore, non si perde in chiacchiere e promesse volatili, punta dritto al tema delle periferie -vulnus della gestione Pisapia- dove intende radicare il suo successo, ha quella faccia un po’ francese da sindaco di Milano. Forse è tutta fuffa, ma presentata bene. In breve: per i competitor un osso durissimo.
A meno di miracoli sempre possibili o di fattori esogeni imprevisti, tipo irruzioni della magistratura, l’8 febbraio, il giorno dopo le primarie, Milano si sveglierà di fronte alla seguente scena politica: un candidato centrista (Sala), un altro candidato centrista (Passera), un candidatuccio di centro destra (?), e la signora Bedori, carneade 5 Stelle, che dal momento della sua candidatura è totalmente sparita dai radar.
Il popolo arancione, rosso, rosa e verde si ritroverà desolatamente alla deriva, anche e soprattutto a causa di una partita condotta davvero malissimo dal sindaco uscente. Un popolo frantumato tra una mesta realpolitik, un orgoglioso aventino e la tentazione 5 Stelle che a Milano non è mai andata oltre la protesta pre-politica. A meno che, ed è la variabile su cui tenere lo sguardo, a questo popolo non venga offerta a sorpresa un’alternativa, un/a candidato/a che potrebbe puntare a replicare l’exploit ligure, quel 10 per cento guadagnato dal candidato “civatiano” Pastorino, o perfino bypassarlo se la proposta sarà sufficientemente suggestiva.
Del resto nemmeno Renzi può pretendere che un bel pezzo di Milano, quello che ha dato carne e sangue all’anomalia pisapiana, a questo punto si dissolva come neve al sole, parola turna indré, come si dice da queste parti. Anche perché questa gente, altro che indré, ha l’ambizione di andare avanti.
L’idea di una cena borghese in cui si decide chi dovrà essere il sindaco di Milano è francamente irritante. Anche perché, per una volta, mi piacerebbe che il/la sindaco/a di Milano fosse qualcuno che è nato e vive nella cosiddetta periferia, visto che la questione, nella prospettiva della città metropolitana, sarà al primo posto delle agende politiche. Ma soprattutto non è accettabile l’idea di un sindaco-re che insieme alla regina e alla sua corte contende all’imperatore il diritto di decidere chi dovrà essere il suo successore, pur dopo aver garantito che per correttezza non avrebbe sostenuto alcun candidato.
Non che mi sia mai fatta alcuna illusione sulla “partecipazione”: lì o sei invitato a cena anche tu o non partecipi a un tubo. Ma che da questa fastidiosa retorica si passi a una spudorata logica dinastica, in effetti è un po’ tantino. È questo a prescindere dal valore dei candidati e delle candidate lanciati nell’agone, tutti ottimi, ci mancherebbe. Mi auguro pertanto che sia Renzi sia Pisapia si muovano con maggiore discrezione su Milano: non credo affatto che il sindaco uscente sia maggiormente titolato a invadere il campo. Il/la sindaco/a che voterò lo voglio “periferico” e senza sponsor.
A Milano volano gli stracci (tra l’ex vicesindaca Ada Lucia De Cesaris e il candidato Pd alle primarie Pierfrancesco Majorino, accusato di usare il proprio ruolo istituzionale per farsi campagna elettorale) e si gira a vuoto alla vana ricerca di un candidato civico che si sacrifichi per non far sembrare le eventuali imminenti primarie quello che effettivamente sono: primarie del Pd, e non del centrosinistra. Oltretutto con candidati deboli e inadeguati a sostenere la sfida con il centrodestra.
Primarie ben diverse da quelle “risorgimentali” del 2010. Quindi molto poco attrattive per il centrosinistra (figuriamoci per la città nel suo complesso, che del dibattito sulle primarie se ne sta sbattendo allegramente).
Una cosa molto pericolosa e deprimente, il cui esito potrebbe essere quello di consegnare la città al centrodestra.
Lo stato di salute della coalizione è pessimo.
I civici di sinistra divisi e delusi: la promessa di partecipazione è stata tradita.
Prc si è già chiamata fuori.
Sel continua a cambiare idea sull’eventuale candidatura di Giuseppe Sala, commissario di Expo: dal “parliamone” al “no” nel giro di una settimana.
Pippo Civati, fondatore di Possibile, ha parlato senza mezzi termini di fine del modello Milano. E il sindaco Pisapia lo ha ricambiato con un sostanziale “tu non esisti”.
E’ il Pd a tenere saldamente il mazzo, dettando modi e tempi, lo sguardo puntato sul business miliardario palazzinaro del dopo Expo, vero punto programmatico: il nuovo sindaco di Milano non potrà non dirsi renziano.
Non che a Milano manchino possibili ottimi candidati civici, come Ferruccio De Bortoli, molto inviso a Renzi –che l’ha già bocciato come presidente Rai- per le sue ferme prese di posizione. Perfino piddini renziani come Stefano Boeri sostengono che “non ci sono le condizioni” per candidarsi.
Le condizioni in atto sono che il Pd di Renzi, com’è nel suo stile consolidato, intende designare il sindaco di Milano, o più precisamente gestire il business della città-holding Milano. Preferibilmente senza primarie o, nel caso non se ne potesse fare a meno, gestendole in modo consono. Se non sarà Sala, potrebbe anche andare il ministro Martina.
Tutto qui. Il Pd renziano è il vero responsabile della rottura del modello Milano, con tutto ciò che ne conseguirà. Il vero tema è che un centrosinistra con dentro il Pd non è più immaginabile.
Se c’è una speranza per questo modello virtuoso, pur con tutti i suoi limiti, è fuori da queste primarie-trappola, in uno scatto di libero orgoglio creativo. Al momento nessuna traccia.
P.S: una differenza notevole, rispetto al 2010, è che allora i candidati -oltre a non essere tutti del Pd come stavolta- erano rinomati professioni sti che rischiavano anche il reddito -in alcuni casi notevole- per amore della città e della politica. Stavolta invece sono tutti del Pd e tutti politici professionisti in cerca di conferma.
“Fonti romane” dicono che ieri, in una giornata piuttosto complessa per Roma, il sindaco di Milano Giuliano Pisapia è andato a Palazzo Chigi per un colloquio con Matteo Renzi. C’è un simbolico che ha un notevole peso politico: se a Renzi interessa tanto la partita milanese sarebbe stato lui a dover prendere una Freccia o un aereo pubblico o privato e a farsi un giro a Palazzo Marino (o anche no).
Un gesto ben poco civico e pisapiano che offende la città: è vero che Renzi si gioca la pelle nella partita amministrativa milanese congiuntamente a quella romana. Ma questo è un problema di Renzi, non di Milano e del suo sindaco.
Non mi sentirei più di escludere che Pisapia faccia marcia indietro e decida di ricandidarsi. E comunque, che si tratti di lui, di Sala o di chissà chi, che il giocattolo delle primarie, che come dicevamo qualche giorno fa si è rotto, venga ficcato in un baule in soffitta tra le cose inutili (agli attuali candidati un ovvio premio di consolazione). Ma in tutto questo ci sarebbe comunque un Renzi di troppo, il premier che nessuno ha mai eletto, la creatura delle primarie che rinnega le proprie origini. Passato lui, il portone viene richiuso a dieci mandate.
L’incartamento è tale che viene istintivo guardare altrove, nello spazio aperto di una città libera che trovi un proprio sindaco o una propria sindaca ben lontano da questi tavoli o tavolini dove siedono giocatori-incasinatori, che tra i “valori” a cui i candidati dovrebbero aderire infilano in modo very casual un incomprensibile riconoscimento del “successo di Expo” (in realtà, il punto programmatico cardine del programma).
Milanesi! Respirare! Aria! Aria, fantasia, e orgoglio!
Milano: il giocattolo primarie è sul punto di rompersi. E la coalizione di centrosinistra garantita da Pisapia nei fatti non c’è più.
L’idea che gira è quella di una coalizione civica e di sinistra alternativa al Pd e che non partecipi alle primarie. Perché “non faremo la loro foglia di fico” si è detto per esempio ieri sera in un’assemblea cittadina di Prc. “Il Pd non è più un partito di sinistra. Né si capisce perché tra i valori a cui ubbidire per partecipare alle primarie dovrebbe esserci il riconoscimento del successo di Expo”.
In effetti le primarie del 2011, che portarono alla trionfale elezione di Giuliano Pisapia, sembrano appartenere a un’altra era geologica: umori risorgimentali, antiberlusconiani e anitimorattiani, grande voglia di voltare pagina, partecipazione, appassionanti candidature civiche.
Stavolta è tutt’altra storia. I candidati sono tutti politici di professione e tutti del Pd. Il candidato-a “foglia di fico” per ora non si trova. Al momento le primarie restano una faccenda interna alla politica politicante. Addetti ai lavori e militanti a parte, la città è distratta e per nulla appassionata. Ma su questo fronte, a sinistra come a destra, non sembra intenzionata a tornare indietro e spera in un sindaco-a supercivico-a, preferibilmente legato al mondo del lavoro e delle professioni -la vera politica, forse anche la vera religione di Milano- e che non si sia formato nelle stanze dei partiti. O quanto meno un politico eretico, in grado di sparigliare.
D’altro canto i potenziali supercivici di cui si sente dire non sembrano minimamente intenzionati a sottoporsi al giogo delle primarie, che non riconoscono come il proprio campo di gioco, preferendo un libero Fuori Primarie.
A queste primarie, insomma, non sembra credere più nessuno. Matteo Renzi per primo, consapevole del fatto che al tavolo di Milano si gioca una partita nazionale, che riguarda anche il suo destino politico. Ma l’unica mossa che gli è consentita a quel tavolo è calare il suo asso.
Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi sul Corriere: «Milano in questi anni è rinata, per tutti è il place to be. Non lo dico io, lo dicono i giornali di tutto il mondo e i milanesi lo vivono sulla propria pelle. In città c’è un clima straordinario, che è il risultato del lavoro collettivo dell’amministrazione che ha lavorato per una città aperta, solidale, efficiente, innovativa, sempre più internazionale e che coniuga pubblico e privato. Non è un caso che nella nostra città oggi vi siano il maggior numero di consolati di tutte le città del mondo. E tutto questo è dovuto ad un lavoro unitario e a un progetto condiviso della coalizione di centrosinistra, non legato a una sola persona. Non ho paura che Milano si perda. Due giorni fa abbiamo presentato lo scooter sharing e siamo adesso l’unica città al mondo che abbia un’offerta completa: bici, moto, auto. Essere avanti è il modello Milano. E i fatti sono più forti delle polemiche momentanee. Certo, sento fortemente su di me la responsabilità non solo di dare il massimo nei prossimi mesi nell’azione di governo, ma anche di evitare che scelte personali indeboliscano quanto abbiamo fatto e rendano più difficile il cammino verso le elezioni».
Pisapia ha ragione: in città c’è un clima straordinario e come dicevo nell’ultimo post, caldo assurdo a parte, passa anche la voglia di andare al mare. Non è pensabile che questo ciclo virtuoso si interrompa. Ciclo che, a mio parere, deriva dalla convergenza di vari fattori: 1. le energie e i desideri portati dai nuovi milanesi arrivati da lontano. Il titolo di un vecchio film, “Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi”, rende l’idea. Lì si trattava della prima ondata migratoria post-bellica, quella dal Sud, e dei mirabolanti anni Sessanta, il boom e tutto il resto. E’ la storia dello stesso Pisapia, suo padre era casertano. E’ la storia di un pezzo della mia famiglia, e quella di centinaia di migliaia di milanesi. Oggi si tratta di ragazzini di centinaia di etnie diverse che parlano un meraviglioso slang. Non c’è niente di più felicemente e orgogliosamente milanese di uno che arriva da lontano. E’ sempre stato così, nella storia di questa città. 2. la fine della lunga crisi identitaria seguita alla deindustrializzazione: oggi sappiamo meglio chi siamo e che cosa vogliamo, abbiamo ritrovato la strada, e tutto batte a un ritmo festoso e frenetico, per lasciare ogni crisi alle spalle 3. una giunta che ha saputo interpretare -con tutti i suoi limiti, le sue fatiche e i suoi errori- questi processi. Tra i limiti, io ho sempre indicato un ritardo nel cambiamento di sguardo sul tema delle cosiddette “periferie”, che in alcuni casi hanno sperimentato un vero e proprio abbandono. E’ stato l’errore più serio e più grave, e i prossimi 5 anni devono servire a rimediare. Non ci devono più essere “periferie” (lo dico da anni). Il programma deve essere: Milano diventerà più bella, “solidale, efficiente, innovativa” dappertutto.
Diversamente da Giuliano Pisapia, io invece ho paura che Milano si possa perdere. La partita è difficile e delicata. Le dimissioni improvvise della vicesindaca De Cesaris almeno un merito ce l’hanno: quello di aver dato la scossa e di aver indicato i pericoli che derivano dai personalismi e dalle divisioni. Tutti, ma proprio tutti, dobbiamo mettercela tutta, gettando ponti e costruendo un progetto unitario in cui possa confluire la ricchezza delle differenze. Da subito, e senza interferenze romane. Per fare capitare alla politica quello che sta capitando alla città, e remando tutti nella stessa direzione.
Sfida meravigliosa.
Il travaglio di Pippo Civati è stato lungo, doloroso e sbeffeggiato. Non si molla da un giorno all’altro qualcosa che è stata la tua vita. Ora il travaglio si è concluso, e a sentirsi poco bene sono tanti altri, in un partito, il Pd, che in forza della governabilità –nessun dubbio sul fatto che il Paese debba essere governato-, ha ridefinito un passo dopo l’altro i suoi fondamentali in direzione di un blairismo all’italiana. Si tratterà di capire se e quanto si sono ridefiniti anche i suoi elettori: la grande manifestazione dei prof contro la “buona scuola” (slogan: “Renzi + Giannini peggio di Gelmini”), qualche dubbio lo autorizza. Perfino nel premier che, forse per la prima volta, si allarma di fronte al rischio di emorragia di consensi e si vede costretto a un parziale marcia indietro.
Primo banco di prova per Civati, fra 3 settimane, le regionali liguri: un successo del progetto Rete a Sinistra per Pastorino presidente potrebbe delineare il perimetro e il potenziale di una Podemos italiana. I temi ci sono già tutti: ambiente –la situazione in Liguria è drammatica, dopo anni e anni di partito trasversale del cemento, e non è ancora finita-, e poi lavoro e diritti. Temi liguri e nazionali, inestricabili l’uno dagli altri.
Il rischio zero-virgola per un nuovo progetto politico è direttamente proporzionale agli Ingroia e ad altri personaggi già prontissimi a scendere dal carro perdente per farne perdere un altro. Eterno riciclo degli uguali.
In Italia il posto di Podemos è già abbondantemente occupato dai 5 Stelle, al netto delle relazioni pericolose con Farage. Poi c’è il civismo “risorgimentale” milanese, senz’altro il più interessante tra i nuovi prodotti politici (come sempre, del tutto incompreso a Roma), con l’aspirazione del sindaco uscente (o rientrante) Pisapia a farne un prodotto politico nazionale. Se la Liguria sarà il primo banco di prova, Milano dovrebbe essere il secondo.
La scena mi pare questa.
L’ho già detto, ridico come la penso: come l’Angelus Novus di Walter Benjamin, si tratterebbe di abbandonare le rovine, anche le proprie, un’idea pavloviana di sinistra con le sue parole d’ordine inutilizzabili, i suoi rituali consumati, le sue logiche inservibili, la volgarità dei suoi laicismi, le sue barbe e le sue maschere. Di mettere al centro la “natura” sacrificata, il femminile del mondo, la mitezza, la pace e la cura di tutto ciò che è piccolo e dipende da noi, e di garantire a ciascuno ciò di cui ha bisogno per una buona vita, che è molto più dell’uguaglianza.