Ok, d’accordo, Milano sta antipatica un po’ a tutti. Poi però quando vieni qui a vivere, come quei 50 mila ragazze-i -che Dio li benedica- che sono arrivati nel giro di un anno per studiare, lavorare (e lavorano: previste 10 assunzioni all’ora nel primo trimestre 2017 ) e anche divertirsi; quando nel giro di 24 ore capisci che nessuno ti darà del foresto e che sei milanese da subito per un immediato ius soli, come lo siamo stati tutti -perché più o meno tutti qui ci siamo arrivati, chi prima e chi poi- allora la musica cambia.

Milano patisce storicamente questa incomprensione, ma c’è anche un disconoscimento contingente, più strettamente politico.

E’ successo che nel 2011 la città si è pacificamente rivoltata: uno scrollone di cui la mia generazione è stata protagonista, perché troppa energia era bloccata da un governo provinciale e insufficiente. Giornate bellissime, risorgimentali, chi le ha vissute ha definitivamente imparato che tutto è possibile, nel tempo giusto.

Anche allora l’incomprensione politica fra i non-milanesi fu forte: una giornata indimenticabile, per me personalmente, al Capranichetta di Roma, quando andai a prendermi pomodori e insulti dai berlusconidi a cui su invito di Giuliano Ferrara ero andata a raccontare che a Milano il loro tempo era finito. Anche oggi capita qualcosa del genere, benché di segno inverso. Racconti che a Milano le cose stanno funzionando, che il ciclo virtuoso cominciato nel 2011 è giunto a maturazione, che le buone notizie prevalgono su quelle cattive, e vieni accolto con scetticismo, antipatia e stizza, e qualche volta pomodori, in particolare dagli interlocutori di sinistra, come se stessi solo bausciando.

Una specie di refrattarietà alle buone notizie, come se accoglierle infiacchisse l’essere di sinistra.

Questa incomprensione mi preoccupa perché rischia di farci mancare un’occasione storica, un altro tempo giusto che non si ripeterà, e abbiamo solo un anno per costruirla: l’occasione di portare al governo nazionale la buona esperienza del governo milanese -modello Milano, l’ho chiamato tante volte-, assecondando peraltro il fatto storico che -anche questo l’ho detto tante volte- le cose politicamente rilevanti cominciano quasi sempre qui, quelle buone e quelle cattive, e poi colano giù per lo stivale. Ora ce n’è una buona, che è pronta per l’esperienza nazionale.

Il pericolo è perdersi nei dettagli e non vedere il quadro d’insieme.

Sono stata robustamente antirenziana, ho visto da subito e da vicino quel petto in fuori, quella natura arrembante che andava pericolosamente in coppia con un certo provincialismo, oltre all’assoluta e mirabile incapacità di ascoltare. Ho però apprezzato la baldanza di Renzi in Europa, la tenuta antidemagogica sulle politiche migratorie, la naturale capacità di lavorare con le donne. Le batoste ti possono anche cambiare, ma poco: credo che Matteo non sia cambiato affatto, più probabilmente è cresciuto, si è rassegnato ad essere contenuto e “presidiato”, e il suo indubitabile carisma meglio regolato. Soprattutto è cambiato lo scenario, da Trump a Le Pen ai nostri fascistoidi interni, un assedio che chiede l’assunzione di un più severo principio di realtà e un tempestivo cambio di tattiche e strategie.

Le figure “di presidio”, il lombardo Maurizio Martina -protagonista della svolta del 2011- dentro il Pd, il milanese Giuliano Pisapia fuori con il suo Campo Progressista, indicano esattamente la direzione in cui io spero da tempo: portare Milano a Roma -e anche Roma a Milano-, infittire il dialogo tra le due realtà territoriali e politiche, esportare quel modello di centrosinistra consolidato da 6 anni di esperienza e convalidato dai buoni risultati. Altro da fare non lo vedo.

Il quadro d’insieme è questo: poi ci sono le simpatie, le antipatie, i mal di pancia, i narcisismi, gli orgogli e i micro-opportunismi. Ma a questo giro rischiano di costarci veramente cari. Pensiamoci molto bene.

Chiudo proprio su Giuliano Pisapia, che ieri al Brancaccio di Roma ha fatto un ottimo discorso: pur da tiepida pisapiana -anch’io ho le mie simpatie e antipatie- per chi intende votare a sinistra dico che la sua proposta è l’unica praticabile, e per varie ragioni. Perché Campo Progressista non intende proporsi come soggetto autonomo ma, appunto, come campo di gioco per una libera dialettica a sinistra, catalizzatore del dialogo contro la scissione della scissione dell’atomo. Perché l’esperienza di governo a Milano rende Pisapia un interlocutore credibile, diversamente da quei microleader che non hanno mai il coraggio di misurarsi con la realtà, tutti chiacchiere e distintivo. Perché proponendosi come padre nobile, senza candidarsi ad alcunché e incoraggiando i-e-le più giovani a farsi avanti, Pisapia non è sospettabile di lavorare per una poltroncina per sé con relativi emolumenti -semmai una poltronciona, nel caso di primarie per la leadership del centrosinistra unito-: ha una professione sufficientemente remunerativa, diversamente da chi senza un seggio non saprebbe come campare perché un lavoro non l’ha mai avuto. E questo oggi conta, conta moltissimo.

Nella speranza che pregiudizi, miopia, personalismi, e haterismi non ostacolino questo percorso. E’ l’unico che abbiamo, se non vogliamo vedere vincere la destra e/o i 5 Stelle.

 

 

 

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