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esperienze

Donne e Uomini, esperienze, giovani Febbraio 5, 2014

Barbudos y Cocineros

Giovani chef emergenti: Ivan Iurato e Giorgio Ruggeri

Se non avete maschi ventenni, razza barbudos y cocineros, che grufolano per casa, forse non saprete che la cucina è ormai loro territorio quasi esclusivo. Né conoscerete il disprezzo con cui, sciacquettando tra guancia e guancia il vostro dessert domenicale –ovviamente “impiattato da cani”- vi diranno che ne avete distrutto l’armonia con quello stramaledetto ribes.

Le amiche sono tenute per sguattere: “Forza con quella mirepoix… ma no! Meno grossolana!”. Il rito del fuoco è solo maschile.

Una volta si limitavano al selvaggio barbecue. Ora si prendono tutto, pure la zuppa.

Buona cosa, che invadano in massa il campo femminile: vuole dire che il femminile sta invadendo loro. Che l’invidia per le donne e il loro modo di stare al mondo si sta manifestando in tutta la sua originaria potenza.

Sono un po’ gradassi, questo sì: è il loro modo di stare al mondo, del resto. Non cuochi, e nemmeno chef, ma direttamente masterchef: il prometeismo applicato alle materie prime.

Così, mentre mi compiaccio per l’indubbia perizia nella mantecatura e nella scelta di prodotti d.o.p., a nome di tutte mi permetterei di far osservare che il lavoro preziosissimo e insostituibile della cura si compone anche di mansioni probabilmente meno artistiche: lavaggio vetri, tanto per dire; spolvero mobili; stiro camicie (cominciare da colletto e polsini); accompagno bambini a ginnastica; coda alle poste; ritiro ricette per nonna; cambio armadi (il terrore assoluto).

E poi sì: c’è anche il water. Non avrà lo charme di un Master Chef, ma anche Mastro Lindo ha un suo perché.

AMARE GLI ALTRI, esperienze, Politica Gennaio 7, 2014

La banalità del web-male

Qui di odiatori ce ne intendiamo eh, amiche e amici? Sono anni che ne vediamo e ne sentiamo di tutti i colori. Vero: l’agguato a gente malata (Caterina, e ora Bersani) fa particolarmente impressione, ma da queste parti non ci ha colto impreparati.

La chiamerei “guerra dei mondi”: tra il mondo degli ultracorpi di chi, a qualunque titolo, vive una super-esistenza -i politici, chi va in tv, chi scrive sui giornali o in rete o magari dei libri, chi conosce la gente giusta, chi ha un incarico di prestigio, o una seconda casa, senza troppe differenze tra chi ha ereditato dai nonni un bilocale a Recco e un gozzetto da pescatori e chi attracca con il suo ferro da stiro nel moletto privato della sua villa- e la sub-esistenza di chi è rimasto mera materia, di casa non ne ha neanche una, o sta faticosamente pagando un mutuo da 15 anni, ed è visibile a malapena ai suoi ringhiosi vicini di casa.

Mi pare infatti che la questione discriminante sia proprio quella, la Visibilità come prova di Esistenza: c’è un mondo dei Visibili e un mondo degli Invisibili. Per i quali la rete, libero accesso e costo quasi-zero, costituisce una formidabile occasione per confrontarti con la Kasta peer-to-peer e per accedere a quei 5 secondi di celebrità. A patto di strillare, di spararla più grossa che puoi, altrimenti resti imprigionato nella tua invisibilità pure lì. Del resto la politica televisiva degli ultimi anni è stato un vero e proprio master di bullismo.

Resto dell’idea che la rete sia uno straordinario strumento politico e di trasformazione, non saranno i conati degli haters a farmi cambiare opinione. E riconosco anche in me stessa, in particolare stamattina trovandomi nuovamente costretta a leggere di Tasi, Tares, Tirsu e Iuc, la tentazione di svuotarmi della rabbia rovesciandola con un semplice @EnricoLetta e clic. Ma ormai so bene che se lo facessi : 1. non cambierei nulla della situazione, restando nell’indifferenziato impolitico, cioè non trasformando il carburante della rabbia in azioni efficaci 2. questo provocherebbe solo ulteriore frustrazione e nuova rabbia, in un loop auto-intossicante.

Quindi non indugerei in inutili giudizi morali sull’hate-speech: mi limiterei solo a osservare che non serve a nulla, non trasforma nulla, non intacca le ragioni della rabbia, semmai ne alimenta altra, ingolfandoci. E proverei ad attenermi alle indicazioni della mia maestra Etty Hillesum: “Ogni atomo di odio che si aggiunge al mondo lo rende ancora più inospitale“.

 

 

 

bambini, Corpo-anima, esperienze, femminicidio, questione maschile Dicembre 5, 2013

Quanto ci costa il dolore

 

 

Ieri un convegno all’università Bocconi ha valutato in oltre 13 miliardi il costo medio annuo che grava sulla spesa pubblica italiana per le conseguenze dei maltrattamenti sui minori. Qualche settimana fa è stata quantificata in 17 miliardi la spesa media annua che consegue al maltrattamento sulle donne.

In questo periodo usa molto quantificare il costo del dolore. E allora due osservazioni:

1. la violenza sulle donne, ma anche la grande maggioranza degli abusi sui minori sono commessi da uomini. Una lettura neutra di queste casistiche non aiuta la prevenzione, che deve orientarsi su una comprensione dei meccanismi della sessualità e dell’aggressività maschili, intesi non come dati di natura immodificabili ma come modelli culturali tuttora dominanti ma in caduta, e sui quali si può e si deve lavorare

2. la quantificazione di queste problematiche può dare una misura precisa della loro entità, ma resta un’arma a doppio taglio. Ridurre ogni fenomeno infatti alla misura simbolica unica del denaro ci fa permanere in quella logica di consumo che attribuisce un prezzo a ogni cosa, riducendola a oggetto di mercato. E’ precisamente questa logica di oggettificazione dei soggetti -che siano donne o che siano bambine/i- quella che alimenta violenze e abusi.

L’esperienza del dolore -unica, soggettiva, irripetibile- non può essere ridotta a numeri. O meglio: può esserlo, ma si tratta di un approccio insidioso.

esperienze, Politica Novembre 4, 2013

Politica-Bostik: incollati alla poltrona

 

Flavia Perina la chiama “nevrosi del parlamentare”. Lei che parlamentare lo è stata, e dalle ultime elezioni non lo è più a causa dell’evaporazione del suo partito (Fli), si è riassestata nella sua vita: fa la giornalista free lance, è alquanto tosta e continua ad amare e seguire la politica. Ma ha visto da vicino la sindrome di chi, eletto nelle istituzioni, vive nel terrore di perdere la poltrona, per dirla in modo pop. Terrore che oggi ha raggiunto i livelli di guardia e dal quale la politica è fortemente condizionata: quello che conta è che il governo duri il più a lungo possibile per evitare di andare a nuove elezioni, con il rischio di non venire ricandidati. Una quota considerevole di parlamentari che rinuncia alla propria autonomia di giudizio e a rappresentare il suo elettorato per evitare di indispettire la nomenclatura di partito, che potrebbe decidere di non ricandidarli. Le ragioni personali pesano sempre e ovunque. Ma nella politica di oggi sembrano pesare ben oltre il livello fisiologico: la rappresentanza democratica coincide sempre più strettamente con la rappresentazione del proprio utile.

“Il fatto è che ormai nei partiti è una roulette russa” dice Perina. “Nel Pd molti veterani non potranno godere di ulteriori deroghe, e poi ci sono i miracolati delle primarie di Capodanno, entrati con una manciata di voti, che rischiano di tornaresene per sempre a casa. Nel Pdl, il “padrone” che, come se gestisse una sua azienda, potrebbe decidere di nominare una qualunque soubrette al posto tuo, senza doverti alcuna spiegazione. Il terrore di non rientrare è trasversale alle larghe intese. E colpisce anche il Movimento 5 Stelle”.

Anche se questo fa in qualche modo parte del patto a 5 stelle: negli incarichi si ruota, sai che potresti durare giusto una legislatura…

“Sì. Ma anche per loro la carne è debole. Anche qui pesa l’istinto di autoconservazione. Sai che sei entrato con un consenso occasionale e contingente. Che non ci sarà il secondo giro e che non diventerai mai un professionista della politica”.

E questo è un male? Per loro sì, certo: ma per noi?

“Be’, alcuni cominciano a “studiare” da ragazzini per fare questa carriera: prima consiglieri di zona, poi in comune, poi tenti il salto regionale e nazionale. Una costruzione faticosa”.

Come per una carriera professionale. Salvo che poi in questo modo vengono eletti quelli che hanno “timbrato”, i padroncini delle tessere, piccoli funzionari, burocrati. E mai i talenti che magari non hanno frequentato circoli e sezioni, ma che servirebbero davvero al Paese. Raro che i due profili coincidano.

Qui c’entra la crisi dei partiti. Una volta c’era una forte attività di scouting nel senso nobile del termine: per riequilibrare l’eccesso di nomine interne e per evitare un andamento asfittico si cooptavano esterni talentuosi. Intellettuali, professionisti, imprenditori che portavano la loro visione e il loro valore aggiunto, e magari anche la scomodità di un po’ di eresia e di anticonformismo, che al partito facevano bene. Poi è intervenuto un mutamento genetico profondo, connesso al racconto berlusconiano-televisivo: pochi esterni e tutti mediatici, a destra come a sinistra. Per lo più gente passata in tv: le veline candidate in Europa, previo corso accelerato di politica, ma anche figure come quelle della sportiva Valentina Vezzali, deputata di Scelta Civica. La quale, mi dicono, alla Camera si vede molto poco…”.

Tornando al tema, un Parlamento in cui le logiche autoconservative sono prevalenti: che soluzioni vedi?

“Una legge elettorale basata su piccoli collegi e con doppio turno, sul modello della legge per i sindaci. Questo obbliga i partiti a candidare gente presentabile, con una biografia riconosciuta dalla comunità locale, bypassando le logiche mediatiche. Si tratta di rivalutare le reputazioni. Così oltretutto si potrebbe anche ridurre la nevrosi del parlamentare: se lavori bene, la tua comunità ti riconfermerà e un secondo giro lo farai”.

E stabilire un limite del numero di mandati? E magari pure degli emolumenti?

“Il limite dei mandati potrebbe anche essere un aiuto psicologico: sai che in ogni caso dopo il secondo vai a casa, e sei più libero. Quanto agli stipendi, sono meno d’accordo”.

Ricordaci quanto porta a casa un parlamentare.

9-10 mila euro netti. Lavoro ben pagato, certo. Ma se lo fai bene è molto impegnativo e comporta spese cospicue. E se guadagni abbastanza puoi permetterti di dedicarti solo a quello, evitando conflitti di interesse”.

Da europarlamentare Alex Langer non volle una lira in più rispetto al suo stipendio di insegnante.

“Scelta nobilissima. A Roma gli assessori prendono 2500 euro. Ma quale professionista di valore si sentirebbe di rinunciare ai suoi introiti e di mettere in discussione la sua reputazione per meno di quella cifra? Mentre per uno che per esempio fa l’impegato e prende 2000 euro il salto è enorme: proprio questa tipologia di parlamentari è la più soggetta a tentazioni, disponibile a ogni compromesso e salto della quaglia in cambio di una garanzia di permanenza”.

Ma perché questa “addiction”? Perché non essere rieletti è talmente devastante? Ci sono molte cose da fare a questo mondo. Anche la politica, da non eletti.

“La droga dello stare in quei posti è lo status. Una cosa che può dare alla testa, specie se sei un neofita. Il 90 per cento dei parlamentari non vive nelle metropoli, non sta a Milano o a Roma, vive in piccole realtà. Ti chiamano onorevole, ti senti un principe. Ho visto neo-eletti rifarsi daccapo il guardaroba. E’ una nuova nascita nella casta”.

Fuoruscirne, quindi, è una pre-morte… Tu però sei ancora viva, mi pare.

“Dirigevo un giornale. Non ho perso solo il posto da parlamentare, ho perso anche quella direzione per volontà di Berlusconi, e la perdita più grande è stata questa. Ma continuo a seguire la politica e a farla, da un’altra posizione. Dicevo che è più che altro una questione di status, perché poi il potere del parlamentare è pressoché nullo. Sia il Pd sia il Pdl hanno rinunciato da tempo all’idea di vincere. L’idea definitivamente introiettata è quella di una politica che gestisca consociativamente gli interessi. Qualcuno l’ha chiamata la politica del Gps, ovvero del posizionamento: non sei lì per la polis, per portare temi, per rappresentare i cittadini. Il gioco è tutto interno, stretto sulle alleanze e sugli accomodamenti tra schieramenti. Il consociativismo al suo massimo livello“.

 

 

esperienze, Politica Ottobre 2, 2013

Il Perdente

In questo Paese le cose vanno così: chi ha molto vinto deve continuare a vincere, perché appena incespica verrà sbranato. E da quegli stessi che di quel potere hanno goduto. Le famose monetine contro Craxi all’hotel Raphael, per non ricordare di peggio: la “scomparsa” delle camicie nere il 26 aprile 1945. E’ questa l’altra faccia dello strapotere: una volta che perdi sei finito, e continui a inanellare sconfitte, ti arriva addosso di tutto. Guardate qui.

Probabilmente è la prima volta negli ultimi vent’anni che B. appare davvero come un perdente, costretto a un triplo salto mortale con voltafaccia carpiato nel giro di poche ore e ad annunciare in extremis il suo sostegno al governo Letta (qui suo discorso al Senato). Perdente oggi molto più che il giorno della sentenza Mediaset. I suoi l’hanno mollato, più per senso di sopravvivenza che per senso di responsabilità. Quei pochi che gli resistono intorno se la daranno a gambe a breve: il tempo di constatare che da mangiare non ce n’è più.

Un B. perdente non è più B. E’ una specie di ossimoro, e senza ritorno. Sarei pronta a scommettere che da domani i sondaggi registreranno una caduta di consensi. Perché se non B. vince, a che cosa serve?

In questo senso, quella di oggi è davvero una giornata storica. Di quelle che dovrebbero rallegrare chi B. non l’ha mai sostenuto. E invece troppo allegri, chissà perché, non si riesce a essere.

esperienze, italia, Politica Settembre 12, 2013

Prendere tempo, rubarci tempo

Nel nostro Paese stanco la perdita di tempo -i tempi biblici e ingiusti della giustizia, quelli spaventosi della burocrazia in ogni sua forma, il dottore perennemente fuori stanza, le ore passate con le musichette dei centralini degli uffici pubblici, e così via- è il terreno di coltura di ogni corruzione e di ogni malaffare. Quella perdita di tempo ruba il tempo delle nostre vite, spegne ogni slancio e ogni entusiasmo, annichilisce ogni volontà d’impresa, ci impedisce quel salto libero -la natura del nostro popolo è positiva e festante- che ci porterebbe fuori dall’emergenza continua.

Lo spettacolo del “prendere tempo” -il continuo rinvio del voto in Giunta per decidere sulla decadenza del condannato Berlusconi, quando a poche centinaia di chilometri di qui ci sono politici che si dimettono immediatamente per aver copiato la tesi- è del tutto conforme a questa logica, la consolida, e dà l’idea di qualcosa che sta nuovamente capitando ai nostri danni: di trattative per nulla chiare, di tavoli “sporchi”, ricatti, gattopardismi, do ut des, manfrine, tradimenti, veleni, porcherie, franchi tiratori, voltagabbana…

A qualcosa, questo prendere tempo, deve pur servire. Per i cittadini onesti e in buona fede è l’ennesimo furto di vita e di fiducia. Perché in questo tempo rubato si potrebbe fare molto per il tempo di tutti noi, per quello dei nostri figli, per il lavoro, per la casa, per la salute, per la scuola, per far rinascere un Paese.

La Storia, certo, è fatta anche di queste cose. Da noi, prevalentemente di queste cose. Ma la perdita di tempo della Giunta comporta un prezzo altissimo in termini di fiducia, rinvia sine die il giorno della ripartenza, obbliga tutti a uno stallo psicologico e morale che sfibra ogni certezza e ogni resilienza, provoca nausea esistenziale e politica, induce un ulteriore e generale allentamento dei freni inibitori, sdogana i comportamenti illeciti, deprime ogni buona volontà.

Questi due giorni, cinque, o quindici giorni di rinvio -il tempo come sappiamo è relativo- ci stanno facendo male come anni di stallo

Chi sta tirando il freno a mano si sta assumendo una grave responsabilità.

esperienze, Politica Agosto 2, 2013

#Sentenzamediaset: gli gnorri del Pd

Giusto due cose sulla #sentenzamediaset:

1. a stretto giro è giunto il breve comunicato* -non obbligatorio- del presidente Napolitano, che da un lato ribadisce il rispetto per la magistratura, ma dall’altro parla di riforma della giustizia. Come se si trattasse della prima emergenza che il governo (altro che cadere!) ha da affrontare: e perché? Come se dalla sentenza si deducesse come prima cosa che la giustizia ha da essere riformata. Un paio d’ore dopo, il videomessaggio in cui il condannato Berlusconi, dopo aver attaccato durissimamente la magistratura, annuncia che non mollerà, che resterà in campo, che rilancerà Forza Italia. E anche lui, come Napolitano, mette al primo posto in agenda la riforma della giustizia. Convergenze parallele.

2. giro un po’ di bacheche di deputati e senatori Pd e il silenzio è assordante. Fischiettando si parla d’altro, dal femminicidio all’anniversario della strage di Bologna, fanno tutti gli gnorri, a parte -al solito- Civati, Puppato e pochi altri. Stanno tutti lì muti e aggrappati disperatamente al seggiolino, terrorizzati dal fatto di dover trarre le conseguenze di ciò che è avvenuto e di dover lasciare “la Casa”. Parla solo chi, essendo dotato di personalità politica, avendo un progetto, essendo riconosciuto dai potenziali futuri elettori, sa che in caso di elezioni nella “Casa” avrebbe chance di rientrare. Tutti gli altri, ovvero i veterani che stavolta non potrebbero più godere di deroghe e dovrebbero salutare, i nominati -comprese mogli, cugini e famigli vari-, i miracolati delle Parlamentarie di Capodanno e i beneficiati dal Porcellum, che rischierebbero di tornare per sempre al lavoro e allo stipendio di prima, cercano di non farsi notare, in attesa che passi l’onda: vuoi che per caso qualcuno dei loro elettori gli chieda di esprimersi contro l’insostenibilità del governo a larghe intese? (ma no, se resistono è solo “per il bene del Paese”)

L’egoismo di Berlusconi è mostruoso, niente da dire. Ma va valutato anche il peso dei mille egoismi di quelli che mettono il loro minuscolo bene davanti a quello del Paese, e i problemi del loro bilancio davanti a quelli del bilancio dello Stato. Trattasi di fattore umano, mai del tutto eliminabile. La cui incidenza tuttavia è direttamente proporzionale alla mediocrità: insomma, se sei capitato lì semplicemente per un colpo di c..o, sarai disposto a tutto pur di perpetuarlo. Per questo, come si diceva ieri, la primissima cosa da fare, altro che riforma della giustizia, sarebbe l’abolizione del Porcellum. Il che almeno in linea teorica farebbe crescere la possibilità che lì ci vada gente di valore, e non, viceversa, gente che acquisisce valore solo per il fatto di essere fortunosamente capitata lì. La conventio dei mediocri ha una forza terribile.

* ecco il comunicato del Presidente Napolitano: “La strada maestra da seguire è sempre stata quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura, che è chiamata a indagare e giudicare in piena autonomia e indipendenza alla luce di principi costituzionali e secondo le procedure di legge. In questa occasione attorno al processo in Cassazione per il caso Mediaset e all’attesa della sentenza, il clima è stato più rispettoso e disteso che in occasione di altri procedimenti in cui era coinvolto l’on. Berlusconi. E penso che ciò sia stato positivo per tutti. Ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all’amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso. Per uscire dalla crisi in cui si trova e per darsi una nuova prospettiva di sviluppo, il paese ha bisogno di ritrovare serenità e coesione su temi istituzionali di cruciale importanza che lo hanno visto per troppi anni aspramente diviso e impotente a riformarsi“.

 

 

esperienze Luglio 28, 2013

Se potessimo parlare del Diavolo

Se potessimo parlare del Diavolo -colui che si mette di traverso- come si faceva una volta, quando l’umanità era bambina, sarebbe tutto molto più semplice. Il linguaggio allegorico facilitava molto la comprensione.

Vedo e sento dappertutto un dire male, degli altri, di noi stessi. Di quello che non c’è, che non funziona, che va storto, che causa dolore. E quel poco di bene che c’è, che arranca su un piano scivoloso, ogni volta riprecipita daccapo nell’oscurità, con il senso che tutta quella fatica sia stata e sarà sempre inutile.

Se potessimo parlare di Dio, come cominciò a fare a un certo punto Etty Hillesum prima di finire ad Auschwitz, dicendo che se ne doveva “salvare un pezzetto dentro di noi“, perché lui ha bisogno del nostro aiuto, la cosa la capirebbe anche un bambino, anzi soprattutto i bambini, che sono puri di cuore.

A chi giova, questo continuo, ossessivo, meticoloso lavoro di demolizione di ogni cosa? Perché crediamo di poter edificare e di essere dalla parte del giusto soltanto distruggendo e facendo una zelante propaganda al male?

Giova solo al male, che si prende tutto lo spazio e nasconde il bene piccolo e tremulo. E invece dovremmo saperlo, dovremmo averlo definitivamente capito che Dio non molla.

Diamogli una mano.

 

esperienze, salute Luglio 2, 2013

Un aborto terapeutico

Mi scrive “Mamma di briciolina”, e qui pubblico il racconto della complessa e dolorosa esperienza di una donna, che prova il desiderio di condividerla. 

Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai.

Quattro mesi fa ho subito un aborto terapeutico alla 19a settimana. Il mio bambino aveva una gravissima malformazione cardiaca incompatibile con la vita.
Non voglio raccontarvi lo strazio dei mesi precedenti, l’immenso dolore dei momenti precedenti e di quelli successivi. Vi vorrei raccontare del meraviglioso supporto offerto dai medici che lungo la strada abbiamo incontrato e che ci hanno aiutato a vivere senza ulteriori ostacoli le ultime settimane con nostro figlio. All’ospedale Sacco, al Buzzi, alla Mangiagalli e al policlinico di San Donato abbiamo trovato medici con alti livelli di specializzazione che hanno saputo fare con attenzione tutte le valutazioni di un caso estremamente complesso come il nostro, ma soprattutto hanno seguito con cura e premura ogni nostra visita e la crescita della creatura che avevo in grembo. Io ringrazio il cielo per tutto il personale ospedaliero che abbiamo incontrato:  i dottori, le infermiere e soprattutto l’ostetrica del Sacco che ha accolto mio figlio tra le sue mani e gli ha dato l’ultimo saluto.

Abbiamo scoperto che nostro figlio aveva una “complessa malformazione cardiaca” molto presto, alla 15 settimana. Sono stati i medici del Sacco a fare la prima valutazione. Ci hanno ricordato che la legge ci consentiva “di fare le nostre scelte secondo coscienza”. Abbiamo aspettato alcune settimane, per valutare la gravità della malformazione. In tanta tristezza nasceva in me una forza incredibile. Una forza di difendere questa vita con i denti stretti, a tutti i costi. Non mi importava se nostro figlio non sarebbe mai stato un campione olimpico, se non avrebbe mai potuto fare i viaggi con lo zaino in spalla e tante cose. Io volevo difendere questa vita a tutti i costi. Volevo dargli una vita. Non mi interessava la mia qualità di  vita, non mi importava di soffrire. Volevo lui vivesse. Nell’attesa ho incominciato a sentirlo muoversi. Mi sembrava un segno. Mi sembrava che fosse forte. Ma rimasi da sola a pensarla così. Nessuno ci credeva più. Anche il suo papà aveva cominciato a  gettare la spugna. E io invece ballavo di nascosto con lui, prendevo la Folina, mi alimentavo bene, mi accarezzavo la pancia, gli parlavo, lo proteggevo.
Abbiamo fatto l’amniocentesi al Sacco perché i medici temevano ci fosse un’alterazione cromosomica. Ma con il tempo, man mano che il cuore del nostro bambino diventava più grande e le ecografie più nette, la situazione si complicava. La speranza  cominciava a svanire. Siamo stati al Buzzi, e poi al policlinico di San Donato. Ringrazio tutti i medici che mi hanno visitata. Quei  medici che ci hanno accompagnato, che ci hanno accolto e che hanno risposto a tutte le nostre domande. Ci hanno chiamati per nome, e ci hanno aiutato a fare la scelta che a noi sembrava più giusta. Ci hanno informato senza nasconderci nulla, ma hanno messo cuore in ogni parola che ci hanno consegnato.
Abbiamo fatto tutte le visite necessarie, gratuitamente, attraverso il servizio sanitario, senza aspettare più di 48 ore. Dentro e fuori dagli ospedali di Milano.
Alla 18 settimana un’ecografia più nitida squarciò quella parvenza di felicità:  non solo la parte destra del cuore non era cresciuta, ma anche la parte sinistra aveva un difetto e l’arco aortico era interrotto. Malformazione incompatibile con la vita. “Ineluttabile” è stato l’ultimo aggettivo che ho memorizzato prima di scegliere. E poi sono arrivati giorni di febbre altissima e digiuno. Giorni bui, giorni di assenza. Fino al ricovero in ospedale. Mi hanno indotto un parto. Un parto vero. Chiesi di essere stordita. Mi diedero la morfina. Ma non fu abbastanza. Non abbastanza per non essere lucida. A un’ostetrica devo molto, la ringrazierò per sempre per avere atteso che calmassi il mio pianto prima di farmi spingere. Per avermi aiutata, per avermi protetta, per avermi detto quando chiudere gli occhi. Come volevo io.

Il giorno più brutto è stato il primo risveglio a casa, senza pancia, e senza di lui. Tutte quelle attenzioni alimentari e nel muovermi erano inutili. Ero magrissima, uno scheletro, senza forza di camminare. Partorire un figlio alla 19 settimana di gravidanza è una cosa mostruosa.
Sono passati quattro mesi. Nostro figlio ci manca. Ma è una presenza più dolce. Ho capito che il mio amore son sarebbe stato sufficiente a far battere quel cuore fuori di me. Fuori da me non avrebbe respirato. Mi sono attaccata al suo papà come fosse il mio respiratore.
Ora ci segue una genetista della Mangiagalli. Ci ha aiutato a capire, ci ha informato sul nostro futuro, con un amore e un attenzione che a volte non si trovano nemmeno in un amico.
Non sono arrabbiata con nessuno. Nessun discorso sull’ingiustizia: implicherebbe una colpa, un giudice e un condannato. Non è così.  La gravidanza non è meritocratica.

Mio figlio per me è una presenza costante. Una cicatrice sulla pelle. Sarebbero mancate poche settimane e l’avrei conosciuto. L’ avrei stretto tra le mie braccia, l’avrei posato sul mio petto, avrei chiuso il mio dito tra le sue mani. Lo immagino con gli occhi azzurri del suo papà. E a volte, quando lo guardo, mi sembra di guardare lui. E’ nei miei pensieri. Ogni giorno, ogni momento. Occupa tutta la mia testa, i miei pensieri, i miei sogni, così come prima occupava il mio corpo.

Sembrerà assurdo, ma ci sono giorni in cui sono felice. Felice di quello che ho provato, felice di quello che ho ricevuto dalla vita. Dell’amore che ho respirato. Per aver ballato, camminato, preso il treno, fatto yoga con lui.  Mi sento ancora fortunata per essere stata ed essere ancora mamma. Sono ancora la sua mamma anche se non l’abbraccerò mai. Ho ancora il suo papà al mio fianco. La radice della vita insieme a me. Guardo i bimbi, le pance delle amiche che crescono e penso “che bella la vita, che bello essere generatrici di vita”.
La natura ci chiede di aspettare, e non credo sia a torto. Il mio corpo sanguina ancora. E i miei occhi sono ancora pieni di lacrime”.

economics, esperienze, Politica Giugno 30, 2013

L’Italia sepolta a Pompei

“Scuorno!”, direbbero a Napoli, che sta lì giusto a pochi chilometri da Pompei. Sento personalmente la vergogna e l’umiliazione per la reprimenda in qualche modo provvidenziale dell’Unesco (leggere qui) che ci intima di trovare soluzioni entro la fine dell’anno allo stato di abbandono di quello stupefacente sito. Un richiamo fortemente simbolico, al quale ci dovremmo aggrappare come a una zattera di salvataggio.

Qualche settimana fa raccontavo della chiesa rupestre di Piedigrotta a Pizzo Calabro, gioiello seicentesco di arte votiva affacciato su una piccola baia dalle acque turchesi, edificata a celebrare il miracolo di un naufragio scampato. Scavata nel tufo dorato, la navata centrale dai soffitti affrescati, le cappelle laterali, le statue che la popolano fittamente come stalagmiti dalle sembianze umane, scolpite da Angelo Barone e poi dal figlio e dal nipote. Ebbene, durante la visita avrei potuto portarmi via quello che volevo: un frammento di affresco, un pezzo di statua o una intera, il tufo è leggero. O farmi prendere da un acting out iconoclasta. Il custode-bigliettaio non c’era. Se ne stava tranquillamente al bar, un centinaio di metri sopra.

Poco più a Sud, in una sala del Consiglio Regionale della Calabria, giacciono da tre anni i Bronzi di Riace, sdraiati su catafalchi come malati terminali, malamente esposti insieme ad altri preziosissimi reperti restituiti dal mare e dal tempo. A quanto pare non hanno una sala dove rimetterli in piedi. Vorrei rapirli di notte e metterli in mostra a casa mia. E chissà quante altre meraviglie ignorate, tra Pizzo e Reggio, e nel resto della Penisola, quante cantine e quante soffitte piene di tesori accatastati.

Io non me lo dimentico, no, il progetto scellerato di una discarica contigua a Villa Adriana (era appena ieri, governo Monti: salvati giusto in tempo dall’indignazione del mondo). E il fatto che gli investimenti per la cultura sono calati dal 39% al 19% del Pil nel giro di una decina d’anni.

Stiamo andando rovinosamente contromano. Le rose sono il nostro pane. La bellezza e la qualità per noi sono tutto, sono il lavoro, il nostro new deal, il futuro, la felicità, la salvezza. Siamo il super-brand. Siamo il posto del mondo in cui tutti vorrebbero vivere, anche a costo di doversela vedere come capita ogni giorno a noi con la corruzione, il gigantismo burocratico, la non-certezza del diritto, il costo folle dell’energia etc. etc. E tutti quegli osservatori internazionali che continuano a ripeterlo: è la bellezza che potrebbe fare dell’Italia la prima economia in Europa.

Sepolti a Pompei ci siamo noi, soffocati dalla lava della cattiva politica. Quei Bronzi ammalati e legati al catafalco siamo noi. Dalla politica non aspettiamoci niente. La politica, come sempre, arriverà per ultima e di malavoglia. La politica, destra e sinistra -il partito trasversale del cemento-  il nostro territorio, le nostre bellezze, li hanno solo sfruttati, sfregiati e devastati per farci affari. La cosa importante è che lo diciamo a noi stessi e ai nostri figli, e che ce ne convinciamo profondamente, fino a trasformarci, e a cambiare il nostro sguardo e i nostri gesti: la bellezza salverà quel pezzetto di mondo che siamo.

E’ questo il compito che ci è stato assegnato: testimoni del qualis contro la logica rovinosa del quantum.

E’ questa la lotta che c’è da fare. Non perdiamo altro tempo.

I Bronzi di Riace, sdraiati da più di 3 anni in una sala del Consiglio Regionale a Reggio Calabria. I Bronzi siamo noi!