Browsing Tag

sindaco

Politica Gennaio 4, 2016

Sapessi com’è strano svegliarsi l’8 febbraio a Milano

Dopo un’estenuante serie di preliminari, le primarie milanesi del centrosinistra (più Pd che altro) sono entrate nel vivo.

Il gioco tra i tre principali contendenti (Francesca Balzani, Pierfrancesco Majorino, Giuseppe Sala) non è proprio all’insegna del fairplay. Balzani entra in campo baldanzosamente, ostenta da subito un parterre de reine, chiede perentoria al collega Majorino candidato da tempo di mollare il colpo, porta a casa un bel picche, e al momento arranca un po’, affaticata dalla scarsa notorietà, dai troppi appelli eccellenti in suo favore e dall’accusa di salottismo.

Majorino sembra ringalluzzito, campagna molto social e luogocomunista, esagera con la promessa un po’ molto pacchiana di un assessore Lgbt –quei voti gli servono, vuole perdere bene-, sostanzialmente è raggiante perché Giuseppe Sala, il probabilissimo vincitore, lo omaggia riconoscendogli una sensibilità sociale di cui lui difetta. Leggi: tranquillo, come minimo ti rifaccio assessore. In fondo è quello che, sparando alto, l’abile Majorino sperava di portare a casa. Qualcuno grida scandalosamente al ticket occulto.

Quanto a Sala, asso pigliatutto, campione del Partito-Expo-Nazione, entusiasma perfino certe furbette assessore di Sel, Cristina Tajani e Daniela Benelli: le idee non si mangiano. Piace a Cielle, a Ncd, a Scelta Civica (Scelta Civica????) e a un bel pezzo del centrodestra, orientato a candidare un uomo di paglia per non dare troppo disturbo all’uomo che garantirà un po’ tutti. E si comincia a intravedere la cospicua fila dei saltatori sul carro dell’ultim’ora. L’impatto mediatico dell’ex-ad Expo, oltretutto, è sorprendente: chi tra i suoi antagonisti sperava in un’immagine scostante da manager anglofono ha dovuto ricredersi. L’uomo ha la concretezza del gran lombardo, dà del tu all’interlocutore, non si perde in chiacchiere e promesse volatili, punta dritto al tema delle periferie -vulnus della gestione Pisapia- dove intende radicare il suo successo, ha quella faccia un po’ francese da sindaco di Milano. Forse è tutta fuffa, ma presentata bene. In breve: per i competitor un osso durissimo.

A meno di miracoli sempre possibili o di fattori esogeni imprevisti, tipo irruzioni della magistratura, l’8 febbraio, il giorno dopo le primarie, Milano si sveglierà di fronte alla seguente scena politica: un candidato centrista (Sala), un altro candidato centrista (Passera), un candidatuccio di centro destra (?), e la signora Bedori, carneade 5 Stelle, che dal momento della sua candidatura è totalmente sparita dai radar.

Il popolo arancione, rosso, rosa e verde si ritroverà desolatamente alla deriva, anche e soprattutto a causa di una partita condotta davvero malissimo dal sindaco uscente. Un popolo frantumato tra una mesta realpolitik, un orgoglioso aventino e la tentazione 5 Stelle che a Milano non è mai andata oltre la protesta pre-politica. A meno che, ed è la variabile su cui tenere lo sguardo, a questo popolo non venga offerta a sorpresa un’alternativa, un/a candidato/a che potrebbe puntare a replicare l’exploit ligure, quel 10 per cento guadagnato dal candidato “civatiano” Pastorino, o perfino bypassarlo se la proposta sarà sufficientemente suggestiva.

Del resto nemmeno Renzi può pretendere che un bel pezzo di Milano, quello che ha dato carne e sangue all’anomalia pisapiana, a questo punto si dissolva come neve al sole, parola turna indré, come si dice da queste parti. Anche perché questa gente, altro che indré, ha l’ambizione di andare avanti.

 

 

bellezza, pubblicità Dicembre 21, 2015

Milano, cercasi programma. Questo -su periferie e città metropolitana- è il mio

Gabriele Basilico: Milano, quartiere Isola, 1978

Qui Milano. Visto che downtown è tutto un Risiko di alleanze e contro-alleanze, candidature e controcandidature, chi sta con chi, a casa di quale candidato ci si vede oggi, ma di programmi, ovvero di che cosa c’è da fare in questa città non sta ancora parlando nessuno, rompo gli indugi e ne parlo io, che non sono candidata a niente. Così, magari li ispiro.

Quello di cui voglio parlare è il tema periferie-città metropolitana. A cominciare dal dire che forse sulla città metropolitana si rischia un eccesso di burocratismo che di sicuro non farà affezionare la gente al processo e non la renderà partecipe dell’impresa. E il fatto di vedersi passare la cosa sopra la testa e calare le cose dall’alto non è di buon auspicio perché la cosa funzioni. Quindi sforziamoci di deburocratizzare il processo, di renderlo più amoroso.

Si tratterà di una bella rivoluzione. E quelle che oggi sono intese come le periferie diventeranno nuovi centri, luoghi-ponte nel processo di costruzione della città metropolitana. Ponti non solo topografici, ma anche concettuali e sentimentali. Nuclei della città nuova, collocati nel punto di tensione tra la forza centripeta del centro storico e quella centrifuga dei comuni metropolitani. L’ultima rivoluzione di questo tipo –anche se non sono un’urbanista-  probabilmente è stata la progressiva annessione alla città dei borghi e dei cosiddetti Corpi Santi, tra fine 800 e primi 900. Lì qualcosa è andato bene e qualcosa male. Nella maglia sono rimasti dei buchi che si sono riempiti di abbandono e di nulla.

La prima questione da impostare è quella ambientale. Viviamo nell’area più inquinata d’Europa, una specie di Pechino. Se la città metropolitana è il futuro, l’aria avvelenata è il presente. Tra i molti gap del nostro bizzarro Paese c’è anche questo: tra l’aria più pura d’Europa (Sila) e quella più impura (pianura Padana). Va posta da subito la massima attenzione a una politica integrata dei trasporti: all’efficienza della mobilità cittadina oggi si contrappone l’incredibile fatica del pendolarismo extraurbano, con la fiumana di auto in entrata ogni mattina. Ma si deve pensare anche alla riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, alla salvaguardia e una progettazione di nuovi polmoni verdi. La questione ambientale è del resto strettamente connessa anche al tema del lavoro e delle nuove povertà: la redditività degli investimenti pubblici per la riqualificazione energetica e per la salvaguardia del territorio è notevolmente superiore a quella di qualunque “mancia” fiscale a pioggia.

Nell’ambito della conferenza sul clima di Parigi, Naomi Klein ha introdotto un bellissimo concetto-paradigma, quello di “democrazia energetica”. Non lo intendo solo dal punto di vista delle fonti di energia, penso che possa essere suggestivo anche per molte altre questioni, dal lavoro al modello di città che andremo a costruire.

Tornando alle cosiddette periferie: considerato il ruolo centrale che assumeranno nel processo di costruzione della città metropolitana, il passaggio preliminare a ogni soluzione urbanistica è l’autoconsapevolezza, il racconto che ogni quartiere fa di se stesso: narrazione da cui traspare il genius loci, il talento inespresso, la vocazione di ogni luogo. Ogni quartiere dovrebbe poter raccontare la propria storia, il proprio unicum, il proprio potenziale. Per partire, più che dall’ elencazione dei problemi, dall’autorappresentazione del proprio meglio -ogni quartiere ne ha uno- e per agevolarne la fioritura, assecondandone la vocazione e sostenendone il programma “genetico”. Un lavoro antropologico –ascoltare chi vive in quei luoghi, raccoglierne la memoria e i desideri- prima ancora che politico.

Come dice Italo Calvino, “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”.

Niente può essere calato dall’alto. E’ chi vive lì che ti deve far vedere il suo posto bello. Non si tratta di invitare sussiegosamente a una partecipazione civica, ma di vero protagonismo nei processi. Paradigmatico, a questo riguardo, un caso come quello dei Quartieri Spagnoli di Napoli, che noi vediamo come il massimo del degrado urbano, ma la cui autorappresentazione spesso è molto diversa. Penso al pride di una signora affacciata da un basso che mi ha detto: “A Napoli io non ci vivrei mai”. Che cosa capita lì di buono che noi non sappiamo vedere? E nella stessa logica, dov’è il buono di ognuna delle nostre periferie? Ogni luogo ha una sua storia da raccontare, e si tratta di fargliela raccontare. Decenni di quantum, di necroeconomia, di case fatte su in fretta e furia e con il cartone in una logica di profitto sono la crosta che dobbiamo scrostare, la concrezione che dobbiamo demolire.

Si tratta di fuoruscire da una logica “centripeta”, non sentendosi più gli esclusi dal centro storico ma gli inclusi nel centro dei propri contesti. Tante nuove aree C. Saper fare dei propri luoghi di vita posti dove la gente vuole venire perché lì trova qualcosa che non troverà da nessun’altra parte della città, che dobbiamo immaginare strutturata ad arcipelago, ogni isola con la sua specificità. Alcuni processi sono già in atto, si tratta di saperli leggere, rappresentare e facilitare. Per esempio l’area intorno al naviglio Martesana, fortemente strutturata sulla memoria di una storia condivisa e sulla presenza del corso d’acqua, sta spontaneamente diventando una cittadella dello sport, con l’alzaia popolata di maratoneti e ciclisti che arrivano da tutta la città, vocazione che va considerata e valorizzata.

Il linguaggio è importantissimo perché è il primo gesto propriamente umano. Da molti anni insisto nel dire che non si dovrebbe più parlare di periferie. Bisognerebbe buttare via questo termine e sostituirlo con qualcos’altro. Trovare il nome della cosa significa farla esistere. Se il nome fosse già stato trovato, probabilmente oggi quelle che chiamiamo periferie sarebbero in una situazione migliore. Se ci si fosse già mossi in una prospettiva policentrica e non area C-centrica, la questione della città metropolitana sarebbe in gran parte impostata. Vivendo in periferia devo purtroppo dire che negli ultimi 5 anni la situazione non è affatto migliorata, si è anzi sperimentato un certo abbandono. Forse non l’assoluta miopia borghese della sindaca Moratti, che agli abitanti di Greco, devastati dal fracasso delle ferrovie, disse: “E chi gli ha detto di andare ad abitare proprio lì?”. Ma anche con la nuova giunta nella migliore delle ipotesi abbiamo visto un certo paternalismo che peraltro non ha prodotto risultati apprezzabili.

Quando penso alle periferie non mi riferisco a buchi neri tipo via Gola o ad altri complessi popolari che sono diventate fortini inespugnabili della criminalità organizzata. E’ sbagliato pensare di impostare il lavoro su situazioni limite. Sto parlando dei luoghi di vita della gran parte di noi e dei nostri concittadini: nelle cosiddette periferie vive più o meno dignitosamente il 60 per cento dei cittadini milanesi. Tra lo splendore di Porta Nuova e l’orrore di via Gola c’è la parte più importante delle cose da dire e da fare.

La politica ha molta difficoltà a prendere atto del fatto che nelle cosiddette periferie non solo c’è il futuro, ma anche la parte più interessante del nostro presente. Per esempio: mi ha molto –negativamente- colpito una cosa che ha detto l’ex-candidato sindaco Emanuele Fiano: che la mente della città, il suo motore innovativo sta in centro, e poi fuori c’è il corpaccione dei luoghi dove la gente vive, su cui questa mente deve applicarsi. E’ concettualmente molto sbagliato, perché se c’è un luogo da cui può nascere e dove sono sempre nate innovazione, cultura, anche nuova cultura politica, è proprio la cosiddetta periferia. Spesso le periferie urbane sono luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità.

Mi viene in mente una cosa che anni fa ho sentito dire da Vivienne Westwood, strepitosa designer inglese madre del punk, il cui segno ha influenzato fortissimamente gli ultimi  decenni. Lei è nata poverissima nel villaggio di Tintwistle, Derbyshire, proprio non avevano da mangiare, e ha imparato il suo lavoro di stilista dalla madre che le cuciva quattro stracci perché non c’erano soldi per comprare i vestiti. Poi approda a Londra e va a vivere in non so quale zona strapopolare. Intanto si afferma come stilista, la sua griffe comincia a diventare importante e tutti si aspettano che lei cambi casa per stabilirsi a Kensington o in qualche altro quartiere posh. Ma lei dice che non si sposterebbe mai da dove abita, perché perderebbe le sue radici, la sua creatività, il suo desiderio, e non combinerebbe più niente di buono, non farebbe nemmeno più soldi, niente di niente. Certo, essere nato e vivere in periferia aiuta molto a capire. L’architetto Renzo Piano, che al tema sta dedicando grande parte della sua recente riflessione professionale e politica, in periferia ci è nato e cresciuto.

Etty Hillesum dice che la bellezza è dappertutto. Lei ha saputo vederla perfino nel campo di detenzione di Westerborck, prima di andare a morire ad Auschwitz, quindi la sua lezione è piuttosto importante. La bellezza è dappertutto e ha bisogno di noi che sappiamo vederla, trovargli un posto nel nostro cuore, ospitarla dentro di noi come una donna ospita un bambino nel suo grembo, e fargli molta pubblicità, senza lasciarci accecare dalla grande quantità di brutto e cattivo che vediamo intorno. E’ fin troppo facile trovare la bellezza dove è conclamata. Così non ci mettiamo al lavoro né politicamente né spiritualmente. Quando contempliamo qualcosa di bello, i Bronzi, la facciata policroma del Duomo di Firenze o una qualunque delle nostre molte meraviglie, dovremmo saper vedere non tanto il risultato consolidato quanto il fervore umano che l’ha prodotto e continua ad animarlo, che è la lotta del qualis contro il quantum, il massificato, il triste, il mortifero. Prima queste bellezze non c’erano e poi ci sono state. E’ proprio su quest’arco di tempo che corre tra il non esserci e l’esserci che dobbiamo porre la nostra attenzione.

Si tratta di cogliere il moto del desiderio: e il desiderio è la materia prima di cui le periferie abbondano.

Quanto alla mancanza di soldi: Edi Rama, artista albanese, primo ministro di quel Paese, prima è stato sindaco di Tirana. Riguardo a questo incarico, Edi Rama ha detto: “È il lavoro più eccitante del mondo, perché arrivare a inventare e a lottare per una buona causa di tutti i giorni. Essere il sindaco di Tirana è la più alta forma di conceptual art. È arte allo stato puro“. Trovatosi nel 2000 ad amministrare una città difficilissima, senza un piano edilizio, sconciata da un abusivismo arrogante spesso gestito dalla criminalità, Edi Rama ha demolito centinaia di edifici abusivi, piantato migliaia di alberi e ripristinato le strade: ma soprattutto ha riempito le case di colori. Le facciate di case, palazzi e uffici di colore grigio sovietico sono state dipinte di colori sgargianti. Gli spazi pubblici sono stati restituiti alla collettività e nello stesso tempo sono diventati una piattaforma di sperimentazione per artisti, un’installazione permanente; la città ha ripensato il modo di autorappresentarsi e rifondato la sua identità su nuovi principi. L’idea è stata la bellezza a costo quasi-zero per fare una nuova politica. Non si tratta di bilanci opulenti, che non ci sono più, né di mega-interventi magniloquenti e speculativi. Si tratta di saper lasciare segni di bellezza intorno ai quali si coagula vita. Catalizzatori vitali.

Lo dice bene Fulvio Irace, Storico dell’architettura e professore al Politecnico di Milano, si dovrebbe immaginare una sorta di “agopuntura urbana, che oppone alla visione dall’alto la percezione dei luoghi nella loro dinamica sociale e fisica: a innesti e tecniche di manipolazione minimali, capaci di stimolare il metabolismo urbano e produrre l’autorigenerazione della città e dei suoi spazi pubblici”.

Naturalmente a questo modo di vedere le cose molti potrebbero opporre la questione onnivora della sicurezza, il fatto che nelle periferie la priorità è questa, i ladri che ti entrano dalle finestre e i piccoli borghesi pistoleri, oltre alla difficoltà di convivenza con gli stranieri che si concentrano in quei quartieri (politica abitativa sbagliatissima). Va intanto detto che il nostro modello di integrazione non è certamente tra i peggiori. La microfisica delle relazioni quotidiane insieme alla nostra abitudine millenaria a essere zattera per tutte le etnie ci hanno risparmiato il peggio che vediamo nelle banlieu. Va comunque attentamente considerato il disagio di chi si ritrova a convivere con differenze che ti mettono in crisi, e di questi tempi possono anche farti paura. Il tema è molto vasto e per affrontarlo conviene attaccarsi al midollo dei leoni, in questo caso alle profetiche parole del mio amico Alexander Langer, che più di vent’anni fa ha compilato un Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica che dovremmo portarci tutti in tasca come vademecum.

Ma la cosa importante da dire è che tra il tema della sicurezza e quelli della vivibilità, della bellezza, della cura dei luoghi non c’è soluzione di continuità. Si tratta di un tutt’uno politico. Voi conoscerete la teoria delle finestre rotte: l’esistenza di una finestra rotta genera fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere altre finestre o un lampione e dando il via a una spirale di degrado e a problemi di socialità e di sicurezza.Se ne potrebbe controdedurre una teoria delle finestre in ordine: la cura, l’amore per il luogo in cui si vive, la migliore socialità che ne deriva, possono costituire un ottimo presidio contro l’insicurezza.

Se il brutto è contagioso, perché non dovrebbe esserlo il bello? La logica dei neuroni specchio, una delle più importanti scoperte delle neuroscienza, e oltretutto la scoperta di un italiano, Giacomo Rizzolatti, ha chiarito le basi dell’empatia. Non vale solo tra un individuo e l’altro: se io vedo un mio simile piangere si attivano i me gli stessi neuroni attivati nella persona che piange, permettendomi di condividere il suo sentimento. Vale anche per le relazioni con l’ambiente: se io vedo il bello si accende in me il bello, o più precisamente il bello-e-buono, il kalos kai agathos di cui parlavano i Greci, concetto modernissimo di una bellezza che è anche morale, a cui corrisponde quello di una bruttezza che è anche amorale e antisociale. Noi viviamo in un Paese in cui le bellezze naturali hanno prodotto per via emulativa la bellezza dei manufatti umani, e in modo virale: perché non dovremmo riconnetterci con la nostra anima profonda, in un moto di progresso che si volta a guardare indietro, alla nostra storia più autentica?

Nel controllo di vicinato, esperienza già praticata in vari comuni italiani, si opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui si conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Ma soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può quindi “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Si tratta quindi di far salire tra le priorità la cura, e di far scendere il tema della sicurezza come normalmente la intendiamo. Di dare valore alle comunità di cura che si oppongono alle comunità del rancore, come le chiama il sociologo Aldo Bonomi.

Ecco, nella nostra politica di tutta questa ricchezza di riflessione, di questa passione, di questa contemporaneità, di questo accumulo esplosivo di desiderio raramente c’è traccia: il disinteresse borghese è assoluto, nella migliore delle ipotesi l’approccio è paternalistico, da dame della carità che non dimenticano gli ultimi e pensano alle bibliotechine di quartiere.

Il nuovo sindaco, la nuova sindaca, non deve necessariamente essere uno o una brava a leggere i bilanci: per quello ci sono i ragionieri. Stiamo davvero esagerando l’importanza dei comparti contabili, ci stiamo rassegnando all’idea delle città-holding. Una città non è una holding. Una città è un luogo di relazioni umane, con i suoi aspetti contabili. Un buon sindaco non è prioritariamente un buon manager capace di governare il movimento degli affari. Un buon sindaco è prioritariamente qualcuno/a capace di intravedere il potenziale delle relazioni umane. Serve, come si dice spesso –ma poi non si fa mai- capacità di visione.

Come stiamo vedendo tutti gli schieramenti hanno fatto e fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. A Milano vive un sacco di gente, compresa tanta gente capace e competente. Eppure nomi faticano a saltare fuori. Ma in questa fatica di trovare “il nome” c’è qualcosa di buono e significativo: e cioè che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, qualche amico di famiglia, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.

La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).

Io credo che anche a Milano si dovrebbe fare questo: delineare i 3-4 grandi temi di intervento, anche e soprattutto in relazione al progetto della città metropolitana, coagulare intorno a ciascuno di questi temi un buon numero di cittadine e cittadini competenti, formare una grande squadra che si presenti alla città con la propria visione e le proprie soluzioni. E in questa grande squadra (che resterà tutta quanta operativa sul progetto) scegliere, come dicevo nella logica del primus inter pares, il candidato sindaco o sindaca e la possibile futura giunta. Questo sarebbe davvero un modo innovativo di procedere, ma al momento non ne vediamo traccia.

Vediamo solo nomi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

leadershit, Politica Dicembre 2, 2015

Elezioni amministrative: basta con l’uomo solo al comando. Fateci vedere la squadra

Linus, direttore di Radio Dj, è un tipo molto capace nel suo lavoro oltre che parecchio simpatico. A qualcuno del Pd milanese è venuta l’idea balzana di chiedergli di candidarsi alle primarie per la scelta del candidato sindaco. Non si sa bene a chi: di fronte al suo garbato rifiuto (“non sono all’altezza… la politica mi fa abbastanza impressione“) e alle ironie della rete, oggi tutti nascondono la mano. Un agnello sacrificale della società civile sarebbe molto utile per non dare l’idea che queste primarie sono primarie solo del Pd -e non del centrosinistra- e che Beppe Sala, commissario e ad di Expo, nei fatti non ha veri competitor. Un po’ di cortina fumogena. Peccato, anche stavolta non è andata.

C’è un fatto: tolto il caso di Beppe Sala, candidato unico del partito unico per la città unica etc etc, tutti gli schieramenti fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. La bizzarra operazione Linus si spiega anche così. A Milano vive un sacco di gente, e nel sacco c’è anche tanta gente capace e competente. Eppure nomi non ne saltano fuori.

La politica delle donne mi ha insegnato a interrogare gli ostacoli anziché cercare di dribblarli, e a scrutare anche nei vuoti e i silenzi: quando persistono, è perché lì c’è qualcosa di significativo e anche di buono da capire. In questo caso, nella fatica di trovare “il nome”, il buono è che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, le simpatie della moglie, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.

La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).

Ecco perché mi ritrovo perfettamente nell’impostazione suggerita da Francesco Rutelli, ex-sindaco di Roma: basta con l’uomo solo al comando,l’abbiamo già visto per carità. È giusto che il sindaco sia la guida, il direttore d’orchestra. Quella che è fallita è la solitudine del comando. Ed è per questo che a mio avviso che prima di andare a scegliere i candidati, o assieme a questa scelta, a Roma e nelle altre città si dovrà andare verso l’identificazione di progetti, ma anche e soprattutto di squadre di governo, di personalità, di competenze, perché la solitudine ha dimostrato di avere fallito“.

Se posso dire, una logica più femminile che maschile.

Politica Agosto 24, 2015

Milano: Fuori-Salone, Fuori-Expo e Fuori-Primarie

Tutti dicono che la parte più interessante del milanesissimo Salone del Mobile (bel nome da Fiera anni Sessanta) è il Fuori-Salone: eventi, performance, creatività in zona Savona-Tortona, Lambrate e così via.

Anche il Fuori-Expo avrebbe dovuto fare da controcanto creativo a Expo, ma non abbiamo visto quasi niente: peccato.

Più interessante potrebbe configurarsi il Fuori-Primarie (del centrosinistra per individuare il candidato sindaco).

Situazione: nessuno si assume la responsabilità di dire che le primarie non si faranno -come peraltro non si faranno nel centrodestra- ma serpeggia il terrore che possa vincerle un candidato debole, con scarse chance di fare fronte alla proposta del centrodestra, pronto al tutto per tutto pur di riprendersi Milano.

Per ora i candidati sono tre: Pierfrancesco Majorino, Emanuele Fiano, Roberto Caputo. Gli altri eventuali si muovono sottotraccia, e forse ci resteranno definitivamente. Per Matteo Renzi consegnare Milano al centrodestra (come è successo a Venezia) costituirebbe una debacle insanabile, il principio di una valanga: tutto fa pensare che dal cappello del premier, in accordo con il resto del centrosinistra, alla fine uscirà un notevole coniglio.

Ma sarà dura convincere i milanesi che è stato meglio evitare le primarie, e il coniglio potrebbe finire impallinato. Anche perché in questo caso si costituirebbe un interessante Fuori-Primarie, dove si muoverebbero candidati non di poco conto, aureolati del carisma dei “resistenti” al Candidato Unico. Fuori-Primarie che peraltro, come dice la parola stessa, potrebbe costituire uno spazio libero anche nel caso in cui le primarie si tenessero. 

L’eccitante partita nelle prossime settimane. Vedremo se mi sono sbagliata.

Politica Giugno 27, 2015

Milano, il Bisindaco e altre chimere

Qualche svagato pensiero del week end sul prossimo sindaco di Milano.

L’idea del ticket Sala-Majorino per il centro sinistra -una specie di chimera paralitica, il Bisindaco, la cui principale attività sarebbe litigare- dà un’idea di disperazione che non aiuta: twu is megl che uàn, dato che uàn perderebbe a sinistr, l’altr perderebbe a destr. Bisogna un po’ riabituarsi all’idea strambissima che chi vince a sinistra potrebbe perdere a destra e viceversa, anzi oggi più che mai visto la fregatura che i cittadini hanno preso dalle larghe intese. Faccio peraltro notare che la novità del 50/50 donne e uomini non può essere archiviata con tanta nonchalance, anche se sarebbe comodo.

Serve semplicemente il coraggio della propria proposta, chiara e semplice, e ne serve molto in tempi di elettorato liquido e malmostoso, che non garantisce più nulla e rende i sondaggi del tutto inaffidabili: quello che il campione ti ha risposto il lunedì potrebbe non valere più già il martedì.

Ai sondaggisti è consigliabile una riflessione, e ai candidati di andare “nudi” alla meta, con semplicità e generosità, accettando il fatto di essere lì a correre un rischio.

Quanto a Roma, al premier e ai suoi incaricati, meno si faranno vedere e meglio sarà per il centrosinistra. E per almeno due ragioni: Milano non l’ha mai capita nessuno, milanesi a parte, e mai del tutto nemmeno loro; al tradizionale orgoglio meneghino si va vieppiù assommando un compiaciuto tiro al Renzi di cui forse il Renzi stesso non ha del tutto contezza. E del resto chi sbandiera un programma e ne realizza un altro, chi accende vertiginose speranze col turbo, con tanto di fogli excel (per chi ci è cascato: tantissimi) e altrettanto vertiginosamente e col turbo le tradisce, il conto non può essere questo: vertiginoso e col turbo.

 

Donne e Uomini, esperienze, Politica, TEMPI MODERNI Giugno 3, 2011

DA BERLUSCONES AD ARANCIONES

Quello che è capitato a Milano, spiegato soprattutto ai non-milanesi

Ok, Milano non è facile da capire. Ma bisogna proprio non capirla per niente se hai la faccia di presentarti alle 6 di pomeriggio di fronte a una piazza in festa, accaldata e arancione, per strillare “Abbiamo espugnato Milano”. “Espugnati questa m…a”, chiosa uno sotto il palco accanto a me. Qualcuno spieghi a Nichi Vendola –poi gliel’ha spiegato perfino Pisapia- che Milano non era una cittadella assediata.

Milano aveva scelto liberamente e con entusiasmo un’ipotesi politica, un modello, uno stile, un Cavaliere rampante figlio del suo grembo e intriso dei suoi umori, e aveva voluto anche la sua Cavalieressa, signora della migliore borghesia che migliore non ce n’è. Milan e Inter uniti nella lotta contro Roma statalista lontana mille miglia, i milanesi che si sentono più a casa a Columbus Circle o a Piccadilly Circus che a Via del Corso.

Milano tutta questa roba l’aveva fortemente voluta. E a un certo punto, con sobria determinazione, non l’ha voluta più. A farla breve, la storia è tutta qui.

La prima, forse la vera festa è stata la sera del 16 maggio, primo turno, al teatro Puccini, uno di quegli storici teatri milanesi scampato per un pelo alla riconversione in Zara o H&M, proprio in corso Buenos Aires, arteria commerciale tra le più importanti d’Europa. Lì si è visto che la gran parte dei sondaggisti dovrebbe cambiare mestiere. Contro ogni previsione –le più ottimistiche lo davano pari o un paio di posizioni sotto- l’avvocato Giuliano Pisapia aveva staccato di sette punti Letizia Moratti, sindaca uscente. Lì si è capito quasi tutto. E non tanto per l’ovvia folla di militanti che si accalcava festante nel teatro, nella galleria liberty d’ingresso e sul marciapiede antistante, e che esplodeva in ole a ogni nuova tornata di dati. Quello che stava capitando lo si capiva meglio da quelle auto strombazzanti, utilitarie e suv, professionisti con la ventiquattr’ore sul sedile di fianco, cravatta gioiosamente agitata fuori dal finestrino. Tecnicamente, esteticamente, berluscones. E lo spettacolo dei berluscones esultanti per lo schiaffo a Berlusconi diceva tutto quello che c’era da dire. Partite Iva, professionisti urbani, creativi, addetti finanziari che brindavano con un Ferrarino nei vagoni ristoranti delle Freccerosse di ritorno da Roma dopo aver appreso la notizia sul Blackberry e sull’iPhone, ecco quello che stava capitando.

Si può anche mettere in termini di moderati o non moderati, cattolici e terzopolisti, o addirittura destra e sinistra, ma quell’immagine lo spiega meglio di tutto.

Era così, del resto, che era cominciata, e così stava andando a finire. La borghesia e i ceti medi produttivi non ne potevano più e si agitavano da tempo in cerca di una soluzione. I profili dei 4 candidati alle primarie la dicevano lunga.

Giuliano Pisapia, il primo a scendere in campo, ibrido tra la politica e le professioni. Stefano Boeri, architetto blasonato ma figlio di gente fortissimamente engagé, Cini, nota designer, e Renato, comandante partigiano e grande medico sociale. Uno che la politica l’aveva fatto da ragazzo e poi, come tanti, l’aveva mollata tentando il travaso della passione civile nel mestiere. Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, scaricato dal Pd e capace di una rivincita di un certo successo. Il fisico ambientalista Michele Sacerdoti. Nemmeno una donna, peccato, in questo quartetto chiamato in campo da un fermento microfisico. Leggi: la città non va, non è amministrata, è sporca, inquinata, incocainata, infelice, lavorare e produrre diventa sempre più difficile, la burocrazia è soffocante, continuiamo a perdere colpi rispetto alle altre grandi metropoli europee, non c’è strategia, non c’è visione, i giovani sono costretti a fuggire.

Tutta gente che conosce il mondo, che va in giornata a Parigi, a Londra, a Berlino e a Barcellona –ma basterebbe anche Torino- poi torna la sera e mentre fa la fila di un chilometro ai tassì dell’aeroporto rimugina: “Perché loro sì e noi no?”. Come mai, per dirne una, questa città produce ed esporta bellezza nel mondo e non riesce a trattenerne neanche un po’? Perché i nostri bei palazzi ottocenteschi e Liberty deturpati da orribili recuperi di sottotetti geometra-style? Perché siamo costretti a scappare il venerdì sera a far respirare i bambini, sempre malati di bronchi? Decine di migliaia di macchine –provate a prendere la Milano laghi alle sette e mezzo del mattino-, una fiumana sgasante in ingresso con un solo passeggero a bordo non essendoci altro modo di venire a lavorare in città. Perché tanti luoghi cittadini, piazza XXV Aprile, porta di Brera, e la Darsena, sventrati da anni per farne parcheggi attira-auto? Perché tanta gente nata qui, soprattutto ragazzi e giovani coppie, costretta a sfollare nell’hinterland causa caro-affitti, con tutte le case vuote che ci sono? Perché la cultura muore? Perché le nostre scuole civiche, orgoglio municipale, sono state chiuse?

Se poi mentre sei lì e il tassì non arriva –essendo che la sindaca non smolla altre licenze per non irritare la lobby dei tassisti- ti torna in mente che per tutta la giornata hai dovuto dare spiegazioni sul bunga-bunga e sulle cazzate internazionali del premier ai tuoi colleghi parigini o berlinesi, se hai parlato a un convegno, come per esempio è capitato a me all’università di Barcellona, e per buona parte del tempo ti è toccato assicurare che le italiane non sono affatto tutte troie, che non tutte le ragazze vogliono diventare veline e favorite del sultano, che un conto è la rappresentazione che delle donne viene data da quella stramaledetta tv, un altro è la realtà, be’ non è difficile capire che il pieno è fatto.

C’è molto da dire sulla parte che le donne hanno avuto in questa storia. Ma prima voglio dire questo: com’è che Berlusconi e Bossi non hanno capito? Allora è proprio vero che quando uno da Milano va a Roma perde la trebisonda e si sconnette. Com’è che hanno perso totalmente il polso della città, e non hanno percepito che Moratti era una candidata non debole ma debolissima, detestata dalla Lega e anche da molta parte del Pdl, e che il malcontento montava in modo irresistibile ed esponenziale?

A un certo punto molti si erano fatti l’idea che al suo posto sarebbe stato candidato Roberto Maroni, tanto per dirne uno. Lo stupore è stato grande quando invece si è capito che la scelta sarebbe caduta nuovamente su di lei. Spiegano che non si poteva dire di no ai Moratti, con particolare riferimento al dovizioso supporto di Gianmarco alla candidatura della moglie. Una marea di milioni bruciati come in una tremenda sessione di borsa: anche questo ha infastidito, in un momento di sobrietà obbligatoria, ha ricordato le consulenze d’oro elargite dalla sindaca a personaggi improbabili e contestate dalla Corte dei Conti. Ecco: prendete tutto questo e shakeratelo con quella che in tutta tranquillità si potrebbe definire “questione morale”, le vicende di Arcore, la nipote di Mubarak, mesi di sconcezze e di balle spaziali che hanno paralizzato il dibattito politico e l’azione di un governo già in sé poco attivo. Una città poco propensa all’esibizione che si ritrova al centro di un megagossip internazionale con centinaia di troupe televisive piazzate in permanenza fuori da Palazzo di Giustizia. Prendete tutto questo, e il design della sconfitta si profila chiaramente.

Come hanno fatto Berlusconi e Bossi a dimenticare che la gente di questa città è sobria e misurata, capace di apprezzare l’estro e perfino una certa follia cabarettistica ma poco incline alle ostentazioni, gente che esce volentieri dalle righe ma ci rientra rapidamente: alle otto del 31 maggio, dopo una notte di festa, eravamo tutti calvinisticamente a laurà. Gente che ha in orrore la volgarità, capace di ingoiare molti rospi, come una moglie saggia e paziente che però a un certo punto ti presenta il conto e allora, come si dice qui, non ce n’è più per nessuno. Come hanno fatto a non sentire questo ardente desiderio di tornare a un minimo buon senso, ai fondamentali dell’esistenza: famiglia, lavoro, casa, salute, back to the basic, altro che tv, escort e Lele Mora. Ornella Vanoni per Letizia raccatta 38 voti, leggi: è meglio che canti, qui serve gente seria. Ascoltare Radio Padania avrebbe aiutato –detto tra parentesi, il Trota Bossi consigliere regionale non è stato mai mandato giù-. Ma bastava annusare nell’aria.

Incontro la sindaca per un dibattito tv poco prima del ballottaggio. E’ elegante, composta, spaesata. Sembra crederci ancora. Maschera perfettamente i suoi sentimenti. Dalla sua bocca escono cose inaudite: i campi rom “azzerati”, genere soluzione finale, gli zingari “liberi” in città –dovremmo imprigionarli?-, la moschea che va garantita da una specie di concordato con “uno stato islamico” –quale? l’Iran?-. Un’insipienza e un estremismo verbale che stonano con le fibbie argento delle sue Roger Vivier e che provocano la reazione della Chiesa ambrosiana e dei volontari dell’accoglienza.

Malgré moi l’empatia scatta, non posso farci niente: è una donna, sta sbagliando tutto, e l’hanno scaricata. Le telefonano che pure Gigi D’Alessio ha dato forfait e non canterà al concertone di chiusura campagna. Lei non si scompone. Sembra sedata. Vuole parlare di donne, mi dice. E’ stato uno dei suoi più colossali errori: una sola donna in giunta, Mariolina Moioli, pochissime ingaggiate per Expo –il Bureau parigino è costretto a richiamarla- nessun legame con la vitalissima e sempre più forte società femminile milanese. Signore che, tra le altre cose, hanno anche i dané.

Moratti è una di quelle donne a cui non piace affatto esserlo: si vede dalle sue tristi longuette, dal fatto che si sente potente e libera non perché è una donna, ma nonostante questo. Appare a tutte come un infelice ostaggio dei poteri forti e degli uomini. Promette meraviglie, adesso. Vuole imbarcare un bel po’ di compagne d’avventura, forse ha capito davvero. Troppo tardi. La sua lontananza dalle donne e dal loro linguaggio è il nucleo ghiacciato della sua algidity.

Di Michael Bloomberg, sindaco di NYC e 17mo nella classifica Forbes degli uomini più ricchi del mondo, si favoleggia che ogni mattina prenda il metrò dalla sua casa nell’Upper East Side fino al municipio per non perdere il polso della città. Forse è una balla, ma il metodo è buono.

Se Mrs Auto Blu Moratti l’avesse preso più di quella decina di volte in 5 anni, se non fosse andata in periferia come una sussiegosa signora che va far visita alla cameriera, avrebbe scoperto tra l’altro: a) che quella che per lei è la periferia per definizione, via Padova, da mortificare con i coprifuochi, sta a 3 fermate dal Quadrilatero; b) che gli “stranieri” magari mangiano un po’ troppo aglio, ma sono portatori di quella grande risorsa detta desiderio che secondo Giuseppe De Rita è proprio ciò che manca al Paese; c) che un’ordinaria mamma con passeggino, in mancanza di comunissimi scivoli, non può prendere il metrò e deve per forza muoversi in macchina: ne ho aiutata una giusto l’altro giorno, “tu tira su il carrozzino da dietro che io te lo sollevo davanti”.

Il 13 febbraio femminista Letizia Moratti l’ha proprio ignorato. Ora, una poteva essere d’accordo o non d’accordo, ma tutte quelle donne furibonde sono le tue cittadine, tu devi ascoltarle, metterti in qualche relazione con loro, parlarci. Quel moto di dignidad, sentimento sia pure ambiguo che sta traversando l’Europa, onda lunga delle rivolte che hanno scosso il Mediterraneo sud e che arriva indebolita a lambire le coste nord, nel nostro paese si è espresso anzitutto in queste piazze di donne, esacerbate dal machismo della politica italiana in generale, e da quello del premier Berlusconi in particolare.

L’avrai gradito o no, ma non puoi non tenerne conto. Molti milanesi, anche maschi, dicono di aver trovato in quel 13 febbraio la motivazione, l’energia e il mood che hanno alimentato il ribaltone del 30 maggio. Quel che è certo, non si poteva fingere che non fosse capitato. Non ci si poteva crogiolare nell’illusione dell’invincibilità. Non si poteva continuare a trattare le donne come minori da blandire.

In piena campagna, quando la debacle è ancora lontana, lo staff della sindaca mette in piedi una cena per mille donne all’hotel Marriott, impiegate e commesse precettate ed eccitate dall’invito al seratone vip: sembra quasi di essere in tv. Telefonata regolamentare del premier barzellettiere a metà cena, il coordinatore lombardo del Pdl Mario Mantovani che torna sul topos delle belle tope di destra, altro che le cesse di sinistra, reiterato poche ore dopo dal ministro Ignazio La Russa. Letizia Moratti non fa un plissé e mimimizza: “Battute”. Che però nel living del suo superattico non sarebbero certamente ammesse. E’ campagna elettorale anche questa: se sei veramente gnocca stai per forza a destra. E invece le donne, le gnocche e le meno gnocche, hanno portato il loro peso a sinistra. Decisive nella vittoria di Pisapia, attivissime nella campagna per le primarie e per l’elezione del sindaco, pazienti e determinate nel contrattare e strappare quel 50/50 che tutte le nuove giunte del centrosinistra hanno garantito, rebound inevitabile della politica supermacha –qualcuno davvero credeva che si sarebbe potuto continuare così?- e delle amichette piazzate nelle istituzioni rappresentative.

Ma la debacle assoluta è tra i giovani: tra i 18 e i 24 è un plebiscito per Pisapia. Guardatevi online l’incredibile show di una premiazione sportiva all’Arena, pochi giorni prima del voto. Ragazzini delle medie, 12-13 anni, che spontaneamente, come se fosse scontato, il massimo dell’up to date, di fronte alla sindaca cominciano a scandire “Pi-sa-pia! Pi-sa-pia!”. I prof imbarazzatissimi e il sorriso pietrificato di Moratti. La stanno condannando a morte. Le stanno dicendo: tu e i tuoi e la vostra tv siete il vecchio, roba da buttare, non siete smart, non capite niente. Pisapia probabilmente non l’hanno mai visto, ma è un dettaglio. Il fatto non è che lui vinca, ma che la Moratti perda. L’analisi del voto conferma: per la sindaca votano i più vecchi e i meno scolarizzati. La cosa vibra nell’aria, le antenne dei ragazzini captano e restituiscono.

I giovani hanno anche lavorato sodo per la vittoria del centrosinistra. Come per Zedda a Cagliari e per De Magistris a Napoli, anche per lo staff di Pisapia si è trattato di un contributo decisivo. Hanno lavorato gratis, portando in dote tutto il loro know how di nativi digitali –senza la rete questa svolta sarebbe stata impensabile-, la loro velocità, i flash mob, la naturalezza nel fare squadra: l’individuo per loro non esiste, la rete non è solo il medium, è il messaggio. L’altro pezzo della dote è stato la non-violenza, il non-odio. Questa dei figli dei baby boomer è una generazione innocente e quieta, che ha avuto la fortuna di non conoscere il male. L’etica e l’estetica resistenziale, che hanno nutrito l’immaginario militante della nostra generazione, si è esaurito. Noi occhiuti, sempre all’erta, alla ricerca di nemici, e questi che non lottano neanche contro i loro genitori. Non capivamo che cosa fossero, e qui si è visto: post-antagonismo, non-violenza, non-individualismo e rete, è questo a comporre la cifra. Oltre a un forte europeismo. Risposte virali e interstiziali, il nuovo che prende forma in micro-pratiche quotidiane, infinitesime, reticolari, subliminali. Un linguaggio più femminile che maschile. Yin, si potrebbe dire. E finché lo dico io, niente di nuovo. Fa tutt’altro effetto se a dirlo è Piero Bassetti: classe 1928, imprenditore, ex-olimpionico (staffetta 4X100) ed ex-politico Dc, primo governatore della Regione Lombardia, fondatore di quel Gruppo 51 (per cento) che nella contesa elettorale ha rappresentato il supporto a Pisapia da parte della cosiddetta “borghesia illuminata” milanese, e che oggi rivendica un ruolo decisivo in questa svolta. “La forza di Pisapia è una forza yin”.

Ecco. Se non si capisce tutto questo, non si capisce che cosa sta capitando a Milano.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, esperienze, Politica Maggio 31, 2011

SOUVENIR DI UNA LOTTA

Ci svegliamo in una città nuova, stamattina, nata ieri sera in una festa meravigliosa a cui avrei voluto davvero invitarvi tutti. Ma è anche la città che conosco, è la città di quando ero bambina, e che mi mancava tanto. L’ho riconosciuta. Una città a cui la provvidenza ha dato il compito di moltiplicare i doni (laurà), di accogliere, meticcia continua, di correre con frenetica e stralunata allegria, di non dormire mai.

Sono così stravolta, stamattina, ma voglio dire in due parole quel che è stata, questa lotta.

Senza soldi: abbiamo avuto la prova che il desiderio può davvero tutto, e si fa beffe di quell’illusione che è il denaro. Nemmeno un centesimo dell’investimento dell’avversario, ed è bastato.

Senza odio: una piccola (piccola?) rivoluzione che, come ho già detto, ha fatto a meno della violenza, e si è fatta bastare l’ironia. Non c’è stato bisogno del sangue di nessuno.

Con i ragazzi: tantissimi, che hanno lavorato indefessamente, nativi digitali, che hanno convinto i più vecchi a stare in rete. Miti, la lezione del non odio ci è venuta soprattutto da loro. Ecco il tesoro che questa generazione silenziosa e gentile nascondeva, e ci ha offerto! E noi a loro, in cambio, abbiamo dimostrato che si può fare, che non ci si deve rassegnare perché le cose possono cambiare. Glielo dovevamo. Adesso è finalmente bello avere vent’anni.

Con le donne: che hanno dato una prima prova della forza del desiderio, capace di riempire le piazze del paese come vi ho detto, appunto. Senza organizzazione, senza soldi, senza potere. La prova generale di tutto questo l’hanno fatta loro.

Con la rete: senza il web tutto questo non sarebbe stato nemmeno lontanamente immaginabile.

Con la bellezza: lo vedete dalle immagini che trovate online. La bellezza, la luce, l’arancio radioso ci hanno nutrito e incoraggiato.

Con gratitudine: noi grati a Giuliano Pisapia, e anche a Stefano Boeri, a Valerio Onida e a Michele Sacerdoti, che si sono offerti generosamente come guide, e loro grati a noi. Ieri sera Giuliano Pisapia nel suo discorso “obamiano” ha detto “Sono il vostro sindaco. Sono il mio sindaco”. E ha ribadito: “Non lasciatemi solo. Ho bisogno di voi!”. Tutti abbiamo bisogno di tutti. Da soli non siamo nulla. La politica oggi si fonda su questo reciproco bisogno, è questo che potrà cambiarla.

La mia mamma: che ieri mi ha detto con quella semplicità abbagliante, quella vicinanza alla luce dei vecchi: “Il bene ce la fa sempre, hai visto. Ma ades gh’è de laurà, c’è da lavorare” . Ecco, tanto per cambiare!


AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, esperienze, Politica Maggio 28, 2011

PONTI LEVATOI

milano, ponte levatoio del castello sforzesco

Se, supponiamo, a Milano dovesse vincere Pisapia, l’errore più grande sarebbe non tenere conto di come è nata questa vittoria: da un sommovimento, da una muta, dalla microfisica mobilitazione dei tanti -in verità prima pochi, più sensibili e visionari, e poi un crescendo sinfonico e all’ultimo anche classicamente opportunistico- che si sono prestati, a me viene più facile dire così, a lavorare per lo Spirito Santo, tanti invece preferiscono chiamarlo Zeitgeist.

Se il vincitore non continuasse a sporgersi all’ascolto, se si rialzassero i ponti levatoi, il lavoro dello Spirito Santo resterebbe a metà. Non si tratta certo di assemblee arancioni permanenti e di una demagogia delle masse mobilitate. Insomma non si tratta di sperare che chi sarà alla guida si degni di ascoltare: si tratta piuttosto che sia lui, con la sua squadra, a sentire il bisogno di non sconnettersi, che sia lui a chiedere, e a riconoscere che senza quella forza e quel linguaggio l’operazione sarebbe esangue e difettosa.

Insomma: ieri dicevo che se c’è stata una novità in questa esperienza milanese, è stata nel fatto di tenere l’odio al minimo; oggi aggiungo che se ce n’è un’altra è in questo rovesciamento, che non siano i cittadini a chiedere e a strappare più ampi spazi di contrattazione, ma che sia la squadra di governo a chiedere ai cittadini motivazioni, idee ed energia per cambiare la politica.

Quando dico che spero che i ponti levatoi non si alzino, non intendo banalmente la speranza che non siano solo i partiti a venire a sintesi e a serrare nuovamente le fila. Intendo molto di più, e peraltro non mi fido neanche troppo della facile contrapposizione tra partiti e società civile. Intendo che le relazioni corrano, che tutti -chi andrà dentro e la città fuori dentro i partiti e fuori di lì- si impegnino nello sforzo grandissimo di tenere aperto il passaggio che per inerzia tenderà a richiudersi; che ci togliamo definitivamente dalla testa l’immaginario feudale e verticale della piramide gerarchica, dalla testa nobile alle membra vili, per sostituirlo con quello orizzontale della rete, in cui ogni nodo pulsa per ciò che sa dare, capace di non trattenere egoicamente il flusso, ma di restituirlo e di rimetterlo rapidamente in circolazione arricchito del suo proprio plus.

Se devo pensare a un laboratorio politico lo penso così, radicalmente trasformativo delle forme della nostra convivenza, tenendo all’orizzonte la possibilità che perfino parole come potere e leadership si svuotino di significato.

Donne e Uomini, Politica, tv Maggio 24, 2011

MOSCHEE-BOMBONIERA


Basta! Non è più tollerabile che metà dei dibattiti tv su Milano al ballottaggio siano sulla moschea e sui campi rom! Qualunque cosa si pensi a riguardo, sono temi che occupano l’1 per mille dei pensieri dei milanesi. I milanesi, di destra e di sinistra, cattolici e laici, moderati ed estremisti, donne e uomini, vecchi e giovani, condividono tutti ben altre preoccupazioni. E’ su ben altri temi che gli imprenditori della paura devono fare il loro  sporco lavoro.

Ieri sera ho preso parte a un dibattito a Telelombardia, con Piero Fassino, Roberto Formigoni, Matteo Salvini, e Rosi Bindi ed Emma Bonino in videocollegamento. Matteo Salvini, leghista simpatico e con l’orecchino che aspira al posto di vicesindaco, è arrivato al punto di dire che mentre Pisapia vuole costruire una moschea “enorme”, Letizia Moratti pensa a “moschee-bomboniera”!

Vi prego tutti, la vita dei cittadini è una cosa seria! Che diano almeno l’impressione di occuparsene. I milanesi non hanno paura della moschea, grande o piccola che sia, come non ne hanno paura i parigini e i romani: Giovanni Paolo II si diede personalmente da fare perché il comune di Roma trovasse un terreno adatto a costruire la moschea disegnata da Paolo Portoghesi. I milanesi hanno paura di continuare ad ammalarsi perché non si trova una soluzione ai problemi ambientali e di traffico, hanno paura che i loro figli debbano andarsene perché qui non trovano lavoro né una casa a costi sostenibili, che debbano rinunciare a farsi la loro famiglia, hanno paura di dover continuare a vivere nella solitudine, in una città incocainata, afflitta da passioni tristi, vecchia e inospitale, da cui il sabato chi può scappa per dare ossigeno ad anima e corpo. Hanno paura di vivere in una città culturalmente insignificante, dove non si può neanche passeggiare in pace, dove l’unico gesto che ti è consentito è mettere mano al portafogli per comprare, dove i dané -e la mancanza di dané- sono tutto.

Basta! E basta con i dibattiti fra soli uomini. Lasciate che il buon senso femminile irrompa!

Donne e Uomini, Politica Marzo 23, 2011

LA SCOMPARSA DELLE DONNE

Mi viene in mente il titolo del mio libro, scusate, mentre leggo stupefatta su Repubblica di oggi che per le liste alle prossime elezioni amministrative (ma un ragionamento analogo si potrà presto fare per le politiche, anche se lì ci sono liste bloccate, e la cosa si declina diversamente) non si trovano donne. Scomparse. Con tutte le donne che ci sono in giro per la città!

Parlando del Pd, Repubblica scrive: “Più difficile trovare la metà femminile della lista, ci sarebbero delle rinunce eccellenti“. e in effetti qualche rinuncia eccellente io la so. Ma sono stupefatta per questo: per il fatto che si pretenda che le donne si candidino con la quasi-certezza di non essere elette, e quindi in buona sostanza come carne da macello. Perché mai dovrebbero farlo? Com’è possibile pretendere una simile abnegazione? Perché un conto è candidare donne e abbandonarle al loro destino, altro conto è lavorare attivamente per la loro elezione. Nel caso delle politiche, sarebbe molto semplice: a meno che non cambi la legge elettorale, riempire di donne le teste di lista. Con le liste bloccate, l’elezione è sicura. E voi pensate che si farà?

Tornando alle amministrative milanesi, per le quali è prevista la preferenza unica: se tutti i consiglieri maschi uscenti, con il loro corredo di voti garantiti, intendono ricandidarsi, com’è possibile che passi una donna e per di più neofita? E allora non c’è proprio verso: l’unica soluzione è il passo indietro maschile: per ogni uomo in meno, una donna in più. I posti sono quelli, difficile che si moltiplichino come i pani e i pesci. La “coppia politica”, come forzatura transitoria: la suggerivo qualche post fa.

Sono stupita anche dal terzo polo, che candida come sindaco Manfredi Palmeri: se c’è una personalità di Fli non ignota ai milanesi, quella è Barbara Ciabò, playmaker di Affittopoli. E invece vedo che capolista per Fli-Api sarà un uomo, Carlo Montalbetti. Ciabò dovrebbe farcela in ogni caso, ma la scelta è significativa.

Come vedete, tutti capaci di scendere in piazza con le donne, ma al momento giusto trovatene uno che testimoni personalmente e si sposti di un millimetro. Niente da fare.

Le donne ci sono, sono la volontà e la generosità politica a mancare.

Vediamo almeno se, nel caso vinca il centrosinistra con Giuliano Pisapia, la promessa di una squadra 50/50 sarà mantenuta, e come.