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Donne e Uomini, Politica Gennaio 9, 2009

L’IMBROGLIO DELLA PARITA’

Come saprete, l’Europa ci “invita” a parificare tra i sessi l’età pensionabile: 65 anni per tutti, uomini e donne. Ci inviterebbe a essere pari anche sul lavoro (trattato di Lisbona), e non solo all’uscita: almeno il 60 per cento di occupazione femminile. E invece siamo al 46.7 per cento, terzultimo posto, con enormi differenze tra Nord (quasi 75 per cento) e Sud (nemmeno 35 per cento). Ma su questo non sembra esserci altrettanta fretta e attenzione da parte del governo, nonostante tutte le analisi concordino sul fatto che aumento dell’occupazione femminile e aumento del Pil siano praticamente sinonimi. C’è poi il fatto che le pensioni delle donne sono vistosamente inferiori a quelle degli uomini, corrispettivamente alla differenza di retribuzioni: e anche qui, nessun impegno per sanare la palese ingiustizia. E infine, ma sarebbe la questione da considerare per prima, noi italiane che oggi andiamo “comodamente” in pensione a 60 anni siamo le europee che erogano più ore-lavoro domestico e di cura, lavoro non monetizzato e non valutato ai fini pensionistici, visto che i nostri uomini non se ne fanno in alcun modo carico: ma anche qui, si fa finta di non vedere.

Ergo: nella mia vita io ho lavorato molto più di un uomo, guadagnando molto meno di un uomo, ed erogando moltissimo lavoro invisibile e gratuito, ma solo alla fine divento miracolosamente pari a un uomo, parità nominale e beffarda che mi viene inflitta come una condanna (anche se poi nei fatti resto impari, visto che la mia pensione sarà notevolmente più bassa). Se si deve riformare, riformiamo tutto.

Mi pare che ci sia molta materia di discussione. E allora discutiamone.

TEMPI MODERNI Novembre 14, 2008

IN CARRIERA? NO, SUL TRALICCIO

Giuly, attenta e acuta blogger, ci segnala un articolo del New York Times sul tema del lavoro, croce e delizia. Gentilmente lo traduce per sommi capi, e io aggiungo un piccolo editing (non fate troppo caso alla forma…).

Ve lo propongo. Idee per datori di lavoro illuminati. Speranza per lavoratrici e lavoratori. Buone pratiche organizzative per essere tutti più felici (o meno infelici). Leggete e fate leggere. E dite la vostra.

SU PER LA SCALA? VECCHIO E SEMPLICISTICO

cathy benko

cathy benko

di Cathy Benko – Vice Presidente e Responsabile Talenti – Deloitte L.L.P, multinazionale di consulenza e servizi alle imprese.

Quando pensiamo a come le carriere sono costruite, molti di noi visulaizzano una scala, i cui pioli vengono scalati dal lavoratore man mano che sale nella gerarchia dell’organizzazione. Da quando sono state inventate le gerarchie aziendali il successo personale è sempre stato rappresentate con questo modello. Ma le gerarchie non sono più quelle di una volta. Nel giro di due generazioni la fisionomia della forza lavoro è cambiata per la presenza di un maggior numero donne, per l’invecchiamento della generazione dei baby boomer, e per l’arrivo delle generazione Y; ma anche perché sono cambiati i comportamenti dei lavoratori in generale. Le regole che governano le organizzazioni però sono rimaste sono quelle dell’età industriale: one-size-fits-all (taglia unica) e continuous full time climbing (impegno in carriera continuo e a tempo pieno).
La sfida di oggi è: “adattare il lavoro alla vita, e la vita al lavoro”, e l’esperienza dice che non si può pervenire a un modello unico. La convergenza di lavoro e vita sta producendo un cambiamento che “sega la scala”. La relazione tra vita e lavoro sta diventando più complessa, e il concetto di carriera è in via di ridefinizione. Continuiamo a guardare le cose con le lenti del passato, mentre un po’ ovunque ci sono esempi di carriera non lineare. La metafora che può essere usata per descrivere il nuovo modello di carriera è quella del “traliccio”: un traliccio come quelli che si vedono nei giardini, piattaforme viventi per la crescita delle piante con spinte in varie direzioni. Il traliccio quindi è qualcosa che ti permette di muoverti in più direzioni, a zig zag.
Un tempo una mossa a lato o addirittura verso il basso poteva essere considerata il capolinea di una carriera. Oggi i lavoratori sono molto più inclini a raggiungere un soddisfacente livello di responsabilità e di retribuzione e fermarsi lì per un certo periodo, in modo da conciliare le necessità della vita e quelle del lavoro. In seguito alcuni riprenderanno la loro scalata verso l’altro, altri no. Il confine tra casa e lavoro è diventato labile, ed è il momento di adottare un modello più vicino al fatto che viviamo in un “mondo traliccio”.
Alla Deloitte abbiamo sviluppato un approccio tagliato “su misura” (caso per caso) per lo sviluppo delle carriere, pervenendo a un modello in cui le organizzazioni e le persone considerano le varie opzioni, operano le loro scelte e infine concordano una soluzione in grado di bilanciare quattro dimensioni: ritmo di carriera, mole di lavoro, sede e orari di lavoro e ruolo. L’obiettivo è una soluzione vantaggiosa sia per il lavoratore, sia per il datore di lavoro. Questo modello riconosce che le priorità del lavoratore possono cambiare nel tempo. In sintesi, rimpiazza l’immagine della scala con quella del traliccio, incoraggiando adattabilità e lungimiranza. Il nostro obiettivo è offrire ai dipendenti la possibilità di conciliare tra lavoro e e vita, garantendo ai datori di lavoro la lealtà dei loro migliori e più brillanti collaboratori.

http://www.nytimes.com/2008/11/09/jobs/09pre.html

Politica Ottobre 31, 2008

LETTERA A EMMA, “TUTTA INTERA”

Emma Marcegaglia

Emma Marcegaglia

Gentile Dottoressa Marcegaglia, cara Emma,

un’amica, Zeynep Bodur Okya, grande industriale turca, parlando del rischio di civilization clash e della possibilità che le donne, con il loro talento per la mediazione, svolgano un ruolo di dialogo e di pace, mi ha detto con semplicità una cosa che sappiamo bene tutte: “Tra donne ci si capisce. Io sto nel mezzo, tra voi occidentali e le donne del Golfo. E mi trovo bene con tutt’e due. Ci sono sempre molte cose in comune. Sono una mamma ed è madre anche l’altra: questo ci unisce e ci unirà sempre, contro ogni stereotipo reciproco. Sono gli uomini che separano. Noi siamo sempre esseri umani tutti interi”.

Per questo la chiamo Emma. E parlo a lei “tutta intera” per raccontarle quello che certamente lei già sa: la grande sofferenza delle donne costrette a lavorare come uomini -con i modi, i ritmi, le modalità organizzative e i tempi pensati per gli uomini- anche in comparti produttivi fortemente femminilizzati; la loro solitudine di fronte ai compiti di cura, che restano comunque sulle loro spalle; e anche la loro enorme capacità di resistenza, visto che non mollano su nessuno dei due fronti, il lavoro della produzione e quello dell’amore. Un “doppio sì”, come dice il titolo del libro-inchiesta della Libreria delle Donne di Milano, a cui nessuna sembra volersi sottrarre. Salvo la fuga, ogni volta che sia possibile, nel lavoro autonomo, dov’è meno impossibile lavorare “da donne” e organizzarsi con quelle modalità flessibili che da decenni costituiscono il Graal per tutte noi.

La sua collega Annamaria Artoni, presidente degli industriali dell’Emilia Romagna, sostiene -sentita con le

Annamaria Artono

Annamaria Artoni

mie orecchie- che perfino l’industria manifatturiera sarebbe oggi in grado di introdurre il tempo flessibile. E allora, è la domanda, perché non capita? Che cosa continua a ostare a questa innovazione, che sarebbe uno straordinario fatto politico -parlo di politica vera, non di quella là-, proprio perchè cambierebbe, e in meglio, la vita delle donne, dei bambini, della comunità e della polis?

Il fatto che lei sia a capo di Confindustria costituisce una grande occasione storica, per lei stessa e per tutte e donne di questo paese, con l’auspicio che lei riesca a portare in quel ruolo se stessa “tutta intera”, con tutta la sua sensibilità e il suo sapere di donna. A pensare al lavoro femminile non più come l’eccezione a una norma maschile, ma come al lavoro tout court. E dunque non in chiave di tutele, di sostegni, di “permessi”, ma di centralità.

Certo: con l’arietta di recessione che tira, se vi saranno dei prezzi da pagare -e per colpe altrui, beninteso-, il rischio è che le donne siano le prime. Sappiamo che le cose di solito vanno così, i cocci sono sempre i loro. E parlare di orario flessibile e di organizzazione del lavoro può apparire un lusso quando è il lavoro a essere in forse. Ma lei sa benissimo che se le donne perdono, perdono anche le aziende e il progresso del paese, che dell’apporto del “genio” femminile, come diceva Giovanni Paolo II, hanno un grande e crescente bisogno. E sa anche che questa crisi, che ci costringe a ridiscutere i criteri liberistici che hanno de-regolato l’economia e la convivenza civile, può costituire anche l’occasione per una grande purificazione, e per un generale ripensamento che può riguardare anche i contenuti e i modi della produzione.

L’auspicio è che le donne siano protagoniste di questo ripensamento, come lo sono oggi del lavoro. Che il loro sapere e il loro “doppio sì” possa essere il perno di una pacifica rivoluzione del mondo del lavoro. E che lei, cara Emma, protagonista “tutta intera” della sua grande responsabilità, del tutto donna in un ruolo che è sempre stato degli uomini, insieme alle molte altre donne di Confindustria possa farsene promotrice e interprete.

Con fiducia e stima.

Archivio Settembre 13, 2008

GIRO DI BOA

aCibo e bellezza a parte, noi europei del Sud il “complesso del Nord” l’abbiamo sempre patito. Che politica, che welfare, e che parità! Noi, invece, con tutte le nostre magagne… In fatto di emancipazione e di uguaglianza tra i sessi gli anglosassoni sono stati i primi: donne=uomini, nessuna differenza. Ma adesso stanno cambiando idea. Noi al Sud, in ritardo di almeno vent’anni, tutti presi a dotare ogni ente pubblico, dai municipi alle assemblee di condominio, di organismi pari-opportunitari. Lassù invece si cambia rotta. Storico giro di boa. E se il modello parità-emancipazione entra in crisi proprio lì, dove è stato inventato, allora è solo questione di tempo, è fregato all over the world.
Una recente ricerca della Cambridge University rivela un deciso cambio di umore degli inglesi verso l’uguaglianza di genere: se nel 1994 il 50 per cento delle donne e il 51 per cento degli uomini ritenevano che la vita familiare non soffrisse del fatto che le donne lavoravano fuori casa, nel 2002 lo crede solo il 46 per cento delle donne e il 42 per cento degli uomini.
Tra allora e oggi un decennio di spaventose fatiche femminili, di azzardi ed equilibrismi: il famoso doppio ruolo. Figli tirati su in qualche modo, uomini che in casa non muovono un dito, ménage familiari a dura prova: ne valeva la pena? Davvero donne e uomini sono intercambiabili? Cala anche il numero di cittadini convinti del fatto che per le donne l’unica strada di realizzazione sia la carriera. Il tipo career woman-super mom è sotto attacco.
Negli Stati Uniti, dove l’emancipazione è stata una fede, il cambiamento è anche più vistoso: la percentuale di americani convinti che le donne possano lavorare 8 ore senza che la famiglia vada a rotoli precipita dal 51 al 38 per cento. In controtendenza la Germania, dove la simpatia per le politiche ugualitarie invece è in ascesa: nel ’94 solo il 24 per cento dei tedeschi pensava che la moglie-mamma al lavoro non avrebbe sfasciato la famiglia, nel 2002 la percentuale sale al 37 per cento. E con ogni probabilità in tutto il Sud-Europa il trend è questo.
Spiega la sociologa Jacqueline Scott, che ha coordinato la ricerca di Cambridge: “I tre paesi stanno probabilmente vivendo stadi diversi del ‘ciclo di simpatia’ per l’uguaglianza di genere. I tedeschi hanno abbandonato i ruoli tradizionali più tardi (come noi italiani, ndr), di conseguenza non si sono ancora imbattuti nella reazione anti-working mother. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, invece, dove le politiche pari-opportunitarie sono più antiche, la gente comincia a cambiare idea”.
Tendenze e controtendenze rilevabili anche nel nostro “piccolo” italiano: se la spinta maggioritaria è per la parità, per la piena occupazione femminile e per un welfare di impostazione tradizionalmente “fordista” (servizi rigidi per mamme che lavorano 8 ore), cresce il numero di quelle che hanno sempre tenuto duro sulla differenza di genere, o che l’hanno riscoperta; che promuovono una diversa concezione del lavoro, all’insegna della flessibilità, della creatività e dell’invenzione di spazi e tempi più congeniali; che hanno un’idea più complessa e articolata di welfare e mettono al centro il lavoro di cura e d’amore. Un “ritardo”, il nostro, che oggi potrebbe diventare una risorsa.
Quel che è certo, dalla ricerca di Cambridge non si può dedurre opportunisticamente che le donne vogliano “tornare a casa”. L’ideologia del “coming back home” non parla dei desideri delle donne, ma solo degli auspici dei tradizionalisti. Lo confermano altri passaggi della ricerca, in apparente contraddizione con l’insofferenza anti-paritaria rilevata prima. Solo il 41 per cento degli intervistati e il 31 per cento delle intervistate, infatti, è d’accordo con l’affermazione “tocca all’uomo portare a casa lo stipendio, mentre la donna sta a casa a guardare i bambini”. Nel 1987 i favorevoli erano rispettivamente il 72 e il 63 per cento.
Le donne vogliono lavorare. E’ impensabile che rinuncino al lavoro. Ma vogliono potersi organizzare a modo loro: è più facile rispedirle in cucina che assecondare la loro volontà di cambiamento. Quello che vogliono riportare a casa è l’enorme quantità di energie spese ogni giorno nell’adeguarsi a modelli maschili di organizzazione dello spazio e del tempo, della vita e del lavoro.
Nessuna economia nazionale, del resto, potrebbe fare a meno di loro. In Italia +100 mila donne al lavoro, come ha valutato Maurizio Ferrera, autore di “Il fattore D”, farebbero un + 0.28 di Pil. Dice Jo Causon del Chartered Management Institute, associazione dei manager britannici: “Per la nostra economia è impensabile non avere donne al lavoro. Oggi sono il 45 per cento degli occupati. In un momento di crisi come questo non possiamo permetterci di rinunciare alle loro capacità. Il 79 per cento delle aziende ha il problema di reclutare talenti e il 75 per cento si danna per riuscire a trattenerli. Si deve trovare il modo per corrispondere alla richiesta di flessibilità che proviene dalle donne. E anche dagli uomini”.
Nel cassetto del governo inglese tre nuovi provvedimenti: orario flessibile per chi ha figli fino ai 16 anni, prolungamento del congedo di maternità da 9 a 12 mesi e possibilità per la madre di trasferire al padre gli ultimi 6 mesi di congedo. “Flessibilità” sembra essere la chiave universale, per quanto in ritardo. Ma quello che ci vorrebbe è una vera rivoluzione nel modo di pensare e organizzare il lavoro e la vita. Kat Banyard, a capo della Fawcett Society, antico istituto delle suffragette inglesi, parla di necessità di una “trasformazione radicale”, contro la cultura del “tempo pieno”.
Il lavoro è senza dubbio il pensiero che la politica del prossimo decennio ha da pensare. E’ lì, nel punto di snodo tra lavoro e vita, che vedremo i cambiamenti più straordinari, promossi in primis dalle donne. E forse per una volta saremo noi europee del Sud, che per circostanze sfavorevoli e anche per cultura non ci siamo mai fatte prendere del tutto dall’emancipazione, dalla parità e dalla carriera, tenendo duro sulla differenza femminile, ad avere qualcosa da insegnare, qualche spunto e qualche ricetta (anche di cucina, why not?) da offrire alle amareggiate sorelle del Nord.

CASALINGHE FORSENNATE

Ragazze vestite come casalinghe anni Cinquanta che preparano torte per strada; tè delle cinque in stile burlesque, happening a metà tra l’artistico e il politico: in tutto il Regno Unito, da Londra a Brigthton, fiorisce il movimento delle giovani “domestic artist”. Le virtù femminili tradizionali brandite come strumenti di ribellione. Spiega Jazz D Holly, 24 anni, presidente delle Shoreditch Sisters: “Detesto l’idea di essere la copia di un uomo. E’ una cosa che sta gravemente danneggiando l’autostima di noi donne”. Figlia di Joe Strummer dei Clash, il mitico gruppo punk, Holly spiega  di avere avuto un’infanzia molto caotica. Per lei trasgressione non è bere e drogarsi, ma fare la maglia e cucinare, attività sovversive ed  “empowering”.

(pubblicato su “io donna” – “Corriere della Sera” il 13 settembre 2008)

Archivio Luglio 7, 2008

LO SPAZIO PER PERDERSI NEL TEMPO

C’è sensibilità, vedo, intorno al fatto che ai bambini non è concesso di perdere tempo. Io direi meglio: perdersi nel tempo, sfuggire a quell’unico senso del tempo per trovarne un altro, un tempo “magico”, come direbbero loro, un tempo di cui essere quasi gli unici testimoni, insegnandone ai noi adulti. Capiamo, evidentemente, che non perdere tempo vuole dire perdere qualcosa d’altro che è molto prezioso.

Il fatto è che si deve offrire loro lo spazio per perdersi nel tempo. Detto in una parola: chi può far loro compagnia, mentre fanno questo “lavoro”? Se le mamme e i papà lavorano, e lavorano sempre, e sempre di più, “chi guarderà i bambini?”, come si chiedeva il titolo del saggio di una psicoanalista francese? Come si deve fare?

Archivio Giugno 28, 2008

PROBLEMATICI NIDI

Continuo a ricevere una tale quantità di posta sugli asili-nido da non poter fare a meno di ritornarci. Mamme –tantissime- che si identificano con il mio pensiero politicamente scorretto: che i nidi non sono necessariamente il meglio per i bambini, e neanche per loro stesse, le quali infatti si sono arrabattate per trovare altre soluzioni. Più esiguo il gruppo di madri e soprattutto di educatrici, punte nel vivo, che ha argomentatamente difeso il nido.
Per arrivare a una sintesi: meglio un buon nido, e di nidi eccellenti senz’altro ce ne sono molti, che una nonna svogliata o una madre sola e depressa. Nessun dubbio. Ma è altrettanto certo che essere  separato dalla mamma a 6 mesi, 8 mesi o un anno non è esattamente una fortuna per un bambino. Che a quell’età l’esperienza non può essere ritenuta “formativa”. In quella fase della vita capitano cono cose molto più importanti della formazione. Negli 0-3, il momento dell’imprinting, più mamma c’è e meglio è. E più la mamma è felice di esserci, a sua volta accudita dal “grembo” costituito da un buon compagno, da una famiglia e da una comunità accoglienti per il nuovo nato, meglio sarà.
Mi perdonino tutte le bravissime educatrici, ma dire che la situazione ideale è questa, e che la soluzione preferibile deve avvicinarsi a questa idealità non può costituire un’eresia che le offende.
Ancora poche righe per dire qualche altra cosa: anzitutto che l’interesse del bambino è sempre prioritario rispetto a quello della mamma, del papà, dei datori di lavoro, degli educatori e così via. E’ da quello che serve a lui che si deve cominciare a ragionare. Le mamme vanno in ogni modo supportate nello svolgimento di quel preziosissimo lavoro –il più prezioso di tutti- che è crescere un nuovo essere umano; ma supportarle non significa necessariamente sostituirle, e poi pare che le giovani mamme di oggi non vogliano affatto essere sostituite. Sulla base di questa nuova sensibilità e di questi nuovi bisogni forse si può provare a inventare qualcosa di diverso dalla formula rigida e universale del nido, buona per il fordismo e oggi forse superata.
Visto il grandissimo interesse da settembre torneremo comunque in argomento con una serie di inchieste.
(pubblicato sui “Io donna”- “Corriere della Sera” il 28 giugno 08)

Archivio Giugno 25, 2008

Non è un paese per madri

Rproduco qui su richiesta di una gentile amica un articolo sul lavoro femminile, pubblicato qualche settimana fa su “Io donna”-“Corriere della Sera”. Chiedo scusa ai disinteressati. Domani un bilancio del dibattitino sugli uomini.

Guai a chi tocca il lavoro delle donne! E non per fare un piacere a loro. E’ il sistema Paese ad averne bisogno. Le donne sono così scolarizzate, efficienti, capaci… Ciò che fa ostacolo alla valorizzazione di questa risorsa fa ostacolo allo sviluppo tout court. Fa un certo effetto sentire illustri economisti maschi ed esponenti di Confindustria parlare di conciliazione, di asili nido, di quote. “Sono cose che dicevamo vent’anni fa…” commenta una pioniera, quasi amareggiata di avere avuto ragione. Ma se è vero, come valuta il professor Maurizio Ferrera, esperto di welfare e autore di “Il fattore D- Perché il lavoro delle donne farà crescere l’Italia”, che 100 donne occupate in più non solo non “rubano” spazio agli uomini ma creano un indotto (servizi, etc.) valutabile in +15 posti, facendo lievitare torta dell’occupazione e consumi; se è vero che +100 mila donne al lavoro equivalgono a un +0.28 del Pil, si capisce perché questione è ai primi posti nell’agenda degli imprenditori. Chi fa impresa non fa astratte questioni di genere: il problema, molto concreto, è il profitto.
“Priorità-Paese” per Confindustria, dove le donne (Emma Marcegaglia, Annamaria Artoni, Federica Guidi, per dirne alcune) non a caso tengono il pallino, il lavoro femminile non sembra invece fra le prime preoccupazioni della politica, saldamente in mano agli uomini. Uno dei primi provvedimenti, lo sconto fiscale sugli straordinari, non è certo ad hoc per le lavoratrici: il “lusso” degli straordinari è maschile, le donne li fanno a casa. E gratis. Non li possono, ma nemmeno li vogliono fare, disponibili anche a rinunciare a una fetta di stipendio pur di guadagnare tempo per la vita, l’amore, i figli. Fattore T: tutte le criticità, per le donne, hanno a che fare con il tempo.
Ma vediamo che cos’ha in mente il governo sulla questione. Mara Carfagna, ministra per le Pari Opportunità, è troppo presa a litigare con i gay e al momento non ha nulla da dire. Mariastella Gelmini, sua collega alla Pubblica Istruzione, intervenendo a un convegno sul Fattore D organizzato dal “Corriere della Sera”, spiega che “le leve sono due, quella fiscale e quella del merito: e la meritocrazia premia le donne. E poi servizi con orari flessibili, e una banca del tempo, da cui la donna possa “prelevare” ore se ne ha bisogno, per restituirle quand’è meno pressata”. Donne e famiglia nelle politiche governative fanno un tutt’uno. Il governo-ombra invece separa le questioni: “Pensiamo a misure transitorie di defiscalizzazione” dice Barbara Pollastrini, ministra uscente alle Pari Opportunità “non solo per le imprese che assumono donne, ma anche per le lavoratrici. E poi flessibilità negli orari lavorativi e dei servizi”.
Vent’anni che se ne parla, diceva la pioniera. E sempre a vuoto. Nel frattempo nel mondo del lavoro è successo di tutto. E buona parte del tutto ha a che fare con le donne, un’“invasione” che ha fatto irrompere la vita nel lavoro. Con le loro sofisticate strategie di sopravvivenza in una realtà a misura duramente maschile. Una rivoluzione che autorizza alcuni, come Sergio Bologna, studioso del lavoro da sempre, a parlare del “lavoro femminile come lavoro tout court” e non più “eccezione” alla regola di un lavoro maschile.
Le donne sanno più di tutti che cos’è il lavoro, quello per la produzione e quello per la riproduzione: se sono una risorsa è anche per questo preziosissimo doppio sapere. Sono loro le protagoniste del postfordismo e dei cambiamenti più tumultuosi. Ma il modo in cui sono costrette a lavorare resta quello degli uomini, una parità dolorosa e obbligatoria.
“La vera grande fatica” dice Gabriella Zanardo, imprenditrice intervenuta al convegno del “Corriere” “è adeguarsi a un modello che non è il nostro”. E’ anche per questo che il numero delle dirigenti resta basso. Lo conferma Anna Maria Artoni, presidente degli industriali dell’Emilia Romagna: “In Italia c’è un’incredibile crescita di imprese femminili: siamo tra i primi al mondo!”. Le donne salgono negli organigrammi aziendali per guadagnare una più agevole via di fuga: imprese autonome, percorsi lavorativi non standardizzati. Perché lì possono organizzarsi a modo loro. Il problema è trattenerle, più che sostenerle. Dice ancora Artoni: “Quello che serve non sono tutele. La chiave è il tempo, le chance sono lì: ormai anche nell’industria manifatturiera si possono flessibilizzare gli orari”. E perché non si fa? Perché il tabù resiste?
Quello che fa ostacolo alla valorizzazione della risorsa D è la detenzione dei corpi, è la rigidità degli orari, sono le perdite di tempo (Dio! Le riunioni!), l’organizzazione di tipo militare, le truppe sempre schierate, magari a non fare nulla. Anche tanti uomini non ne possono più. Siano benedetti asili e servizi, anche se il carico familiare può essere solo alleggerito, mai eliminato. Ma le vere soluzioni stanno altrove.
“Le donne mirano all’organizzazione del lavoro” dice Lia Cigarini della Libreria delle Donne di Milano. La Libreria ha posto il tema al centro della sua riflessione, e dedica al lavoro un inserto del periodico “Via Dogana”, in uscita in questi giorni. In questione è una ridefinizione del lavoro umano. E la chiave principale è una diversa concezione del  tempo. Ma c’è qualcuno che sia davvero disposto ad ascoltare il Fattore D, quando parla? Per dire, ad esempio, che il problema non è semplicemente dove piazzare i figli. Le giovani donne non sono più disposte a perdersi le prime parole e i primi passi dei loro bambini. “Perché invece di alleggerire il carico familiare delle madri non si pensa mai ad alleggerire quello lavorativo?” ci scrive una lettrice. “Perché invece di investire nei nidi non si prolunga il congedo parentale? Perché non si pensa al part-time e non si incentiva il telelavoro?”. Più che il carico familiare, il vincolo è l’incapacità organizzativa dei datori di lavoro.
In “Il doppio sì – Lavoro e maternità”, saggio in uscita sempre a cura del Gruppo lavoro della Libreria delle Donne di Milano, si spiega che il conflitto sessuale dall’ambito della coppia sembra spostarsi in quello lavorativo, tra il modo maschile e quello femminile di intendere il lavoro. Le donne del “doppio sì” non vogliono dover scegliere, il loro equilibrio sta nell’et-et, lavoro e maternità. Il libro parte dall’ascolto di quello che le donne hanno da dire, con particolare riguardo alla questione del tempo. E racconta tra l’altro esperienze di “part time di qualità”: donne che sono riuscite a garantire un’alta qualità del lavoro pur riducendo il proprio orario, puntando “più sul lavorare bene che sul potere e sul presidio fisico della postazione”.
La politica è disposta a tener conto di questi racconti, di queste esperienze, di queste invenzioni? Anche se, c’è da scommetterci, le cose che contano capiteranno nella vita reale, nelle pratiche concrete, non in quella politica. Tanto per cambiare.

MARINA TERRAGNI

Archivio Giugno 20, 2008

LA RIVOLTA DELLE MADRI

C’è stato un tempo in cui per una donna non essere madre era quasi sinonimo di libertà. Quel tempo è finito. Ho provato una profonda emozione leggendo la storia di quelle 17 ragazzine di Gloucester, Massachussetts, che hanno stretto un patto per diventare ragazze madri tutte quante insieme. Maternità e libertà che si ricongiungono. Il desiderio dell’amore di un figlio, la scommessa su una relazione “per sempre” per poter essere individue libere. Ha scritto la teologa femminista Mary Daly che da almeno un quindicennio “la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque”. Le donne devono negoziare la loro maternità con molti “nemici”. dal datore di lavoro al partner, che non è mai “pronto”. Da molte inchieste risulta che oggi le ragazze, visto come sono andate le cose alle loro sorelle maggiori sterilizzate a forza da una cultura antimaterna che nei fatti ha loro impedito di fare bambini al momento giusto, lasciandole childless per sempre, pianificano diversamente le loro vite, fanno i figli per tempo, e non accettano più di esserne tenute lontane da qualsivoglia “impegno di lavoro”, vogliono crescerseli, occuparsi di loro, guidare i loro primi passi, ascoltare le loro prime parole.  E’ una piccola grande rivoluzione, una rivolta simbolica che cambierà le vite di tutti.

Archivio Maggio 26, 2008

MENO MASTER, PIU’ ESPERIENZA

Certi ci nascono, con la vocazione dell’ortopedico, o dell’istruttore di vela, o del criminologo, o del veterinario, passioni che li divorano fin dalla scuola materna. Con un po’ di buona sorte riusciranno a diventarlo. Poco versatili, ma di sicuro fortunati. I più, nel frattempo, la stragrande maggioranza, brancoleranno nel buio, tentando qua e là. Il test d’ammissione a medicina, dove, come a “Chi vuol essere milionario”, cadranno sulla capitale dello Zimbabwe (quanti Fleming ci perderemo, in questo modo?). O la decisione shock per Scienze politiche, essendo che la più carina della classe ha avuto l’improvvida idea di iscriversi lì.
Mai visti sondaggi a riguardo, ma con buona approssimazione si può azzardare che la scelta degli studi è casuale 5 volte su 10, e forse siamo ottimisti. Se tutto andrà bene il nostro ragazzo casual si infilerà in un tunnel di formazione permanente che lo impegnerà per un’imprecisabile quantità di anni, fino alla laurea e ai master di svariato livello, con prospettive di inserimento nel lavoro inversamente proporzionali alla lungaggine del percorso scolastico.
Sbaglierò, ma ho sempre pensato invece che a lavorare si deve cominciare presto: per capire com’è, che cosa succede lì, di quali dotazioni si deve essere muniti, in che cosa si è bravi e in che cosa no, come si lavora in gruppo e come da soli, che sapore ha il pane che ti sei guadagnato. In più magari, provandoti sul campo, capisci meglio per che cosa sei tagliato, e corri meno rischi di condannarti all’inferno di un mestiere che non ti piace, che è quasi peggio di un matrimonio sbagliato. Per questo mi domando se per molti ragazzi non sarebbe opportuno un annetto di riflessione post-diploma, una specie di sabbatico per guardarsi in giro, fare un viaggio, lavorare qua e là, e maturare qualche convincimento: il cosiddetto gap year, da qualche parte nel mondo si fa. Magari un master in meno, ma qualche esperienza in più, in qualche azienda, in qualche bottega, per dare subito un morso alla vita vera. Ditemi se sto sbagliando. E comunque, mentre sono lì a sudare sugli Alpha test, non dimenticate che gli stiamo guastando i più begli anni della loro vita.
(pubblicato il 24.05.08 su “Io donna” – “Corriere della Sera”)