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Senza categoria, WOMENOMICS Marzo 9, 2010

RIVOLUZIONE WOMENOMICS

Women-In-Business

“L’avesse detto Pompeo Magno…” (storico collettivo femminista romano), osserva un’arguta amica. Ma che + donne = ottimi affari, lo garantisce il fior fiore degli osservatori economico-finanziari internazionali, mica quelle adorabili vecchie ragazze in gonnellone. Il genere non è un più un problema delle donne, ma una questione del business. Detto con le parole ultimative di Lars-Peter Harbing, presidente di Johnson & Johnson Europe, “mettere a fuoco la questione del genere non è un’opzione. E’ questione di vita o di morte”. Delle aziende e del business, s’intende.
Vediamo. Le donne lavorano fuori casa sempre di più. 2009, data storica: negli Usa è il sorpasso, le lavoratrici diventano i lavoratori tout court. La crisi fa più male agli uomini che a loro. Che anzi, lavorando di più, guadagnano di più. Sempre di più: si stima, per esempio, che nel giro di una decina d’anni le signore del Regno Unito deterranno il 60 per cento delle ricchezze personali. Ma guadagnando di più, spendono anche di più, decidendo voluttuosamente e in proprio che cosa comprare. Negli Stati Uniti l’80 per cento delle decisioni d’acquisto -non detersivi, pelati e pannolini, ma automobili, computer, telefonini e assicurazioni- è preso dalle donne. Ma nel Giappone tradizionalista le cose non vanno diversamente. Tant’è che per accattivarsi le consumatrici la forza vendita nipponica di American Express è al 70 per cento femminile. Il malloppo, dunque, è in mano loro.
Riusciranno i nostri eroi –pressoché tutti maschi- alla guida di quasi tutte le aziende del mondo a intercettare questo filone d’oro? Sapranno farsi un’idea di che cosa vuole una donna, supremo busillis del marketing contemporaneo? Che cosa vuole comprare, soprattutto? Se nemmeno Freud si diede una risposta, come sperano di riuscirci tutti quegli uomini al top, caparbiamente convinti di poter continuare a fare conti e strategie tra loro, senza dover sopportare la noia della presenza femminile?
Una ricerca condotta sulle 500 aziende top di Fortune ha scoperto che le aziende “bilingui”, ovvero con una buona mixité ai vertici, offrono performance significativamente superiori, sia a livello di rendimento del capitale netto, sia di rendimento per gli azionisti. Ricerche di McKinsey e di altri osservatori confermano. Le aziende con 3 o più direttori donne segnano un aumento pari al +83 per cento del capitale netto, +73 per cento di utili sulle vendite e +112 per cento di rendimento del capitale investito –mica noccioline- rispetto a quelle con “soffitto di cristallo o, a scelta, pavimento adesivo”.
Goldman Sachs ha astutamente creato un paniere azionario, Women 30, con i titoli di azioni capaci di beneficiare del crescente potere d’acquisto femminile: azioni che hanno realizzato performance superiori agli indici globali. Gestori di fondi come il ginevrino Amazone Euro Fund hanno deciso di investire in aziende con un buon numero di donne al top. E così via, in un irresistibile crescendo.
Al Pompeo Magno non se lo sarebbero neanche sognato. Date piuttosto un’occhiata a “Rivoluzione Womenomics – Perché le donne sono il motore dell’economia”, (edizioni Gruppo 24ore), documentatissimo best seller di Avivah Wittenberg-Cox e Alison Maitland. Minaccioso distico in apertura, ripreso da “The Economist”: “Dimenticate la Cina, l’India e Internet: la crescita economica è trascinata dalle donne”. Una lunga serie di prove schiaccianti e inconfutabili del fatto che la “questione femminile” oggi è una “questione di business”.
Senza le donne, a quanto pare, oggi economicamente non si combina più nulla, e la febbre globale rischia di diventare cronica. Eppure nei board le donne continuano a essere mosche bianche. “Raramente la loro invisibilità nei vertici aziendali è stata così visibile”. Fate sparire quelle imbarazzanti foto ufficiali dei Cda tutti in grisaglia, così poco women friendly. Negli Stati Uniti le direttore esecutive sono il 15 su cento, sotto il 10 per cento in Europa, un misero 2 per cento in Asia. Quanto agli organismi di decisione: 16 per cento di presenza femminile in America, 4 per cento in Europa, il solito 2 per cento in Asia. In Italia ci sono 5 consigliere di amministrazione ogni 100 uomini, e il Cda è monosex in 6 aziende su 10.
Pensate a una seduta-tipo di uno qualunque di questi board. Questione “donne” al penultimo punto, appena prima dei gruppi etnici. La prima cosa da fare, dicono Wittenberg-Cox e Maitland, è proprio questa: smetterla di pensare la maggioranza del genere umano come una fra le tante minoranze.
Fosse facile. Anche noi post-emancipate che per un certo tempo siamo state uomini, possiamo benissimo renderci conto della difficoltà. Immaginiamo come ci si possa sentire: dover rinunciare a uno degli ultimi luoghi femmine-esenti di questa terra. Le donne sono strane. Rompono le scatole. Non separano ermeticamente pubblico e privato. Fanno irrompere dappertutto il fastidio della vita, figli e cose simili. Hanno il ciclo. Ragionano in quel modo astruso. Ma il fatto è che, secondo tutti gli indicatori, questa stranezza fa fare affari. La differenza produce valore.
Si tratta di “attraversare una vera e propria rivoluzione culturale per giungere a convincersi che le donne non costituiscono tanto un problema, quanto una gigantesca opportunità”, incoraggiano Avivah e Alison. Che distribuiscono equamente i manager in tre categorie. I progressisti, sensibili alla questione del genere anche per ragioni private -l’esperienza personale è sempre decisiva-: le crisi isteriche di una moglie in carriera, una figlia con 12 master che non viene mai promossa. Ecco poi i temporeggiatori, convinti che basti un po’ di pazienza e la cosa, nel giro di non più di mezzo secolo, finirà per aggiustarsi da sé: “voce fluttuante”, dicono le autrici. “Bisogna convincerli a confluire nel primo gruppo”. E infine i reticenti, apertamente ostili al lavoro e alle carriere femminili, che magari hanno convinto la moglie a starsene a casa e ora non possono permettersi di fare gli splendidi in ufficio.
Lo scoglio principale è il riconoscimento di una differenza di linguaggio, e la presa d’atto che “la variante femminile è parlata da una maggioranza economicamente molto forte”. Ma allora, in tutta franchezza: sono le donne ad avere bisogno di aiuto, di corsi, di supporto, di counseling, di tutoring, di mentoring, di tutto quel complesso apparato pariopportunitario messo in piedi da molte aziende per adattare le signore alla dura realtà del lavoro in terra straniera, come immigrate di seconda generazione? O non si dovrebbe piuttosto pensare a rieducare gli uomini che “inconsciamente perpetuano lo status quo, continuando a beneficiarne”?
La questione è complicata, perché anche ammesso e non concesso che i board aprano alle donne, non è affatto detto che le donne aprano ai board. In Commissione Finanze della Camera è a buon punto una proposta di legge, prima firmataria Lella Golfo, sul riequilibrio di genere nei cda delle società quotate: almeno un terzo andrebbe al genere meno rappresentato. In Norvegia, come si sa, da un paio d’anni è in vigore una legge che impone quote del 40 per cento. Eppure qui, a quanto pare, le performance delle aziende non sono affatto migliorate. Dovendo ottemperare in fretta e furia alla norma, pena severe sanzioni, le donne sarebbero state imbarcate in modo precipitoso, senza far troppo caso a preparazione e know-how.
Ma non è semplicemente questione di essere capaci. Si tratta anche di volerci andare. Qui pesa un’ambiguità del desiderio. Capita che le più brave –e anche le “più donne”-, una volta sulla soglia dell’agognato inferno facciano un passo indietro. Perché preferiscono fare altro. L’economia avrà anche bisogno di loro, ma loro non hanno tutta questa voglia di caricarsela in spalla per rimetterla in carreggiata. Si sa che una volta là dentro ti toccherà la pena più grande che possa toccare a una donna: ragionare, vivere, fare riunioni, attaccarsi al BlackBerry, correre da un aeroporto all’altro esattamente come gli uomini, però molto più infelici di loro. Non è un caso che ogni giorno 240 donne (il doppio degli uomini) aprano una nuova impresa, come nota Margaret Heffernan, autrice di “How She Does It”, guida all’imprenditoria femminile: “Aziende con una crescita, in termini di fatturato, utili e posti di lavoro, assai più rapida del settore privato nel suo complesso”.
Se in proprio funziona, nelle aziende maschili invece “è così faticoso essere se stesse!”, si lamenta la direttora generale di una grande multinazionale americana. “Bisogna resistere continuamente alla tentazione di cambiare i propri comportamenti”. La pioniera Bell Burnell, astrofisica irlandese scopritrice delle pulsar, all’apice della sua carriera in mezzo agli uomini si domandava: “Sono ancora una donna? O un uomo di serie B? Un transessuale? Una virago? Un’amazzone?”.
“Trainare la crescita economica” sarà anche fantastico, ma qual è il prezzo? E poi: cosa si intende precisamente per “crescita economica”? Ed è proprio indispensabile quel linguaggio alienante “zeppo di messaggi e metafore riferiti alla conquista militare… Incoraggiare le truppe, essere pronti per la battaglia”? Perché non si ragiona per obiettivi anziché in termini di orario? Come si fa a restare l’una che si è, senza essere ridotte in cocci da “conciliare”? Si può stare in quei posti a modo proprio, come donne-donne, e non come trans? Perché diversamente “perderemmo proprio ciò che andiamo a cercare” dice Paul Bulcke, Ceo di Nestlè, evidentemente un “progressista”: “vale a dire un’altra prospettiva, un altro modo di vedere le cose”. Ma questo modo di vedere le cose nelle imprese continua a non avere corso. Il gatto si morde la coda. “Di adattamenti alle esigenze delle imprese le donne ne hanno già fatti fin troppi” spiegano Avivah e Alison. “Ora tocca alle aziende cambiare le regole per adattarsi alle esigenze delle loro dipendenti”. E’ questo che serve al business.
Fosse facile. Buttare all’aria tutto, modelli organizzativi, tempi, business plan, stili di leadership: che, “qualora sia consentito alle donne di essere autentiche, noi sospettiamo siano per molti aspetti molto diversi da quelli dei loro colleghi uomini”. Ma c’è un’altra questione, anch’essa cruciale. Perché gli uomini dovrebbero farsi da parte, e in cambio di cosa? Che cosa guadagnerebbero, dal cambiamento (a parte buoni dividendi)? Che cosa potrebbe incentivarli a fare spazio? E’ davvero così strano che continuino a resistere, uno contro una –e al contrattacco, a quanto pare- non avendo ancora ben capito che cosa fare di se stessi e della propria identità?
Il business detta le sue priorità e i suoi tempi: ma quali sono i nostri, di donne e di uomini? Quanto potrebbe costarci, in termini esistenziali, questa rivoluzione copernicana, e come si fa a pagare meno? Domande difficili e scorrette che nell’economia non hanno campo, e nemmeno nella politica. Ma provare a porsele, per i nostri compagni, per i nostri figli, non è anche questo intensamente femminile?

(pubblicato su Il Foglio il 6 marzo 2008)

Donne e Uomini, WOMENOMICS Febbraio 20, 2010

DIRIGENTI DISPERATE

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“Mi sento chiusa in un bozzolo”, dice Sara. “E io a un bivio” risponde Claudia. “Temo che la mia energia interiore si stia esaurendo” dice Paola. E Angela: “Non so se ho lottato per obiettivi miei…”. Non è una seduta di autocoscienza d’antan, ma un coaching per signore manager. “Esperienza” la chiamano gli organizzatori di Edò, società di formazione.
Sono una dozzina, tutte top e middle manager: Fiat, Unilever, Pirelli, Samsonite. Dirigenti disperate (rubo il titolo di un libro di Chiara Lupi, manager anche lei), che per cominciare risvegliano le energie con un po’ di ginnastica nella Spa del resort sul lago di Varese. Poi, guidate dal coach (maschio sensibile e accorto), snocciolano tutte quelle domande per le quali non hanno mai avuto tempo. Perché erano in riunione, o troppo prese dalla mission aziendale, o stavano lottando per non essere fatte fuori. Perché –nel loro mondo duplex– stavano telefonando alla pediatra, trattando con l’idraulico, provando a salvare il loro matrimonio dal logorio della vita multitasking (a differenza dei colleghi maschi, le manager non hanno mogli su cui contare). Con il rischio di confondere i registri, mamme al lavoro e dirigenti a casa: non è strano che tra i manager i divorzi siano aumentati del 60 per cento.
Parlando di sé una scoppia in un pianto improvviso. La sua vicina singhiozza anche lei. Ma come… “Sono piene fin qui” bisbiglia il coach. “Sature. Capita sempre. Non ne possono più”. Signore grintose e super-preparate, altro che hosewives, obiettivi di carriera pianificati e raggiunti, posizioni prestigiose, sulla soglia della stanza dei bottoni. Eppure si disperano.
Per le donne sarebbe un gran momento. Quello del raccolto, se Dio vuole. Negli Usa c’è stato il sorpasso: più donne al lavoro che uomini. In Italia il 2009 ha visto nascere 20 mila nuove imprese femminili. Verificata una volta per tutte l’equazione + donne = + business: le aziende con vertici anche femminili offrono le performance migliori e un +70 per cento in Borsa (McKinsey). La differenza produce valore. Il termine womenomics è ormai entrato a far parte del lessico dell’economia e della finanza. Eppure i Cda restano tenacemente in cravatta e grisaglia: da noi ci sono 5 consigliere ogni 100 uomini, e il Cda di 6 aziende su 10 è tutto maschile (meglio non farle circolare troppo, certe imbarazzanti foto dei board…). I signori manager –l’87 per cento-, resistono all’evidenza. Il profitto avrà le sue ragioni, ma tra uomini si sta più tranquilli: almeno qui, lasciateli in pace! Forse workshop, seminari e danze rituali dovrebbero farli loro, per prepararsi al faticoso ma inevitabile cambio di paradigma: dall’uno all’inedito, vertiginoso due.
Ore 11.00, dopo il coffee break: “Non abbiate paura del vostro femminile!” implora il coach. “Non copiate il modello maschile! Date a noi uomini il tempo per abituarci”. Sembra di sentire Niall Fitzgerald, già ad di Unilever e oggi vicepresidente di Thomson Reuters, colosso dell’informazione economico-finanziaria: “Il mio consiglio è: non cercate di sviluppare qualità maschili proprio nel momento in cui stanno prendendo quota quelle femminili. Rimanete voi stesse e sollecitate gli uomini ad adottare modelli di comportamento diversi”.
Non è un’impresa da poco. Può voler dire un’altra idea del lavoro, della sua organizzazione, dei suoi tempi, con novità stravolgenti tipo flessibilità, house working e postazioni in remoto, altri linguaggi, più relazioni, meno gerarchia e più networking. Può voler dire lavorare per obiettivi chiari in tempi definiti (indicatori di output), e non piegarsi più alla logica della “disponibilità illimitata della risorsa”, come si dice in gergo: ovvero in ufficio ad libitum per fare carriera, magari a far niente ma presidiando la posizione (indicatori di input), ostaggi di quei “ladri di tempo”, come li chiama qualcuna, che ti organizzano riunioni alle sette di sera solo perché “loro a casa non ci andrebbero mai”. Anche i maschi più giovani, del resto, e non solo le donne, non sono più disposti a vivere così.
E ora raccontatemi un vostro obiettivo, invita il coach. “Bere più acqua”. “Basta dolci”. “Per un’ora niente BlackBerry” (wow!). “Non cedere ai persecutori” (aiuto!). Lella Golfo, deputata Pdl e presidente della fondazione Marisa Bellisario, è prima firmataria di una proposta di legge per il riequilibrio dei generi nei cda delle società quotate in borsa (v. box). Dice che in effetti “oggi gli uomini tendono a porsi sulla difensiva. Ci sono segnali di forte dialettica”. Anche Paola Pesatori, HR manager di Pirelli, racconta un clima da contrattacco: “La crisi sta costando più alle dirigenti” dice “che alle lavoratrici in genere. In molte aziende si gioca un po’ subdolamente sul work-life balance: ma perché, si dice alle dirigenti, non te ne vai finalmente un po’ a casa, a fare tranquillamente  le tue cose?”. In soldoni, trattasi di potere: una in più fa uno in meno. Il nodo è al pettine, e non si fa districare. La patata è bollente, e scotta nelle mani delle manager.
Ore 15.00, dopo il lunch: i vostri leader ideali? chiede il coach. Gesù, Giovanni Falcone, mia madre; un mio ex-capo, Giovanni Paolo II e il Dr House, “che alla fine arriva con la sua zampata di genio”. E ora ditemi, continua il coach: assoluto divieto d’accesso a… “Ai capi che entrano nella tua vita privata” dice Mariella; Claudia: “A quelli che non sanno gestire il loro tempo e invadono il tuo”. E un’altra: “Al mio ex-capo che mi ha tolto ogni giorno un pezzetto di autostima”. E’ guerra?
Monica Possa, direttore Risorse umane e organizzazione di Rcs Mediagroup, è indicata dalla Professional Women’s Association tra le 70 manager italiane titolate a entrare nei Cda. Fino a un certo punto della sua carriera ha creduto che le capacità e il merito potessero sbaragliare ogni ostacolo. Ma dopo anni di esperienza sul campo –e un bambino, che per una donna resta la super-esperienza- si è arresa all’evidenza che “senza una scossa al sistema non cambierà mai nulla. Senza azioni positive, con un preciso target numerico, tutto resterà com’è”.
Diamo alle cose il loro nome: senza un po’ di conflitto, un briciolo di sex-war… “Imporre quote” continua Possa “può essere un gesto conflittuale. Ma non è detto che ci sia solo questo. Nelle aziende esistono anche uomini non insicuri, che non si fanno spaventare dall’idea del cambiamento, pur con le fatiche che comporta. Uomini capaci di passare da un rassegnato “c’è bisogno delle donne” a un convinto “ho bisogno che ci siate”. Trovare interlocutori come questi può dare grandi risultati”.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 20 febbraio 2010)

Donne e Uomini, WOMENOMICS Gennaio 31, 2010

QUESTIONE MASCHILE

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Boston Globe, editoriale a firma Alex Beam (un uomo, a scanso di equivoci). Beam snocciola i numeri che descrivono la radicale femminilizzazione degli States, onda in arrivo anche da noi.
Il lavoro è delle donne: il sorpasso è avvenuto, ci sono più lavoratrici che lavoratori. E i settori di occupazione che promettono una crescita maggiore, secondo le proiezioni degli economisti, sono proprio quelli in cui le donne sono più forti. La rete è delle donne: 2 anchorwomen per un anchorman. Il pubblico della tv è più femminile che maschile. Le donne comprano più quotidiani, più libri, divorano cultura e sono politicamente più attive: per l’elezione di Barack Obama il voto femminile è stato determinante. Più che di recession sarebbe corretto parlare di he-cession, o di man-cession: il sesso più colpito dalla crisi è stato quello maschile. Secondo il Bureau of Labor Statistics, sono gli uomini a correre il maggior rischio (+ 30 per cento) di restare disoccupati.
Le stanze dei bottoni per ora restano surrealmente for men only, ma anche lì il vento della rivoluzione fa sbattere porte e finestre. Siamo finalmente e brutalmente al nodo del potere, nudo e crudo. Potendolo fare -–fecondazione assistita con predeterminazione del sesso- scelgono femmine 2 coppie americane su 3: il negativo della Cina. Ma anche qui presto cambieranno idea. Il secondo sesso fa carriera e diventa il primo.
L’enormità del cambiamento non trova adeguata rappresentazione: nei media, ancora ampiamente in mani maschili, ma anche nelle coscienze femminili, che restano sintonizzate su vittimismo e recriminazione. L’inconscio è più lento della realtà.
C’è poco da festeggiare, care signore. L’ideale sarebbe restare in due, senza che un sesso mangi in testa all’altro, in un equilibrio dinamico e difficile. Io amo intensamente la mia libertà, ma amo anche gli uomini e li vorrei in forma, e definitivamente liberati dalla tentazione della violenza e del dominio. Cerco e onoro il mio femminile, ma non a scapito del mio inner boy. E’ il caso di prestare tutti molta attenzione alla questione maschile. Anzitutto riconoscendo che esiste.

(pubblicato sui Io donna-Corriere della Sera il 30 gennaio 2010)

Donne e Uomini, Politica Gennaio 8, 2010

LAVORI TU, COMANDO IO

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La cosa è piuttosto imbarazzante. Vittorio Zucconi racconta sulla Repubblica di oggi che il traguardo è stato raggiunto, e negli Stati Uniti metà dei lavoratori sono donne -stiamo parlando del lavoro retribuito, sia chiaro: il lavoro in senso lato è da sempre una faccenda ben più femminile che maschile-. Qui da noi ancora non ci siamo, ma ci saremo presto, nessun dubbio. Quindi niente lagne.

Le signore dunque lavorano tanto quanto gli uomini -di più-, e vengono retribuite come gli uomini -di meno-. Ma quando si tratta di prendere decisioni restano fuori dalla porta, qui come negli Stati Uniti (anche se qui molto di più). La cosa imbarazzante è questa. Oggi tutto ciò che è femminile è oggettivamente attraente, anche perché dalle tasche delle signore passa un bel po’ di denaro, e sono loro a decidere come spenderlo. Per questo, anche quando si tratta di imprese femminili o di business rivolti alle donne, e anzi sempre di più, gli uomini pretendono di tenere il pallino, di stabilire le regole, di decidere, di comandare, e naturalmente di intercettare gran parte del flusso dei soldi, perchè alla fine quello che conta è questo. Il piatto femminile è ricco, e io maschio mi ci ficco.

Di qui si possono trarre almeno due conclusioni: a) se il lavoro è sempre più femminile -o femminile tout court, se è vero che la gran parte dei nuovi posti vengono occupati da donne- allora oggi siamo noi donne a dover decidere che cos’è il lavoro, come va organizzato, in quali modi, in quali tempi, con quali obiettivi, e così via: non è questione di conciliazione, ovvero di supportare le donne perché possano adattarsi a un’idea maschile del lavoro, si tratta proprio di cambiare l’idea del lavoro, e che siano le donne a farlo; b) se questo non avverrà in tempi ragionevoli, si tratterà di ricondurre i conflitti sul lavoro, destinati inevitabilmente ad acutizzarsi, al più generale conflitto tra i sessi; si dovrà avere il coraggio di dargli questo nome, care le mie amiche manager, e agire di conseguenza.

A ciò aggiungo una terza considerazione. Da molti anni, per passione e per professione, osservo come vanno le cose tra le donne e gli uomini, e credo di poter dire questo: che tra i grandi poteri, solo la Chiesa, al suo livello più alto, mostra di voler leggere fino in fondo quello che sta capitando, prestando ascolto, almeno intermittente, a quello che le donne hanno da dire sul mondo –mentre la politica resta brutalmente e opportunisticamente sorda-. Sarebbe il momento che questo ascolto si facesse più continuativo e intenso, e il sostegno più esplicito.
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Donne e Uomini, esperienze, Politica Novembre 13, 2009

SENTI, MARIASTELLA…

Universita': dl, mercoledi' fiducia alla Camera

Nel suo editoriale su Avvenire, la mia amica Marina Corradi invita il ministro Mariastella Gelmini, quinto mese di gravidanza, a non perdersi “le ore più belle” insieme al suo figliolino, quando nascerà. Mariastella avrebbe pensato a una soluzione eroica, alla Dati: nemmeno un giorno a casa, c’è troppo da fare. A parte il fatto che la cosa non ha portato per niente fortuna a Rachida, noi stiamo dalla parte del figliolino che vorrà la sua mamma accanto ancorché ministra, cosa della quale a lui non importa proprio nulla.

Come avevamo detto a suo tempo per Rachida, l’eroismo di Mariastella non fa bene alle altre mamme, perché autorizza i datori di lavoro a pretendere altrettanto dalle loro dipendenti (“la Mariastella sì e tu no?”). Una donna in una posizione eminente è un modello per tutte e tutti, e crea con ciò che fa dei “precedenti” simbolici. In questo ha una grande responsabilità. Ma non si tratta solo di giorni di permesso. La cosa che conta è questa messa in parentesi della maternità– e in una parentesi sempre più stretta-, l’esperienza più sconvolgentemente femminile che noi donne “maschilizzate” possiamo ancora fare. Quando diventi madre, quando senti quegli odori e sperimenti quei tempi che corrono dalla notte dei tempi, scopri e capisci tante cose importanti non solo per te e per il piccolo, ma anche per il mondo, che ne ha disperatamente bisogno. Che ha più bisogno del tuo latte che delle tue scartoffie.

Ma se posso dire la questione -a casa o subito al lavoro?- così è malposta. Non ci sono casa o ufficio, lavoratrice o madre, privato o pubblico: c’è la vita, che ognuna deve poter aggiustare a modo suo. Questa discontinuità è un’invenzione degli uomini. Nel lavoro e sulla scena pubblica le donne devono inventare altro, qualcosa di più fluido e felice. Non ho mai lavorato tanto e tanto bene come da quando sono diventata madre, mi viene da ridere se penso a me prima, maschietto in mezzo ai maschi. Io lavoro e lavoro e sono madre e moglie e figlia accudente, ed è un tutt’uno che non saprei separare. Vivo, insomma, in un continuum alla ricerca della gioia.

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Donne e Uomini, economics Ottobre 23, 2009

WEEK END IMPEGNATIVO

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Week end di un certo impegno. Cambio d’ora, temperature massime che tornano sui venti gradi -rimettere nuovamente i cappotti nell’armadio-, primarie, e una marea di iniziative. A Milano per esempio, il design, la festa del teatro, e un incontro molto significativo: la presentazione alla Casa della Cultura di via Borgogna, sabato alle ore 16.00, di un importante documento sul lavoro e sulla vita delle donne e degli uomini (Sottosopra), frutto di un’approfondita riflessione della Libreria delle Donne.

Il documento sarà presentato contemporaneamente molte altre città, Bergamo, Bologna, Verona, Torino, Spinea, Parma, Mestre, Roma, Pesaro Palermo, Lecce, Catania… vedete se c’è anche la vostra: http://www.libreriadelledonne.it/news/news.htm,

oppure painuz@tin.it, 348 7098609.

Donne e Uomini, economics Settembre 29, 2009

IMMAGINA CHE IL LAVORO

Mentre state correndo per andare a lavorare, o siete già sedute e seduti -spesso infelicemente- alla vostra scrivania, separate e separati dalla vostra vita, sentite qui:

“…Puoi dimostrare che non ha senso separare tempo di vita e tempo di lavoro e quindi pretendi che cambi il concetto di lavoro e di tempo di lavoro. E a partire da qui, dal lavoro inteso come unità di lavoro retribuito e di relasioni, pretendi di ridefinire l’economia, la teoria sociale e politica… Tutto ciò ipotizza un cambiamento di civiltà (primum vivere) oltre che di misure e di regole economiche… Non possiamo più permettere che siano le condizioni di lavoro, spesso nemiche dei nostri più elementari desideri, a cambiarci nell’intimo, come persone…”.

Eccetera. C’è molto altro. 8 pagine di riflessioni per un Manifesto del lavoro delle donne e degli uomini, scritto da donne e rivolto a tutti, “perché il discorso della parità fa acqua da tutte le parti e il femminismo non ci basta più”.

Il manifesto è scritto da un gruppo di donne di diverse età ed esperienze che da anni, per tutte e per tutti, si sono date il tempo di riflettere sul tema del lavoro. Per averne copia, potete scrivere a questo indirizzo e-mail: painuz@tin.it o passare dalla Libreria delle Donne a Milano, via Pietro Calvi 29.

Il prossimo 24 ottobre, in contemporanea in molte città italiane, si dibatterà sul manifesto in gruppi di discussione a cui anche voi potrete partecipare, o che anche voi potrete contribuire organizzare, rivolgendovi allo stesso indirizzo e-mail.

Donne e Uomini, economics Giugno 19, 2009

MENO DELLE FOTOCOPIE

Leggo oggi sul Corriere di un’indagine della Sda Bocconi secondo la quale la maternità costa alle aziende meno della carta delle fotocopie. Il costo percepito, invece (questo lo dico io) è molto più alto.

Dice Mario D’Ambrosio dell’Aidp, Associazione italiana direttori del personale, che “quando la dipendente torna dalla maternità il reinserimento richiede uno sforzo all’organizzazione“. Ma forse un’organizzazione che debba sforzarsi tanto per reinserire una neomamma non è una buona organizzazione, perché è costruita su corpi-anime maschili -e invece lì ci sono donne e uomini- e separando rigorosamente pubblico e privato -una finzione che, questa sì, ci costa molto cara-.

Capiterà molto nel lavoro, nei prossimi anni. Noi stiamo qui sempre a parlare di quella politica, che alcune amiche chiamano “politica seconda”, e dei suoi imbarazzanti protagonisti, mentre la politica prima è proprio lì, dove viviamo ogni giorno, dove capitano le cose che contano.

AMARE GLI ALTRI, Politica Giugno 6, 2009

L'ITALIA CHE VORREI

opera di giuliano tomaino

opera di giuliano tomaino

Oggi e domani si vota. Necessario silenzio pre-elettorale. Un’idea su come andranno le cose ce l’ho, ma la tengo per me. Saranno elezioni significative per il nostro paese, questo si può dire. E ci daranno un contributo per capire, lette in filigrana, da che parte stiamo andando.
Mi pare che sia uno di quei momenti climax, in cui si decide che strada imboccare e in quale mondo vivere. Uno di quei momenti in cui si tirano le somme e si gettano le fondamenta dei decenni successivi. C’è lotta, diciamo così, su tanti fronti, anche se è una lotta microfisica, interstiziale, più nel chiuso delle coscienze che all’aria delle piazze. E i fronti sono molti. Che cosa fare con i migranti, tra deregulation e utopie claustrofiliche. Che strada imboccare in materia di energia. E poi il destino della famiglia, sottoposta a doppio attacco: una fisiologica erosione, da un lato, in favore della solitudine, e dall’altro la costante disattenzione da parte dello stato. Il lavoro, soprattutto per i nostri figli: migranti a loro volta, più o meno qualificati, stavolta verso Est, e noi qui, vecchi bianchi tenuti a bada, in tutti i sensi, da una gioventù coloured che ha lasciato i suoi vecchi nel paese d’origine. E poi le donne, sempre più disilluse sugli uomini, e gli uomini, sempre più trascurati dalle donne, e in mezzo le bambine e i bambini, sempre più lontani dai padri, in un nuovo assetto post-edipico che solo la fantapsicologia può aiutarci a immaginare…
Io non vi dico chi voterò, né se lo farò. Ma posso dire, a grandi linee, in che genere di paese mi piacerebbe vivere. Un paese in cui l’individuo conti un po’ di meno, e le relazioni un po’ di più, e la nostra millenaria capacità dell’altro in tutte le sue declinazioni -le donne per gli uomini, gli uomini per le donne, i vecchi per i giovani e i giovani per i vecchi, i migranti, e così via- torni a essere una risorsa decisiva. Un paese organizzato intorno all’intelligenza della bellezza, che ci è data in origine e per dono, e che sappiamo, quando vogliamo, restituire al mondo: un nuovo fecondo kalos kai agathos, un bello che è anche buono e produttivo.
Penso che per andare avanti noi italiani dobbiamo voltarci indietro. Anche molto molto indietro.

(pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 6 giugno 2009)

TEMPI MODERNI Giugno 2, 2009

BARACCONI MANGIASOLDI

Sono una ragazza sensibile agli sprechi: spengo le luci accese inutilmente, non lascio correre l’acqua a vuoto. Mi secca molto anche buttare il pane avanzato, ma non ho galline (si possono tenere galline in un condominio metropolitano?). Quelli che fra voi lavorano in una grande azienda soffriranno come ho sofferto io per il riscaldamento a palla in certe sfolgoranti giornate di sole –che in più fa ammalare: ma gli impianti in quegli enormi baracconi non si comandano in pochi minuti-, per l’illuminazione degli uffici, spesso giorno e notte, per gli spazi inutilizzati, i tempi morti e improduttivi, gente che passa giornate su Facebook nell’attesa che qualcuno le dica che cosa deve fare: vite buttate; e in più il tempo perso per raggiungere il posto di lavoro, le strade intasate di macchine alle otto del mattino, l’aria impestata dagli scarichi, il costo sociale dell’infelicità. Cose che sappiamo tutti.
In questi momenti difficili, con il Pil che cala a picco, i bilanci in rosso, il sibilo sinistro delle forbici alle orecchie, mi domando: non verrà in mente a qualcuno che si potrebbe tagliare proprio lì, riducendo i costi di queste cattedrali di vetro e acciaio a ventilazione forzata, approfittando della splendida tecnologia pulita di cui oggi disponiamo, decentrando funzioni e mansioni che non richiedono la compresenza fisica –e oggi sono moltissime-, flessibilizzando gli orari, ottimizzando le prestazioni, smontando definitivamente il fordismo per favorire un ritorno a quel casa-e-bottega che risolverebbe in un colpo solo molti problemi (meno inquinamento, quartieri più vivi e più belli, welfare più leggero, meno infelicità, e per le aziende meno spese)?
Non apro nemmeno il capitolo degli sprechi della politica politicante, di lì non mi aspetto davvero più nulla, se non lo spettacolo indecoroso degli ultimi giorni di Pompei: ma per i privati non sarebbe il momento di attivare certe innovazioni virtuose, passando da un improduttivo, dispendioso e farraginoso modello patriarcal-militare-gerarchico-piramidale, tutte le truppe ritualmente ammassate lì in attesa di comandi, a un modello reticolare, complesso, dinamico, leggero e, ma sì, lasciatemelo dire, femminile?
Del resto ormai da tempo il lavoro non è più cosa per soli uomini.

(pubblicato su Io donna- Corriere della Sera il 30 maggio 2009)