La notizia non deve sfuggire: il Sud a 5 stelle manda un gran numero di donne alla Camera e al Senato. Molte più elette che in Lombardia. Una prima volta per le cittadine meridionali. Che va osservata con attenzione
Campagna elettorale 2018: le donne non vanno più di moda
Le donne non sono più target del marketing elettorale. Siamo un tema vecchio e poco smart. Ma come materia prima -prostituzione, utero in affitto- andiamo sempre piuttosto forte
Il NO non è stato populista, ma popolare, che è ben altra cosa. Populista potrebbe essere semmai la risposta politica che è ancora tutta da costruire. Tocca al Pd arginare la deriva a destra. A patto di affrontare l’emergenza sociale. E quanto a Renzi…
Milano, cercasi programma. Questo -su periferie e città metropolitana- è il mio
Qui Milano. Visto che downtown è tutto un Risiko di alleanze e contro-alleanze, candidature e controcandidature, chi sta con chi, a casa di quale candidato ci si vede oggi, ma di programmi, ovvero di che cosa c’è da fare in questa città non sta ancora parlando nessuno, rompo gli indugi e ne parlo io, che non sono candidata a niente. Così, magari li ispiro.
Quello di cui voglio parlare è il tema periferie-città metropolitana. A cominciare dal dire che forse sulla città metropolitana si rischia un eccesso di burocratismo che di sicuro non farà affezionare la gente al processo e non la renderà partecipe dell’impresa. E il fatto di vedersi passare la cosa sopra la testa e calare le cose dall’alto non è di buon auspicio perché la cosa funzioni. Quindi sforziamoci di deburocratizzare il processo, di renderlo più amoroso.
Si tratterà di una bella rivoluzione. E quelle che oggi sono intese come le periferie diventeranno nuovi centri, luoghi-ponte nel processo di costruzione della città metropolitana. Ponti non solo topografici, ma anche concettuali e sentimentali. Nuclei della città nuova, collocati nel punto di tensione tra la forza centripeta del centro storico e quella centrifuga dei comuni metropolitani. L’ultima rivoluzione di questo tipo –anche se non sono un’urbanista- probabilmente è stata la progressiva annessione alla città dei borghi e dei cosiddetti Corpi Santi, tra fine 800 e primi 900. Lì qualcosa è andato bene e qualcosa male. Nella maglia sono rimasti dei buchi che si sono riempiti di abbandono e di nulla.
La prima questione da impostare è quella ambientale. Viviamo nell’area più inquinata d’Europa, una specie di Pechino. Se la città metropolitana è il futuro, l’aria avvelenata è il presente. Tra i molti gap del nostro bizzarro Paese c’è anche questo: tra l’aria più pura d’Europa (Sila) e quella più impura (pianura Padana). Va posta da subito la massima attenzione a una politica integrata dei trasporti: all’efficienza della mobilità cittadina oggi si contrappone l’incredibile fatica del pendolarismo extraurbano, con la fiumana di auto in entrata ogni mattina. Ma si deve pensare anche alla riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati, alla salvaguardia e una progettazione di nuovi polmoni verdi. La questione ambientale è del resto strettamente connessa anche al tema del lavoro e delle nuove povertà: la redditività degli investimenti pubblici per la riqualificazione energetica e per la salvaguardia del territorio è notevolmente superiore a quella di qualunque “mancia” fiscale a pioggia.
Nell’ambito della conferenza sul clima di Parigi, Naomi Klein ha introdotto un bellissimo concetto-paradigma, quello di “democrazia energetica”. Non lo intendo solo dal punto di vista delle fonti di energia, penso che possa essere suggestivo anche per molte altre questioni, dal lavoro al modello di città che andremo a costruire.
Tornando alle cosiddette periferie: considerato il ruolo centrale che assumeranno nel processo di costruzione della città metropolitana, il passaggio preliminare a ogni soluzione urbanistica è l’autoconsapevolezza, il racconto che ogni quartiere fa di se stesso: narrazione da cui traspare il genius loci, il talento inespresso, la vocazione di ogni luogo. Ogni quartiere dovrebbe poter raccontare la propria storia, il proprio unicum, il proprio potenziale. Per partire, più che dall’ elencazione dei problemi, dall’autorappresentazione del proprio meglio -ogni quartiere ne ha uno- e per agevolarne la fioritura, assecondandone la vocazione e sostenendone il programma “genetico”. Un lavoro antropologico –ascoltare chi vive in quei luoghi, raccoglierne la memoria e i desideri- prima ancora che politico.
Come dice Italo Calvino, “Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici”.
Niente può essere calato dall’alto. E’ chi vive lì che ti deve far vedere il suo posto bello. Non si tratta di invitare sussiegosamente a una partecipazione civica, ma di vero protagonismo nei processi. Paradigmatico, a questo riguardo, un caso come quello dei Quartieri Spagnoli di Napoli, che noi vediamo come il massimo del degrado urbano, ma la cui autorappresentazione spesso è molto diversa. Penso al pride di una signora affacciata da un basso che mi ha detto: “A Napoli io non ci vivrei mai”. Che cosa capita lì di buono che noi non sappiamo vedere? E nella stessa logica, dov’è il buono di ognuna delle nostre periferie? Ogni luogo ha una sua storia da raccontare, e si tratta di fargliela raccontare. Decenni di quantum, di necroeconomia, di case fatte su in fretta e furia e con il cartone in una logica di profitto sono la crosta che dobbiamo scrostare, la concrezione che dobbiamo demolire.
Si tratta di fuoruscire da una logica “centripeta”, non sentendosi più gli esclusi dal centro storico ma gli inclusi nel centro dei propri contesti. Tante nuove aree C. Saper fare dei propri luoghi di vita posti dove la gente vuole venire perché lì trova qualcosa che non troverà da nessun’altra parte della città, che dobbiamo immaginare strutturata ad arcipelago, ogni isola con la sua specificità. Alcuni processi sono già in atto, si tratta di saperli leggere, rappresentare e facilitare. Per esempio l’area intorno al naviglio Martesana, fortemente strutturata sulla memoria di una storia condivisa e sulla presenza del corso d’acqua, sta spontaneamente diventando una cittadella dello sport, con l’alzaia popolata di maratoneti e ciclisti che arrivano da tutta la città, vocazione che va considerata e valorizzata.
Il linguaggio è importantissimo perché è il primo gesto propriamente umano. Da molti anni insisto nel dire che non si dovrebbe più parlare di periferie. Bisognerebbe buttare via questo termine e sostituirlo con qualcos’altro. Trovare il nome della cosa significa farla esistere. Se il nome fosse già stato trovato, probabilmente oggi quelle che chiamiamo periferie sarebbero in una situazione migliore. Se ci si fosse già mossi in una prospettiva policentrica e non area C-centrica, la questione della città metropolitana sarebbe in gran parte impostata. Vivendo in periferia devo purtroppo dire che negli ultimi 5 anni la situazione non è affatto migliorata, si è anzi sperimentato un certo abbandono. Forse non l’assoluta miopia borghese della sindaca Moratti, che agli abitanti di Greco, devastati dal fracasso delle ferrovie, disse: “E chi gli ha detto di andare ad abitare proprio lì?”. Ma anche con la nuova giunta nella migliore delle ipotesi abbiamo visto un certo paternalismo che peraltro non ha prodotto risultati apprezzabili.
Quando penso alle periferie non mi riferisco a buchi neri tipo via Gola o ad altri complessi popolari che sono diventate fortini inespugnabili della criminalità organizzata. E’ sbagliato pensare di impostare il lavoro su situazioni limite. Sto parlando dei luoghi di vita della gran parte di noi e dei nostri concittadini: nelle cosiddette periferie vive più o meno dignitosamente il 60 per cento dei cittadini milanesi. Tra lo splendore di Porta Nuova e l’orrore di via Gola c’è la parte più importante delle cose da dire e da fare.
La politica ha molta difficoltà a prendere atto del fatto che nelle cosiddette periferie non solo c’è il futuro, ma anche la parte più interessante del nostro presente. Per esempio: mi ha molto –negativamente- colpito una cosa che ha detto l’ex-candidato sindaco Emanuele Fiano: che la mente della città, il suo motore innovativo sta in centro, e poi fuori c’è il corpaccione dei luoghi dove la gente vive, su cui questa mente deve applicarsi. E’ concettualmente molto sbagliato, perché se c’è un luogo da cui può nascere e dove sono sempre nate innovazione, cultura, anche nuova cultura politica, è proprio la cosiddetta periferia. Spesso le periferie urbane sono luoghi dove si produce e si consuma contemporaneità.
Mi viene in mente una cosa che anni fa ho sentito dire da Vivienne Westwood, strepitosa designer inglese madre del punk, il cui segno ha influenzato fortissimamente gli ultimi decenni. Lei è nata poverissima nel villaggio di Tintwistle, Derbyshire, proprio non avevano da mangiare, e ha imparato il suo lavoro di stilista dalla madre che le cuciva quattro stracci perché non c’erano soldi per comprare i vestiti. Poi approda a Londra e va a vivere in non so quale zona strapopolare. Intanto si afferma come stilista, la sua griffe comincia a diventare importante e tutti si aspettano che lei cambi casa per stabilirsi a Kensington o in qualche altro quartiere posh. Ma lei dice che non si sposterebbe mai da dove abita, perché perderebbe le sue radici, la sua creatività, il suo desiderio, e non combinerebbe più niente di buono, non farebbe nemmeno più soldi, niente di niente. Certo, essere nato e vivere in periferia aiuta molto a capire. L’architetto Renzo Piano, che al tema sta dedicando grande parte della sua recente riflessione professionale e politica, in periferia ci è nato e cresciuto.
Etty Hillesum dice che la bellezza è dappertutto. Lei ha saputo vederla perfino nel campo di detenzione di Westerborck, prima di andare a morire ad Auschwitz, quindi la sua lezione è piuttosto importante. La bellezza è dappertutto e ha bisogno di noi che sappiamo vederla, trovargli un posto nel nostro cuore, ospitarla dentro di noi come una donna ospita un bambino nel suo grembo, e fargli molta pubblicità, senza lasciarci accecare dalla grande quantità di brutto e cattivo che vediamo intorno. E’ fin troppo facile trovare la bellezza dove è conclamata. Così non ci mettiamo al lavoro né politicamente né spiritualmente. Quando contempliamo qualcosa di bello, i Bronzi, la facciata policroma del Duomo di Firenze o una qualunque delle nostre molte meraviglie, dovremmo saper vedere non tanto il risultato consolidato quanto il fervore umano che l’ha prodotto e continua ad animarlo, che è la lotta del qualis contro il quantum, il massificato, il triste, il mortifero. Prima queste bellezze non c’erano e poi ci sono state. E’ proprio su quest’arco di tempo che corre tra il non esserci e l’esserci che dobbiamo porre la nostra attenzione.
Si tratta di cogliere il moto del desiderio: e il desiderio è la materia prima di cui le periferie abbondano.
Quanto alla mancanza di soldi: Edi Rama, artista albanese, primo ministro di quel Paese, prima è stato sindaco di Tirana. Riguardo a questo incarico, Edi Rama ha detto: “È il lavoro più eccitante del mondo, perché arrivare a inventare e a lottare per una buona causa di tutti i giorni. Essere il sindaco di Tirana è la più alta forma di conceptual art. È arte allo stato puro“. Trovatosi nel 2000 ad amministrare una città difficilissima, senza un piano edilizio, sconciata da un abusivismo arrogante spesso gestito dalla criminalità, Edi Rama ha demolito centinaia di edifici abusivi, piantato migliaia di alberi e ripristinato le strade: ma soprattutto ha riempito le case di colori. Le facciate di case, palazzi e uffici di colore grigio sovietico sono state dipinte di colori sgargianti. Gli spazi pubblici sono stati restituiti alla collettività e nello stesso tempo sono diventati una piattaforma di sperimentazione per artisti, un’installazione permanente; la città ha ripensato il modo di autorappresentarsi e rifondato la sua identità su nuovi principi. L’idea è stata la bellezza a costo quasi-zero per fare una nuova politica. Non si tratta di bilanci opulenti, che non ci sono più, né di mega-interventi magniloquenti e speculativi. Si tratta di saper lasciare segni di bellezza intorno ai quali si coagula vita. Catalizzatori vitali.
Lo dice bene Fulvio Irace, Storico dell’architettura e professore al Politecnico di Milano, si dovrebbe immaginare una sorta di “agopuntura urbana, che oppone alla visione dall’alto la percezione dei luoghi nella loro dinamica sociale e fisica: a innesti e tecniche di manipolazione minimali, capaci di stimolare il metabolismo urbano e produrre l’autorigenerazione della città e dei suoi spazi pubblici”.
Naturalmente a questo modo di vedere le cose molti potrebbero opporre la questione onnivora della sicurezza, il fatto che nelle periferie la priorità è questa, i ladri che ti entrano dalle finestre e i piccoli borghesi pistoleri, oltre alla difficoltà di convivenza con gli stranieri che si concentrano in quei quartieri (politica abitativa sbagliatissima). Va intanto detto che il nostro modello di integrazione non è certamente tra i peggiori. La microfisica delle relazioni quotidiane insieme alla nostra abitudine millenaria a essere zattera per tutte le etnie ci hanno risparmiato il peggio che vediamo nelle banlieu. Va comunque attentamente considerato il disagio di chi si ritrova a convivere con differenze che ti mettono in crisi, e di questi tempi possono anche farti paura. Il tema è molto vasto e per affrontarlo conviene attaccarsi al midollo dei leoni, in questo caso alle profetiche parole del mio amico Alexander Langer, che più di vent’anni fa ha compilato un Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica che dovremmo portarci tutti in tasca come vademecum.
Ma la cosa importante da dire è che tra il tema della sicurezza e quelli della vivibilità, della bellezza, della cura dei luoghi non c’è soluzione di continuità. Si tratta di un tutt’uno politico. Voi conoscerete la teoria delle finestre rotte: l’esistenza di una finestra rotta genera fenomeni di emulazione, portando qualcun altro a rompere altre finestre o un lampione e dando il via a una spirale di degrado e a problemi di socialità e di sicurezza.Se ne potrebbe controdedurre una teoria delle finestre in ordine: la cura, l’amore per il luogo in cui si vive, la migliore socialità che ne deriva, possono costituire un ottimo presidio contro l’insicurezza.
Se il brutto è contagioso, perché non dovrebbe esserlo il bello? La logica dei neuroni specchio, una delle più importanti scoperte delle neuroscienza, e oltretutto la scoperta di un italiano, Giacomo Rizzolatti, ha chiarito le basi dell’empatia. Non vale solo tra un individuo e l’altro: se io vedo un mio simile piangere si attivano i me gli stessi neuroni attivati nella persona che piange, permettendomi di condividere il suo sentimento. Vale anche per le relazioni con l’ambiente: se io vedo il bello si accende in me il bello, o più precisamente il bello-e-buono, il kalos kai agathos di cui parlavano i Greci, concetto modernissimo di una bellezza che è anche morale, a cui corrisponde quello di una bruttezza che è anche amorale e antisociale. Noi viviamo in un Paese in cui le bellezze naturali hanno prodotto per via emulativa la bellezza dei manufatti umani, e in modo virale: perché non dovremmo riconnetterci con la nostra anima profonda, in un moto di progresso che si volta a guardare indietro, alla nostra storia più autentica?
Nel controllo di vicinato, esperienza già praticata in vari comuni italiani, si opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui si conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Ma soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può quindi “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Si tratta quindi di far salire tra le priorità la cura, e di far scendere il tema della sicurezza come normalmente la intendiamo. Di dare valore alle comunità di cura che si oppongono alle comunità del rancore, come le chiama il sociologo Aldo Bonomi.
Ecco, nella nostra politica di tutta questa ricchezza di riflessione, di questa passione, di questa contemporaneità, di questo accumulo esplosivo di desiderio raramente c’è traccia: il disinteresse borghese è assoluto, nella migliore delle ipotesi l’approccio è paternalistico, da dame della carità che non dimenticano gli ultimi e pensano alle bibliotechine di quartiere.
Il nuovo sindaco, la nuova sindaca, non deve necessariamente essere uno o una brava a leggere i bilanci: per quello ci sono i ragionieri. Stiamo davvero esagerando l’importanza dei comparti contabili, ci stiamo rassegnando all’idea delle città-holding. Una città non è una holding. Una città è un luogo di relazioni umane, con i suoi aspetti contabili. Un buon sindaco non è prioritariamente un buon manager capace di governare il movimento degli affari. Un buon sindaco è prioritariamente qualcuno/a capace di intravedere il potenziale delle relazioni umane. Serve, come si dice spesso –ma poi non si fa mai- capacità di visione.
Come stiamo vedendo tutti gli schieramenti hanno fatto e fanno una gran fatica a indicare nomi di possibili candidati/e. A Milano vive un sacco di gente, compresa tanta gente capace e competente. Eppure nomi faticano a saltare fuori. Ma in questa fatica di trovare “il nome” c’è qualcosa di buono e significativo: e cioè che degli uomini soli al comando -e anche delle donne, quelle poche volte che capita- probabilmente ci fidiamo sempre meno. Tu eleggi uno (o una) che poi mette insieme la squadra in base a criteri spesso imperscutabili -un po’ di Cencelli, le spinte e controspinte dei grandi elettori, qualche amico di famiglia, metti una sera a cena quattro chiacchiere tra amici-, con qualche rischio per le effettive competenze e quindi per il funzionamento dell’amministrazione.
La squadra, invece, quella che prenderà decisioni non irrilevanti per le nostre vite, quella che deciderà come gestire tutti i soldi che scuciamo come contribuenti e così via, ecco, forse sarebbe il caso di conoscerla prima. O quanto meno, lasciando qualche inevitabile margine di manovra per le alleanze al ballottaggio, sarebbe utile conoscere lo “squadrone” rappresentativo di un progetto e di un’idea di città dal quale il sindaco/a, primus/a inter pares, pescherà il suo team (con tutti gli altri comunque ingaggiati nell’impresa).
Io credo che anche a Milano si dovrebbe fare questo: delineare i 3-4 grandi temi di intervento, anche e soprattutto in relazione al progetto della città metropolitana, coagulare intorno a ciascuno di questi temi un buon numero di cittadine e cittadini competenti, formare una grande squadra che si presenti alla città con la propria visione e le proprie soluzioni. E in questa grande squadra (che resterà tutta quanta operativa sul progetto) scegliere, come dicevo nella logica del primus inter pares, il candidato sindaco o sindaca e la possibile futura giunta. Questo sarebbe davvero un modo innovativo di procedere, ma al momento non ne vediamo traccia.
Vediamo solo nomi.
Flavia Perina la chiama “nevrosi del parlamentare”. Lei che parlamentare lo è stata, e dalle ultime elezioni non lo è più a causa dell’evaporazione del suo partito (Fli), si è riassestata nella sua vita: fa la giornalista free lance, è alquanto tosta e continua ad amare e seguire la politica. Ma ha visto da vicino la sindrome di chi, eletto nelle istituzioni, vive nel terrore di perdere la poltrona, per dirla in modo pop. Terrore che oggi ha raggiunto i livelli di guardia e dal quale la politica è fortemente condizionata: quello che conta è che il governo duri il più a lungo possibile per evitare di andare a nuove elezioni, con il rischio di non venire ricandidati. Una quota considerevole di parlamentari che rinuncia alla propria autonomia di giudizio e a rappresentare il suo elettorato per evitare di indispettire la nomenclatura di partito, che potrebbe decidere di non ricandidarli. Le ragioni personali pesano sempre e ovunque. Ma nella politica di oggi sembrano pesare ben oltre il livello fisiologico: la rappresentanza democratica coincide sempre più strettamente con la rappresentazione del proprio utile.
“Il fatto è che ormai nei partiti è una roulette russa” dice Perina. “Nel Pd molti veterani non potranno godere di ulteriori deroghe, e poi ci sono i miracolati delle primarie di Capodanno, entrati con una manciata di voti, che rischiano di tornaresene per sempre a casa. Nel Pdl, il “padrone” che, come se gestisse una sua azienda, potrebbe decidere di nominare una qualunque soubrette al posto tuo, senza doverti alcuna spiegazione. Il terrore di non rientrare è trasversale alle larghe intese. E colpisce anche il Movimento 5 Stelle”.
Anche se questo fa in qualche modo parte del patto a 5 stelle: negli incarichi si ruota, sai che potresti durare giusto una legislatura…
“Sì. Ma anche per loro la carne è debole. Anche qui pesa l’istinto di autoconservazione. Sai che sei entrato con un consenso occasionale e contingente. Che non ci sarà il secondo giro e che non diventerai mai un professionista della politica”.
E questo è un male? Per loro sì, certo: ma per noi?
“Be’, alcuni cominciano a “studiare” da ragazzini per fare questa carriera: prima consiglieri di zona, poi in comune, poi tenti il salto regionale e nazionale. Una costruzione faticosa”.
Come per una carriera professionale. Salvo che poi in questo modo vengono eletti quelli che hanno “timbrato”, i padroncini delle tessere, piccoli funzionari, burocrati. E mai i talenti che magari non hanno frequentato circoli e sezioni, ma che servirebbero davvero al Paese. Raro che i due profili coincidano.
“Qui c’entra la crisi dei partiti. Una volta c’era una forte attività di scouting nel senso nobile del termine: per riequilibrare l’eccesso di nomine interne e per evitare un andamento asfittico si cooptavano esterni talentuosi. Intellettuali, professionisti, imprenditori che portavano la loro visione e il loro valore aggiunto, e magari anche la scomodità di un po’ di eresia e di anticonformismo, che al partito facevano bene. Poi è intervenuto un mutamento genetico profondo, connesso al racconto berlusconiano-televisivo: pochi esterni e tutti mediatici, a destra come a sinistra. Per lo più gente passata in tv: le veline candidate in Europa, previo corso accelerato di politica, ma anche figure come quelle della sportiva Valentina Vezzali, deputata di Scelta Civica. La quale, mi dicono, alla Camera si vede molto poco…”.
Tornando al tema, un Parlamento in cui le logiche autoconservative sono prevalenti: che soluzioni vedi?
“Una legge elettorale basata su piccoli collegi e con doppio turno, sul modello della legge per i sindaci. Questo obbliga i partiti a candidare gente presentabile, con una biografia riconosciuta dalla comunità locale, bypassando le logiche mediatiche. Si tratta di rivalutare le reputazioni. Così oltretutto si potrebbe anche ridurre la nevrosi del parlamentare: se lavori bene, la tua comunità ti riconfermerà e un secondo giro lo farai”.
E stabilire un limite del numero di mandati? E magari pure degli emolumenti?
“Il limite dei mandati potrebbe anche essere un aiuto psicologico: sai che in ogni caso dopo il secondo vai a casa, e sei più libero. Quanto agli stipendi, sono meno d’accordo”.
Ricordaci quanto porta a casa un parlamentare.
“9-10 mila euro netti. Lavoro ben pagato, certo. Ma se lo fai bene è molto impegnativo e comporta spese cospicue. E se guadagni abbastanza puoi permetterti di dedicarti solo a quello, evitando conflitti di interesse”.
Da europarlamentare Alex Langer non volle una lira in più rispetto al suo stipendio di insegnante.
“Scelta nobilissima. A Roma gli assessori prendono 2500 euro. Ma quale professionista di valore si sentirebbe di rinunciare ai suoi introiti e di mettere in discussione la sua reputazione per meno di quella cifra? Mentre per uno che per esempio fa l’impegato e prende 2000 euro il salto è enorme: proprio questa tipologia di parlamentari è la più soggetta a tentazioni, disponibile a ogni compromesso e salto della quaglia in cambio di una garanzia di permanenza”.
Ma perché questa “addiction”? Perché non essere rieletti è talmente devastante? Ci sono molte cose da fare a questo mondo. Anche la politica, da non eletti.
“La droga dello stare in quei posti è lo status. Una cosa che può dare alla testa, specie se sei un neofita. Il 90 per cento dei parlamentari non vive nelle metropoli, non sta a Milano o a Roma, vive in piccole realtà. Ti chiamano onorevole, ti senti un principe. Ho visto neo-eletti rifarsi daccapo il guardaroba. E’ una nuova nascita nella casta”.
Fuoruscirne, quindi, è una pre-morte… Tu però sei ancora viva, mi pare.
“Dirigevo un giornale. Non ho perso solo il posto da parlamentare, ho perso anche quella direzione per volontà di Berlusconi, e la perdita più grande è stata questa. Ma continuo a seguire la politica e a farla, da un’altra posizione. Dicevo che è più che altro una questione di status, perché poi il potere del parlamentare è pressoché nullo. Sia il Pd sia il Pdl hanno rinunciato da tempo all’idea di vincere. L’idea definitivamente introiettata è quella di una politica che gestisca consociativamente gli interessi. Qualcuno l’ha chiamata la politica del Gps, ovvero del posizionamento: non sei lì per la polis, per portare temi, per rappresentare i cittadini. Il gioco è tutto interno, stretto sulle alleanze e sugli accomodamenti tra schieramenti. Il consociativismo al suo massimo livello“.
Non so voi, io sto cercando di seguire ancora i talk politici. Devo farlo, quanto meno per lavoro. Mi pare di non farcela più. Mi pare che nessuno di noi ce la faccia più.
Ci manca, amic*, la necessaria concentrazione per seguire nel dettaglio i non accordi, i tatticismi, le schede bianche, la deflagrazione del Pd (in cui è rappresentato tutto il ventaglio delle ipotesi: dall’accordo con i 5 stelle, al governissimo con il Pdl, a un’alleanza con la Lega, al ritorno alle urne), le vicende giudiziarie di Berlusconi, il conflitto tra il Presidente Napolitano e il partito di Repubblica… Non riusciamo a eccitarci per l’elezione dei presidenti della Camera e del Senato, no.
Non per cattiveria, ma quelle poche energie che ci restano dobbiamo riservarle a far quadrare il bilancio familiare, a cercare le offerte per la spesa, a non perdere il lavoro, o a cercarne uno se l’abbiamo già perso, a preoccuparci per i figli, a organizzare i turni per occuparci dei bambini, dei vecchi e dei malati, visto che che il welfare siamo noi, a tenere in qualche modo viva la fiducia… stupidaggini così.
Sbrigatevi: non ce la facciamo più, con questi preliminari infiniti. Nessuno vi ha costretto a candidarvi: è stata una vostra libera scelta, siete stati eletti, ora fate in fretta, senza clamore, responsabilmente, tutto quello che dovete fare per il bene del vostro Paese. Lavorate per unire, non per dividere. Gettate ponti: e invece di giorno in giorno vediamo aumentare le lacerazioni. Come se ognuno giocasse solo la propria partita personale, eventualmente su più tavoli, tutti contro tutti. Non perdete i contatti con la realtà. Non lasciatevi drogare dall’eccitazione della politica politicante. Fate parlare le vostre coscienze.
Ma la vera grande paura è quella di nuove elezioni. Il Paese potrebbe rivoltarsi. La protesta disciplinata del Movimento 5 Stelle potrebbe non bastare più. L’argine potrebbe crollare.
Dovreste conoscerlo, questo Paese che avete voluto rappresentare. Dovreste sapere della sua grande resilienza, della sua capacità di assorbire tutto, di adattarsi a tutto, fino allo stremo. Ma dovreste tenere presente anche il modo in cui, all’improvviso, questo Paese si rivolta e fa saltare il banco.
Io spero che il Presidente Napolitano, rompendo ritualità e indugi, saltando ogni inutile cerimonia, sappia rapidamente indicare il nome di un candidato presidente del Consiglio la cui personalità abbia qualche chance di rompere schemi e schieramenti sollecitando la coscienza di ogni singolo parlamentare. Abbiamo un parlamento ringiovanito e femminilizzato: spero che sappia reinterpretare il suo ruolo, che si riprenda la propria centralità, ridimensionando il ruolo del governo, buttando all’aria la scacchiera dei tatticismi politicanti, rompendo da subito con le logiche imposte dalle vecchie leadership e avendo come stella polare il bene del Paese, non quello angusto del proprio schieramento. Non dimenticate di essere donne, non dimenticate di essere giovani, non smettete di parlare la vostra lingua.
Disubbidite!
E fate in fretta. Stiamo soffrendo troppo. Non c’è più tempo.
Non mi sono mai astenuta dal voto, non ho mai lasciato la scheda in bianco, pur comprendendo le ragioni di chi l’ha fatto.
Ma stavolta no. Stavolta non le capirei. La campagna elettorale è stata difficilissima, lunghissima, e non bellissima. Ma c’è stato tutto il tempo per farsi un’idea, e andare domani a esprimerla. Io dico: “votate”, e lo dico in modo non retorico. L’asprezza della contesa è la dimostrazione di quanto conti, stavolta, ogni singolo voto.
Il peso specifico di queste elezioni è molto elevato. Si tratta di un voto ad alto tasso di responsabilità. E’ il voto delle formiche, non delle cicale. Qui si gettano le fondamenta per dare avvio a un duro lavoro di ricostruzione. Va ricostruito quasi tutto. Domani si schizza il progetto, lunedì si comincia.
Dobbiamo farlo tutti, e tutti insieme, e con la massima unità possibile, perseguendo quel minimo comune denominatore in grado di esprimere -il bene dei molti contro quello dei pochissimi- una visione collettiva per il nostro Paese.
A chi obietta “ma tanto la sovranità degli Stati è una scatola vuota, tanto chi comanda è il mercato“, rispondo: lo sarà ancora di più, se non daremo vita a istituzioni più forti, legittimate da un voto convinto, eleggendo rappresentanti che non intendono piegarsi a questo iperrealismo necro-economicistico.
Quello che conta è l’energia, che poi è sinonimo di luce, di vita, di amore. Anche il voto è uno dei mezzi utili a veicolarla, e quell’uno che possiamo esprimere ha il potenziale di mille, se sarà solo uno dei gesti, in previsione di tutti gli altri che verranno da ciascuno di noi per la costruzione del bene comune.
Potrebbe essere, se l’energia sarà molta e convinta, che il nostro Paese cambi radicalmente, una rivoluzione incruenta, e questa mitezza efficace sarebbe un fatto straordinario.
Diamo il massimo di importanza al nostro voto di domani. Mettiamoci il massimo di energia e di amore, come capita quando facciamo qualcosa per i nostri figli. Posso dirlo: facciamo come fanno le madri. Mettiamoci cura, attenzione, responsabilità, comunità. E sarà un voto importantissimo, e utilissimo.
Parte in settimana Se Non Ora Quando con la campagna “Senza le donne non si governa” -spot tv in collaborazione con Pubblicità Progresso, incontri con i partiti a livello nazionale e locale in assoluta trasversalità, iniziative di sensibilizzazione- per sostenere la più ampia presenza femminile nelle istituzioni rappresentative.
E questo lo dico io: sperando che a Snoq riesca quello che non è mai riuscito a nessuna, convincere le donne a sostenere le donne. A livello nazionale non sarà possibile esprimere preferenze, l’orrido Porcellum non lo consente (la possibilità esiste solo per i partiti che indicono primarie). Ma certamente sarà possibile non premiare con il proprio voto quei partiti che non si impegnino a candidare donne, e non come carne da Porcellum, ma in posizione di eleggibilità, insomma in testa di lista.
Dopo lunga e complessa discussione interna, Se Non Ora Quando ha deciso che alle prossime elezioni non saranno presenti liste Snoq, né vi saranno candidate con “bollino” Snoq: nessuna è titolata a utilizzare il brand. Temi prioritari da spingere in agenda: democrazia paritaria, contrasto alla violenza sulle donne, diffusione a tutti i livelli di una cultura di genere, rinnovamento della politica, lavoro e welfare, più altri temi locali. Dialogo aperto con chi li assumerà.
Nascono anche coordinamenti regionali (già certo, ad esempio, quello della Lombardia: il 24 febbraio, com’è noto, si voterà anche per il governo regionale) che declineranno la campagna in chiave territoriale.
Se non ora, insomma, mai più. Vi terremo informat* su tutto.
Aggiornamento delle ore 17.40. Lella Golfo, presidente della Fondazione Marisa Bellisario, adotta una diversa impostazione: non semplicemente un appello alle candidature e al loro sostegno, ma la raccolta di 200 curricula , nomi e cognomi, da proporre ai partiti in modo trasversale, come vedete qui a seguire. Proposta, quella di proporre e sostenere candidature precise, che piaceva anche a una parte di Snoq, ma che non ha trovato l’appoggio maggioritario.
Quale delle due strategie vi convince di più? Fare nomi e cognomi, o spingere senza nomi precisi?
Ed ecco il comunicato Golfo:
ELEZIONI; RACCOLTE OLTRE 200 CANDIDATURE FEMMINILI PER TUTTI GLI SCHIERAMENTI
Roma, 20 Dicembre – Oltre 200 donne di ogni schieramento politico, professioniste, manager, imprenditrici, donne delle istituzioni e di associazioni femminili hanno risposto all’appello di Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, e si sono riunite oggina Roma presso l’Auletta dei gruppi della Camera dei Deputati, per proporre a tutti partiti, liste e schieramenti, la loro candidatura alle prossime elezioni nazionali e regionali.
“Siamo tante e vogliamo impegnarci per una società più a misura di donne e per una politica che ci rappresenti. Queste elezioni sveleranno le reali intenzioni dei partiti: le donne vanno collocate ai primi posti delle liste se si vuole una nuova classe dirigente capace di portare nella politica quel vento di cambiamento che serve all’Italia, all’economia e al Parlamento. Questa legge elettorale lascia nelle mani di segretari e dirigenti di partito la scelta dei parlamentari e per questo chiediamo un impegno concreto e inequivocabile. Il rinnovamento non è una questione anagrafica ma significa aprire la politica a coloro che hanno idee, esperienze e competenze per portare il nostro Paese sul binario della crescita e per introdurre linfa vitale in una politica sempre più lontana dai bisogni dei cittadini”.
Oltre duecento le candidature femminili raccolte in pochi giorni dall’Onorevole Golfo, autrice della legge sulle quote di genere nei CdA delle società quotate e controllate. Il prossimo passo sarà consegnarle a tutti i segretari e leader politici perché vengano tenute in considerazione al momento della compilazione delle liste.
“Sono tutte donne – continua Golfo – con alle spalle grande esperienza nelle imprese, nelle professioni, nell’associazionismo. Alcune di loro hanno avuto incarichi nelle assemblee locali ma la maggior parte sono neofite, donne con spirito di servizio, pronte ad accettare la sfida e a mettersi in gioco perché convinte che una democrazia compiuta non possa fare a meno della voce della metà della popolazione. La loro risposta, il loro entusiasmo mi hanno profondamente colpita perché parlano di una società civile pronta a impegnarsi in modo consapevole e responsabile. La politica deve attingere a questo immenso patrimonio morale e professionale se vuole risvegliare quell’energia vitale, quel coraggio e quella passione senza cui ogni ricetta e strategia non possono funzionare. Dalle nostre ricerche risulta che quasi la metà delle donne italiane reputa queste elezioni cruciali per il futuro del Paese ma allo stesso tempo le statistiche segnalano che quasi 5 milioni di donne sono pronte ad astenersi dal voto. E questo perché finora si sono sentite escluse dalle decisioni e dalla guida del Paese. La politica ha il dovere di includerle e noi non ci fermeremo finchè le donne non saranno la metà dei parlamentari e dei membri delle giunte. Il nostro appello è ai partiti ma anche alle donne. Noi ci mettiamo la faccia, ma le donne devono metterci il voto e dove potranno esprimere le preferenze, a partire dalle primarie del Pd fino alle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, devono votare altre donne. Non un voto di genere ma un voto per la serietà, l’onesta, l’impegno e le competenze di tante donne che vogliono esserci e contare”.
Fibrillazione, in queste ore, in particolare dalla parti del csx, sul tema primarie-liste elettorali. Tutto il nostro faticoso e pluriennale lavoro di donne sta producendo dei risultati -magari insufficienti, eventualmente discutibili-, ma (traggo da un mio libro del 2006, “La scomparsa delle donne”) da rognoso punto di programma, preferibilmente piazzate tra gli anziani e i diversamente abili, da “altra carne al fuoco” (cit. Piero Fassino d’antan), da “scassaminchia” (qui è un indimenticabile Pippo Gianni, Udc), da tema da affrontare all’ultimo minuto con imbarazzo e fastidio (“caxxo, e le donne?”), grazie soltanto alle nostre strenue lotte siamo salite nella graduatoria delle compatibilità di cui tenere conto, ed è tutto un 50/50, o almeno un 40/60, perché di presentarsi come gli ultimi misogini anche i nostri politici non se la sentono più. Bene.
La certezza l’abbiamo: il prossimo Parlamento sarà discretamente bisessuato, ancorché in percentuali variabili tra i partiti, raggiungendo con buona probabilità le medie europee (quelle africane del Rwanda, con il suo 58 per cento, del Botswana e di altri stati ce le sogniamo). Speriamo ugualmente bisessuato il governo. Finalmente il doppio sguardo -che non va solo assicurato come opportunità, ma anche praticato: il vero lavoro comincia lì-. Finalmente tante cittadine di questo Paese che non tabuizzano più il loro desiderio di partecipare alla gestione del Condominio, e forse anche il fuoco-amica (donna-spara-a donna) comincia a diminuire d’intensità.
Alle amiche che vogliono candidarsi mi sentirei di raccomandare una cosa: di non mettersi lì a fare da semplice riempilista, mera carne da Porcellum. Non significa, questo, pretendere a tutti i costi la garanzia di essere elette. Non tutte e non tutti potranno essere eletti, questo è certo. Quello che intendo è pretendere un GUADAGNO dalla propria candidatura, evitando di candidarsi in modo abnegativo e sacrificale.
Mi spiego meglio: per alcune la semplice candidatura ha senso, fa fare loro un passo avanti, definisce meglio la propria collocazione nel partito, è un gesto di testimonianza e di sostegno attivo. Per esempio: nel lontano 1986 io mi sono candidata nelle nascenti Liste Verdi, ma allora non avevo alcuna intenzione di andare a Roma. La “scampai” per un soffio, con le mie 800 preferenze. Ma non mi sono mai pentita di quel gesto di partecipazione. Anzi: lì c’è stato un guadagno per me (consapevolezza, senso di appartenenza, etc.).
Per altre, invece, il passo avanti richiede necessariamente l’elezione: si tratta allora di valutare attentamente se ve ne siano le condizioni, e di non buttarsi allo sbaraglio.
Un altro esempio: alle recenti primarie per la premiership del csx Laura Puppato aveva oggettivamente poche chance di farcela. Sento spesso dire che Laura ha perso: non è affatto così. Non è questione di percentuali. Da perfetta sconosciuta quale era a livello nazionale -era invece conosciutissima e sostenutissima nel suo Veneto-, in tre settimane Puppato ha conquistato una grande visibilità, il coraggio che ha avuto di buttarsi da sola è stato molto apprezzato, e oggi è in condizioni di stare in una partita in cui nessuno l’avrebbe mai cooptata, presumibilmente con un ruolo rilevante nel futuro governo. La sua storia offre un modello interessantissimo per tutte.
Quindi, amiche di ogni schieramento politico: si tratta semplicemente di fare bene i conti, di valutare l’occasione, ciascuna nel proprio contesto, ognuna per la propria vita.
Ripeto: non è necessariamente questione di essere certe della propria elezione. Si tratta di essere certe del fatto che da quella mossa, candidarsi, verrà anche un bene per se stesse.
Leggendo i giornali sulle elezioni regionali siciliane, mi domando: ma io da che parte sto?
Dalla parte di chi non si arrende, lotta, si tura naso, occhi e orecchie e va a mettere la sua scheda nell’urna, preferibilmente senza averne nulla direttamente in cambio, solo perché crede che praticare la democrazia abbia ancora un senso?
O dalla parte di quei 6 siciliani su 10 che non si sono presi il disturbo, o che hanno scelto attivamente il non-voto, o che hanno votato Cinquestelle, quei “qualunquisti, fascistoidi, irresponsabili, antipolitici, distruttori, ignavi, immaturi” ecc. ecc.?
Spezzata in due, stamattina.