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Donne e Uomini, femminicidio, Politica, questione maschile Novembre 25, 2014

25 novembre, Sagra della Violenza. E Case delle Donne a rischio chiusura

Una nota azienda di cereali per la prima colazione “festeggia” il 25 novembre. In giro per l’Italia ci sono Festival della Violenza (sic!), sagre e perfino dinner party “Scarpette Rosse”. Insomma, mancano i cioccolatini e i bouquet “antiviolenti” da regalare all’amorosa e abbiamo businessizzato, marketinghizzato, mediatizzato, televisionizzato, spettacolarizzato pure la lotta contro violenza e femminicidio, che si arricchisce di giorno in giorno di pericolosissimi esperte/i improvvisati, di nuovi sportelli e centri last minute affidati alle clientele politiche e alle amiche degli amici, nati unicamente per intercettare fondi dedicati.

Intanto le persone serie che sulla faccenda lavorano in silenzio da decenni e molto spesso senza aiuti pubblici, penso per esempio alla Casa delle Donne Maltrattate di Milano e a molte altre realtà, rischiano di chiudere bottega per cedere il passo a questo mix tra istituzionalizzazione, burocratizzazione, business e showbitz. Qui diamo l’allarme da tempo, ma le cose vanno peggio di come si era temuto.

Il 27 novembre, dopodomani, la Conferenza Stato-Regioni presenterà le linee guida per i centri, elaborate dal Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio (una ministra autonoma Matteo Renzi non l’ha voluta). Linee guida obbligatorie per accedere ai finanziamenti pubblici, che contravvengono ai metodi di intervento maturati in anni e anni di esperienza sul campo: la logica è “mettere in sicurezza le donne”, come disse qualcuna (Fabrizia Giuliani, parlamentare Pd) ai tempi del decreto omnibus contro il femminicidio. E’ trattarle come minori “malate” da tutelare e non come soggetti che, in relazione con altre donne, ricostruiscono passo dopo passo la propria vita libera e autonoma, ciascuna in modi e con tempi propri e non standardizzati.

Neutralizzando la differenza e “depurando” l’approccio da ogni sospetto di femminismo e di politica delle donne, le linee guida “sanitarizzano” l’intervento, prevedono la presenza obbligatoria di psicologi e assistenti sociali (anche uomini: errore capitale), un servizio H24, 5 giorni su 7 di apertura, centralino sempre attivo (e chi paga?), separano l’attività dei centri dalle case-rifugio: impostazione stigmatizzata dalle storiche Case, associate in D.i.RE, che parlano di “criteri che schiacciano la connotazione politico-culturale dei centri antiviolenza, volti a produrre cambiamento sociale, sulla logica del mero servizio” (il comunicato qui).

Il rischio è che le Case delle Donne, a meno di stravolgere i propri criteri di intervento, non possano accedere ai fondi governativi.

La speranza è che Giovanna Martelli, nuova consigliera alle PPOO del governo Renzi, possa porsi in ascolto per trarre importanti spunti da un’esperienza quasi trentennale, senza la quale oggi la lotta contro la violenza maschile non esisterebbe.

 

femminicidio, questione maschile Giugno 26, 2014

A chi i fondi per la lotta anti-violenza?

Il 10 luglio a Roma-i dettagli in coda al post- i Centri antiviolenza e le Case delle Donne associate in D.i.Re manifesteranno contro i criteri di stanziamento dei fondi governativi contro la violenza e il femminicidio.

A seguire tutte le info sulla vicenda.

 

Stamattina la rete dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne della Lombardia (16 in tutto) ha animato un affollato incontro al Pirellone per illustrare pratica e metodologia condivise dell’intervento.

Ma anche per confrontarsi sulla questione dei finanziamenti ad hoc previsti dal decreto Femminicidio e dalla legge di Stabilità. Ci vorrà ancora un mese perché lo stanziamento di 17 milioni sia effettivo: la Conferenza Stato-regioni sta ancora discutendo sui criteri di distribuzione. Quello che è certo, i soldi arriveranno alle Regioni, che a loro volta li faranno amministrare ai Comuni, titolati alla decisione finale sui centri destinatari.

Destano qualche preoccupazione le dichiarazioni dell’assessora regionale alle Pari Opportunità Paola Bulbarelli, già Pdl, che ha indicato come obiettivo 44 centri operativi entro l’anno, con relativi corsi di formazione.

Al momento, come dicevamo, i Centri e le Case sono 16: la prima è stata la Casa delle Donne maltrattate di Milano, fondata dalla pioniera Marisa Guarneri e da altre nella seconda metà degli anni Ottanta, quando quella della violenza appariva come una questione marginale. Il metodo di intervento messo a punto e lungamente sperimentato nella Casa di Milano è stato in seguito acquisito e praticato nella Case nate successivamente in Lombardia e su tutto il territorio nazionale (in Italia la rete si chiama D.i.Re e conta 62 centri)

Nel lavoro contro la violenza sessista la metodologia è tutto.

“E’ un metodo basato sulla relazione tra donne” ha chiarito Manuela Ulivi, Presidente della Casa delle Donne maltrattate di Milano “che stabilisce molto precisamente percorso e criteri dal momento delicatissimo dell’accoglienza, alla costruzione di un progetto non sulla donna ma con la donna, la quale resta la protagonista insostituibile del suo cammino di liberazione dalla violenza. E’ lei,  non le “esperte”, a stabilire i tempi del suo cammino, senza mai essere giudicata o eterodiretta. E’ lei ad attivare le sue risorse interiori, la sua forza e i suoi desideri, in un percorso condiviso con le altre che mettono a disposizione professionalità, esperienza ed empatia, ma soprattutto la voglia di condividere con la donna questo passaggio delicato della sua vita”.

Uno sportello anti-violenza, un “centro” messo in piedi in quattro e quattr’otto, che non nascano da questo desiderio e da questa esperienza ma da un atto burocratico o, peggio, dall’interesse a intercettare i fondi regionali o nazionali, non hanno niente a che vedere con queste realtà consolidate.

Negli ultimi anni è nato un vero e proprio business, molto italiano, e perfino uno showbitz dell’anti-violenza: esperti e centri improvvisati, corsi volanti di formazione, operazioni editoriali instant e di dubbia qualità, iniziative e spettacoli “d’emergenza”. Non è in questo modo che si contrastano violenza e femminicidio.

Che la Lombardia, come annunciato dall’assessora Bulbarelli, nel giro di pochi mesi conti di istituire un’altra trentina di centri individuati dai comuni come possibili destinatari delle risorse stanziate non è certamente una buona notizia, e fa temere il solito peggio.

 

Aggiornamento domenica 29 giugno:

Duro comunicato dei Centri antiviolenza e delle Case delle Donne
che ricevono solo le briciole dei finanziamenti governativi

 Ai centri antiviolenza solo le briciole dei finanziamenti stanziati:
e il resto dei fondi a chi?

Sei mila euro l’anno per due anni: è quanto il Governo intende assegnare a ognuno degli storici Centri antiviolenza e alle Case Rifugio che operano con efficacia da decenni e in regime di volontariato.
E’ in questa esperienza che si radicano il sapere e il metodo che consentono a tante donne di salvarsi la vita, e di ritrovare autonomia e libertà.
Ma quei soldi non basteranno nemmeno a pagare le bollette telefoniche.

A chi gran parte degli stanziamenti (circa 15 milioni di euro)?
Alle Regioni, che finanzieranno progetti sulla base di bandi: la scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne.

Apprendiamo dalla stampa – il Sole 24 ORE del 27 giugno 2014 – le incredibili modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14.

Secondo una mappatura in base a criteri illeggibili, di questi 17 milioni ai 352 Centri Antiviolenza e Case Rifugio toccheranno solo 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro.
Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

Questa scelta del Governo contravviene in modo netto alla Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, che l’Italia ha ratificato e che entrerà in vigore il prossimo 1° agosto, la quale prevede siano destinate “ adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile” (Articolo 8)
Nella Convenzione si privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, mentre il Governo Italiano sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale.

L’idea e’ che la politica non intenda rinunciare a ‘intercettare’ quei fondi, e che si proponga di controllare e ridurre allo stremo i Centri antiviolenza indipendenti, gia’ operativi da molti anni e associati nella rete nazionale D.i.Re (Donne in Rete Contro la Violenza).

Denunciamo questo modo di procedere.

Il Governo non ha sino ad oggi neppure formulato un Piano Nazionale Antiviolenza, e si presenta in Europa senza avere intrapreso un confronto politico serio con tutte coloro che lavorano da oltre 20 anni sul territorio, offrendo politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.

Roma, 28 giugno 2014
Di.Re Donne in Rete contro la violenza
Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 – 00165 Roma, Italia, Cell 3927200580 – Tel 06 68892502 Fax 06 3244992 – Email direcontrolaviolenza@women.it; www.direcontrolaviolenza.it

 

Aggiornamento 3 luglio: e ora non c’è più nemmeno l’arresto preventivo per maltrattanti e stalker.

Aggiornamento 4 luglio: il 10 luglio a Roma manifestazione dei centri antiviolenza

 

 

 

 

Donne e Uomini, femminicidio, questione maschile Ottobre 21, 2013

#leggefemminicidio: è rottura in Se Non Ora Quando

Se Non Ora Quando si divide al suo interno sulla legge antifemminicidio.

Ieri il Corriere della Sera ha ospitato una lunga lettera firmata da Se Non Ora Quando – Libere (ala più filogovernativa di Snoq, diciamo così), sottoscritta tra le altre da Cristina Comencini, Francesca Izzo, Licia Conte, Serena Sapegno, Fabrizia Giuliani (qui la lettera integrale).

Oggi la replica di Se Non Ora Quando Factory, ala più “indipendente” di Snoq, che mantiene molte riserve sulla legge:

Qui potete leggere di seguito: ampi stralci della lettera di Snoq Libere, che difende la legge. La mia risposta/commento di ieri. E infine la lettera di Snoq Factory giunta oggi.

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Snoq Libere analizza la legge a cominciare dall’aggravante introdotta quando vi sia o vi sia stato legame affettivo tra l’aguzzino/assassino e la sua vittima (“ora le donne vedono riconosciuta la loro cittadinanza anche dentro casa. Hanno una sicurezza in più“).

Quanto invece all’irrevocabilità della querela, punto più contestato della legge, si dice che essa “per situazioni particolarmente gravi, discende direttamente dal fatto che nella legge la vittima è vista come un soggetto libero e pienamente responsabile delle proprie azioni. E questo sarebbe paternalismo, negazione della libertà femminile, manifestazione di una logica securitaria?”. Se la si pensa in questo modo, continua la lettera, si ha una “visione antistituzionale, o radicalmente liberale, secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis“, logica che “non ha portato risultati positivi per le donne italiane“.

La lettera stigmatizza il fatto di “volere tante donne nelle istituzioni e poi combattere aspramente un provvedimento che reca comunque la loro impronta” come “segno di incomprensione o di pregiudizio ideologico” e segnala le leggi che “hanno cambiato la vita delle donne italiane, (dal divorzio al nuovo diritto di famiglia all’aborto“.

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Questo il mio commento

Sul punto dell’aggravante:  il valore simbolico è chiaro. Si inverte una logica in base alla quale se a violentarti o malmenarti è il marito o il fidanzato la cosa tutto sommato è meno grave, come se gli si riconoscesse una sorta di diritto a farlo. Anzi, si sancisce, qui la gravità del reato è anche maggiore. Resta tuttavia il fatto che gli aggravi di pena non costituiscono mai un deterrente efficace. E che su questa logica remunerativa e non riparativa (cfr. il recente dibattito nel movimento femminista indiano sulla pena di morte per gli stupratori: vedere qui) il movimento delle donne, che molto poco crede al carcere come luogo di effettiva rieducazione, ha sempre espresso molte riserve.

Sull’irrevocabilità della querela: non è affatto vero che valga solo per le situazioni particolarmente gravi. Secondo la Cassazione deve valere sempre. La conseguenza è che le donne, non potendo revocare, si risolveranno a questo gesto definitivo solo in casi davvero estremi, tirando pericolosamente in lungo situazioni che invece richiederebbero l’intervento del “terzo”. Non è affatto questione di libertà e responsabilità: in questione è la complessità delle relazioni d’amore (leggere Lea Melandri, che se ne occupa da sempre): se in generale le donne esitano a denunciare, di fronte alla mannaia della definitività esiteranno ancora di più, con effetti nefasti. Anche perché l’esperienza insegna che più della metà delle denunce per maltrattamenti familiari e stalking (Procura di Milano) viene archiviata senza alcun atto di indagine. I tribunali sono oberati, la sensazione che il parere della Cassazione vada in direzione di uno sfoltimento è molto forte. Più in generale, non si può non tenere conto del fatto che le operatrici e le volontarie dei centri antiviolenza e delle case delle donne, che operano sul territorio da oltre un trentennio (per esempio quelli associati in D.i.re) hanno manifestato tutto il loro dissenso sul punto dell’irrevocabilità della querela: la loro competenza andrebbe tenuta massimamente in conto. Quanto alla logica securitaria, è stata espressa in modo inequivoco perfino da una delle stesse firmatarie della lettera, Fabrizia Giuliani, che in un’occasione pubblica ha affermato “abbiamo messo in sicurezza le donne”, linguaggio che con il femminismo non ha davvero nulla a che vedere.

Ancora: le leggi. Mi pare che qui la lettera operi una curiosa inversione. Non sono certo le leggi ad aver promosso libertà femminile. Semmai, al contrario, le leggi sono state la conseguenza di cambiamenti reali prodotti dalla forza e dalla libertà delle donne. Vale tra l’altro la pena di ricordare, fatto generalmente dimenticato, che il Pci frenò a lungo sul divorzio (l’immagine qui è molto eloquente)

 

E quanto alla legge 194, la scelta dell'”aborto di stato” -anziché la semplice depenalizzazione richiesta da una parte del movimento delle donne- ci ha condotto alla situazione di oggi: legge sostanzialmente inapplicata. Si valuta che in assenza di provvedimenti urgenti a brevissimo le italiane avranno solo la possibilità del fai da te, della clandestinità e dei cucchiai d’oro (vale la pena di ricordare anche questo: che meno di un mese fa il voto di un gruppo di consiglieri regionali Pd ha impedito che in Toscana passasse una mozione finalizzata a un’effettiva applicazione della legge, circostanza sulla quale, con poche eccezioni, le loro colleghe di partito hanno scelto di fare silenzio).

I “risultati positivi per le donne italiane”, quindi, sono essenzialmente frutto della lotta delle donne italiane, che hanno saputo fare passi da gigante nonostante le percentuali irrisorie di elette nelle istituzioni. Percentuali che oggi, sempre grazie alla lotta di tutte, sono significativamente aumentate: si tratterebbe ora di vedere segni concreti di questa massiccia presenza in un cambio vero di civiltà politica. Uno dei segni, per esempio, sarebbe quello di affidarsi alla competenza di chi da anni lavora in solitudine e senza risorse nel territorio della violenza sessista prima di varare un provvedimento su questi temi.

La lettera di Se Non Ora Quando Libere, infine, non fa menzione di altre due questioni significative:

la legge non fa riferimento a terapie alternative alla pena, ma parla unicamente di indicare agli ammoniti la possibilità di rivolgersi a centri che lavorano sulla violenza maschile. L’esperienza di anni  indica il fatto che il primo passo per un violento e/o sex offender è riconoscersi come tale: difficilissimo, quindi, che possa esservi un’adesione spontanea a un progetto di recupero. Diverso sarebbe se la terapia fosse alternativa alla pena, e quindi in qualche modo obbligatoria. Il desiderio di molte donne abusate si è espresso in questa direzione: vorrei che lui si curasse, non che andasse in galera. E in questo desiderio c’è molta sapienza -una logica, appunto, davvero riparativa e non semplicemente remunerativa- perché non se ne è tenuto conto?

Infine: a deporre a favore di un impianto sostanzialmente securitario c’è anche il fatto, di cui la lettera non fa menzione, che la legge, oltre che di donne si occupa di No Tavfurti di rame. Il che, insieme all’irresponsabilizzazione connessa all’irrevocabilità della querela, suggerisce  l’idea di una donna non soggetto della propria storia, ma in qualche modo oggetto -come il rame, come un’opera pubblica- da tutelare. Circostanza che ha autorizzato molte, e anche in Se Non Ora Quando, a parlare di un femminicidio simbolico.

Il problema non è la sicurezza femminile. Il problema è l’insicurezza (pericolosissima) maschile, che dal decreto scompare.

La questione è maschile.

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Ed ecco infine la replica di Se Non Ora Quando Factory: in Snoq, si precisa, non c’è un pensiero unico.

“Apprendiamo da una lettera alla vostra redazione quale sia la posizione delle “donne di Se non ora quando” sulla legge contro la violenza. Lo apprendiamo noi che facciamo parte di Se non ora quando. La lettera è stata firmata da un gruppo di donne che costituisce uno delle decine e decine di comitati Snoq sul territorio nazionale, il comitato “Se non ora quando–Libere”. Se non ora quando è un movimento molto ricco, attraversato da idee e visioni differenti. Da alcuni mesi non ha più un Comitato Promotore, quello che indisse la manifestazione del 13 Febbraio e indirizzò il percorso politico del movimento per circa due anni.

Il Comitato Promotore si è sciolto e diviso in due gruppi: “Se non ora quando–Libere” e” Se non ora quando-Factory”, e il movimento tutto si sta riorganizzando, con le sue molteplici realtà. Snoq, dunque, non ha più una voce unica con cui esprimersi. “Se non ora quando–Factory” è stato udito alla Camera a Settembre dove ha depositato un documento, firmato da 47 comitati territoriali di Snoq, in cui criticava con molte motivazioni il decreto legge. Ne rigettava l’impianto prevalentemente securitario e ne denunciava soprattutto l’insufficienza rispetto all’area della prevenzione della violenza, che tanto spazio occupa invece nella convenzione di Istanbul. La posizione espressa dalla maggioranza ha trovato discordi le donne di “Snoq–Libere”, autrici della lettera da voi pubblicata.

Noi crediamo di aver avuto, con le altre associazioni e parlamentari che hanno criticato il decreto, un ruolo importante nel promuovere la sua modifica. Pensiamo però che il risultato finale sia ancora lontano dall’impianto che dovrebbe avere una normativa sulla violenza efficace, che parta dalla prevenzione, dalla scuola e dall’educazione, che sostenga realmente i centri anti-violenza, e che soprattutto valorizzi la capacità di autodeterminazione delle donne, non che le individui come soggetti deboli da “mettere in sicurezza” per di più con la beffa di inserirle in un pacchetto dove si agisce, più nascostamente, su altre questioni come la Tav o i furti di rame.

Non pensiamo che questa nostra posizione sia una “visione antistituzionale, o radicalmente liberale secondo la quale le donne sono fuori o sopra o di fianco, ma comunque estranee alla legge e la loro libertà non ha nulla a che vedere con la polis”, come scrivono le donne di “Snoq-Libere”. Tutt’altro. Noi pensiamo e affermiamo con forza che le donne e i loro corpi non possano essere utilizzati per far passare misure che non hanno niente a che fare con le loro vite e con il loro essere nella polis. Non “donne fuori, sopra o di fianco” alle leggi, ma donne messe “sotto” la legge. È possibile accettare una legge omnibus come questa, e dire addirittura che contiene qualcosa di rivoluzionario? Cosa c’è di rivoluzionario nell’utilizzare le donne come eterne ospitanti di questioni che non le riguardano? Proprio nulla. Che cosa le mette fuori dalla polis se non questo tipo di operazione, dove il riconoscimento della loro libertà è parziale, se non di facciata?

Le leggi non hanno “cambiato la vita delle donne italiane”, come scrivono le donne di Snoq Libere. Le leggi hanno registrato e testimoniato le conquiste fatte dalle donne con fatica e grande determinazione. Fare il percorso inverso, partire dalla legge per cambiare la vita delle donne può essere pericoloso, può farci perdere di vista proprio quelle vite. E il fatto fondamentale che è dalle vite che bisogna partire per fare le leggi.

In una fase come questa, – in cui l’autodeterminazione delle donne è continuamente messa in discussione, in cui la legge 194, senza un’adeguata regolamentazione dell’obiezione di coscienza, finisce per lasciare sole le donne, invece che essere il baluardo di un loro diritto inalienabile – noi non sentivamo proprio il bisogno di una legge che proteggesse le donne, che le dipingesse come soggetti deboli dove la libertà viene al secondo posto, dopo la “tutela”“. 

Se non ora quando – Factory