L’idea di classi differenziali per stranieri è una soluzione sbagliata e inaccettabile a un problema che però esiste, ed è notevole. Sul Corriere di oggi Sandro Veronesi descrive molto bene la situazione di Prato, io potrei dire con altrettanta consapevolezza di Milano. Dove, oltretutto, i piccoli sono delle etnie più varie, non come lì, prevalentemente cinesi, quindi la gestione è molto complicata. Nei fatti le povere maestre -se ne parla sempre al maschile, ma sono in stragrande maggioranza donne- e più avanti le professoresse si ritrovano a tirare una coperta troppo corta. Per non lasciare indietro nessuno, rischiano di abbassare il livello per tutti, sacrificando lo svolgimento del programma alle inevitabili lentezze di chi non parla la nostra lingua ed è affaticato dall’inserimento. I genitori italiani si difendono andando a caccia di scuole senza stranieri, che qui a Milano sono quasi tutte in centro città.

E’ vero anche, tuttavia, che frequentare una classe multietnica è un’esperienza potenzialmente molto ricca e direi perfino irrinunciabile, perché insegna lo strumento preziosissimo della relazione a un grande livello di complessità. Si tratta quindi di saper trarre il meglio da questa contingenza, e lo si può fare soltanto, nessun dubbio, investendo energie e risorse, dotando le maestre di tutti i sostegni necessari, di counselor, di corsi d’appoggio d’italiano, e così via. E anche di una relativa autonomia nell’organizzazione del lavoro, perché ogni situazione fa caso a sé. Con l’idea di portare tutti verso l’alto, anziché abbassare gli standard. C’è da spendere oggi per risparmiare domani: tutto ciò che favorisce e velocizza l’integrazione è un ottimo investimento. Per tutti.

Ma alla nostra politica miope manca la capacità di guardare oltre il proprio naso. Ci si accontenta di un mediocre e immediato ritorno di consenso, accarezzando il pelo agli istinti più elementari.

Gira che ti rigira, siamo sempre lì, a questa politica insufficiente.

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