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AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, esperienze Settembre 21, 2012

Luce e l’energia: Irigaray a Verona

luce irigaray

 

La filosofa e psicoanalista Luce Irigaray ha partecipato ieri al seminario organizzato all’Università di Verona dalla comunità filosofica femminile Diotima.

Tema del seminario: Tra filosofia e psicoanalisi: l’inconscio.

Titolo dell’intervento di Irigaray: L’incertezza della coscienza.

Qui traggo dai miei appunti, al meglio che posso.

 

“Ho potuto “uscire” dalla psicoanalisi solo perché avevo un background filosofico. In caso diverso sarebbe stato difficile fuoruscire da quel labirinto.Vorrei partire da tre domande: 1. quali questioni Sigmund Freud ha posto alla cultura occidentale? 2. quali questioni invece ha omesso di porre?  3. è indispensabile fare riferimento all’esistenza di un inconscio, o si tratta di un prodotto della nostra cultura?

1. Sigmund Freud ha messo in forse la certezza della coscienza, certezza che sta alla base della cultura occidentale. Per la cultura greca la coscienza si basa sulla capacità di percepire il mondo e di organizzarlo e tradurlo in parole giuste. Nel poter fare un discorso, nel logos. Con Cartesio la coscienza diventa altro, la sua certezza si basa sulla rappresentazione del soggetto. La psicoanalisi dice che questa certezza della coscienza è solo illusoria, in quanto la percezione è filtrata, ipotecata da un inconscio. Anzi, da un doppio inconscio, individuale e collettivo. La certezza della coscienza, come è intesa dalla tradizione occidentale, mi impedisce l’incontro con l’altro e con la sua verità. Un’altra conseguenza è che la certezza della coscienza non mi permette di coltivare la mia energia. Se sottopongo la mia energia a verità esterne alla mia vitalità, causo una patologia, provoco un’entropia o una perversione della mia energia. Altro paradigma della cultura occidentale: l’identità. La psicoanalisi ci fa scoprire che l’identità è solo un intreccio di relazioni, con gli altri e con il mondo. Infine, alla separazione corpo-spirito, un altro tra i fondamentali della nostra cultura, Freud oppone un’idea del corpo come memoria, custodia di parole non dette. Queste dunque le questioni che Freud ha posto alla cultura occidentale.

2. Quali sono invece le questioni che Freud non ha saputo porre alla cultura occidentale? Se la psicoanalisi ha intuito che l’identità è relazionale, se ha capito che per guarire si deve sperimentare il transfert, di questa intuizione ha fatto però un uso solo negativo, non ha saputo costruire una cultura della relazione. Il secondo non-detto riguarda la sessualità, che Freud pone al centro. Freud però non parla mai di un’identità sessuata. La sua sessualità è neutra-maschile. E non si può trattare una patologia senza fare riferimento all’identità sessuata, che si appoggia alla certezza della morfologia corporea, la sola terra su cui camminiamo, base della vita personale e relazionale, materiale e culturale.  Infine, quando Freud contrappone natura e culturae impone la legge del padre alla natura-madre, sta imponendo alla natura, alla madre, alla donna qualcosa di sovrasensibile. Ritiene insomma di poter affrontare una patologia della sessualità e dell’identità ricorrendo a qualcosa di sovrasensibile, com’è la cultura-legge del padre. In questo senso la psicoanalisi ad un tempo pretende di guarire e fa ammalare.

3. Un inconscio è davvero necessario? La prima volta che mi sono posta la domanda (lo racconto nel mio libro “Per una nuova cultura dell’energia”) è stata quando per guarire dai postumi di un incidente mi sono rivolta allo yoga, e ho sentito il maestro dire agli allievi che “tutto può diventare conscio”, coerentemente alla tradizione orientale. Per me che ero psicoanalista questo era inaccettabile. Oggi, dopo 30 anni di pratica dello yoga, sarei più prudente. Ogni giorno, grazie alla pratica quotidiana dello yoga, trasformo la mia energia fisica in energia spirituale. Che cosa ne è dell’inconscio? Continuo a pensare che non tutto possa diventare conscio, come sosteneva il maestro, ma molto può essere portato a consapevolezza. Vorrei anche dire che non abbiamo bisogno di alcuna legge del padre per coltivare la nostra identità e la nostra sensibilità. Basta assumere la differenza sessuale, e quindi la propria parzialità, che comporta necessariamente un negativo. Non serve nessuna legge. Nella pratica psicoanalitica si slega l’energia legata, per legarla in un altro modo. Nella mia pratica invece io slego questa energia, e la lascio a disposizione del processo creativo. Infine: l’idea della certezza della coscienza e dalla dicibilità della verità fa riferimento al discorso tra soggetto e oggetto. Ma la parola che ci serve a denominare l’oggetto non è utile per incontrare l’altro. Per poter incontrare l’altro si deve mettere in discussione la certezza della coscienza, ammettendo l’esistenza di un inconscio. Quindi è necessario un inconscio, se intendiamo cambiare la cultura della certezza della coscienza”.

Al termine della sua relazione, Luce Irigaray ha risposto alle domande del pubblico. Ecco alcune delle cose più significative che ha detto:

“Quando parliamo di inconscio, lo intendiamo in due sensi: come ciò che è represso, così lo pensò Freud, oppure come ciò che non è ancora giunto alla nostra percezione. Solo in quest’ultimo senso l’inconscio è una risorsa, fonte di arricchimento”.

“Non riesco a contrapporre Freud e Jung, l’idea di un inconscio individuale e quella di un inconscio collettivo. Anche dal punto di vista freudiano non si può interpretare fino in fondo l’incultura sulla soggettività femminile se non in base a un inconscio collettivo”.

“Per me è importante che il cammino dell’Oriente e quello dell’Occidente oggi si incrocino per lo sviluppo di una  umanità nuova. Per esempio, la cultura orientale ha coltivato maggiormente l’energia, ma manca la dimensione della soggettività. O ancora: vi è differenza tra l’idea orientale di compassione e quella occidentale di amore, ma non dobbiamo rinunciare a nessuno di questi due aspetti. Abbiamo bisogno di una cultura del respiro, ma il respiro ha bisogno di amore. Considero l’anima come una riserva di respiro, come ciò che resta del respiro dopo quel tanto che ho utilizzato per garantire la mia sopravvivenza materiale. Questa riserva di respiro serve alla creazione. Ogni giorno va trovato tempo per il raccoglimento e il respiro. Io lo faccio quotidianamente, mi prendo anche il tempo per stare in contatto con la natura, e quello per scrivere una poesia. Questi sono i miei modi per coltivare l’energia“.

 

 

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, economics, esperienze, TEMPI MODERNI Agosto 19, 2011

Rientro allucinante

Traffico da bollino nero, termometri e afa alle stelle, recessione che incombe: un rientro allucinante. E poi a casa, lavatrici da fare, piante secche (io l’anno scorso anche frigo putrefatto per salto di corrente), bollette arretrate, rate di condominio.

Io direi questo: yoga, che non costa nulla, sorridere gratuitamente, cucinare lentamente, camminare a buon passo, molta acqua, molta uva, stringersi agli amici, perdonare i nemici. Meditare, pregare. Respirare. Saltare fuori dalla rabbia. Un po’ di camomilla e di valeriana, i primi giorni. Buone letture. Buona musica. Iscriversi a un corso di ballo, sempre euforizzante. Dare un occhio alla stagione teatrale. Alleggerire armadi e sgabuzzini. Purificare. Riciclare. Iscriversi a un gruppo di acquisto, comprare cibo buono e a km zero. Fare per gli altri, ogni volta che si può.

Valutare che cosa è davvero irrinunciabile, nelle nostre vite. Prepararsi a una selezione, a una semplificazione, a un downshifting. Chinarsi, diminuire la resistenza, farsi tramite di ciò che è buono. E vediamo come va…

Corpo-anima, Donne e Uomini, esperienze Luglio 18, 2011

Luce e l'Energia

Nel suo nuovo libro “Una nuova cultura dell’energia – Al di là di Oriente e Occidente” (Bollati Boringhieri), Luce Irigaray, filosofa, psicoanalista e madre del femminismo della differenza pone una domanda radicale: che cosa fare della nostra energia, anzi, dell’energia che siamo? Come portare a compimento la nostra umanità?

Oltre a essere psicoanalista, da anni Irigaray pratica  intensamente yoga: Occidente e Oriente, dunque. A legare queste due esperienze, il fatto “che entrambe hanno a che fare con un’energia che devono liberare, far circolare, imparare a coltivare”. L’anima non è altro che una riserva di energia e di respiro che non spendiamo per le necessità immediate. Ed è grazie a questa riserva che possiamo diventare pienamente umani.

E’ quanto all’utilizzazione di questa riserva o anima che Oriente e Occidente si differenziano: se per noi del West la perfezione umana coincide con la totalità dei discorsi (Hegel), a Est l’assoluto è nel silenzio. Ma si tratta di una differenza solo apparente, dice Irigaray: perché anche la parola quando è autentica si radica nel silenzio “in cui mi ritrovo raccogliendo tutto ciò che sono” e mi permette di essere realmente “presente in quello che dico”.

Lo scambio vero tra esseri umani è fatto di queste parole radicate nel silenzio, specie in un’epoca multiculturale com’è la nostra, in cui “la capacità di non limitarci al nostro linguaggio è il primo gesto di ospitalità nei confronti dell’altro”.

E’ in quel silenzio che io posso percepire l’altro a livello del “respiro, dell’anima o dello spirito che animano quel corpo… una sorta di estasi che mi strappa a me stesso”, che ingenera quel desiderio, anche sessuale, capace di produrre un’energia che nessun eccitante chimico potrebbe fornirci. Proprio per questo la differenza tra i sessi “è uno dei principali valori universali da preservare e coltivare”, fonte “rinnovabile” di energia naturale, utile alla vitalità individuale sociale.

Anche lo sguardo, la carezza e il gesto superano l’opposizione tra parola e silenzio -e tra Est e Ovest-: ricordate la memorabile performance muta di Marina Abramovic, The Artist Is Present?

Sta proprio nella cultura e nella coltivazione del respiro, del desiderio e dell’amore tra le donne e gli uomini, e tra noi e qualsiasi altro, quel ponte tra Oriente e Occidente che ci fa entrare in una altra epoca dell’evoluzione e genera una nuova umanità.

luce irigaray

Corpo-anima Giugno 7, 2010

MENTE IMBROGLIONA

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Meglio un tumore, dovendo scegliere, piuttosto che la depressione: secondo Onda, Osservatorio nazionale sulla salute femminile, lo pensa una donna italiana su due. Il tumore puoi provare a curarlo. Con la depressione non vivi più.
La cosa ha una sua pazzesca oggettività. Nel giro di una ventina d’anni -proiezioni Oms- in cima alle emergenze sanitarie ci sarà la depressione, non il cancro. 12 uomini su 100 e 20 donne su 100 sperimenteranno almeno un episodio di male maggiore, che ti inchioda a letto. Un dolore che non sai spiegare e vivi “clandestinamente” e colpevolmente. Su e giù, dentro e fuori, secondo una logica misteriosa: “Ieri stavo bene: che cosa mi è successo, oggi?”.
Quello che è successo ad Alice, che si rigira nel letto, i pensieri che la ossessionano come un disco rotto, è un’ordinaria rogna in ufficio. Una stramaledetta riunione andata storta. Tutto qui. Ora i muscoli le dolgono, si trascina a fatica. I pensieri sempre più neri: ricomincerà a ingozzarsi di cibo, resterà senza lavoro, i figli saranno allo sbando. Tutto andrà male. Una spirale che la avviluppa e la tira giù. La prima volta è stata cinque anni prima, quando il suo matrimonio è finito. Gli antidepressivi l’hanno rimessa in sesto. Ma quando li sospendi prima o poi ci ricaschi. Sempre lo stesso schema: una piccola, occasionale infelicità che risveglia quella grande. E rieccoti all’inferno.
Raccontando il caso di Alice, gli psichiatri americani Jon Kabat-Zinn, Zindel Segal e i loro colleghi inglesi Mark Williams e John Teasdale, autori di “Ritrovare la serenità-Come superare la depressione attraverso la consapevolezza” (RaffaelloCortina), spiegano che ciò che scatena la depressione non è quel piccolo malumore passeggero, ma il modo in cui vi reagiamo. Per liberarci del cattivo sentimento ci divincoliamo. Gli dichiariamo guerra, per la paura che ci trascini nel gorgo. Ma più ci agitiamo e più ci impantaniamo. “La cosa a cui opponiamo resistenza persiste”. E’ proprio questa lotta ad alimentare la cascata dei pensieri “tossici”, e a far lievitare l’angoscia. Ed è qui, in questa fase iniziale, che si deve intervenire, cambiando strategia. La nuova strada è quella della “mindfullness”: consapevolezza, piena presenza mentale, risorsa di cui tutti siamo dotati ma che non sfruttiamo a sufficienza. Si tratta di imparare a vedere le emozioni per quello che sono: “messaggeri” che passano e vanno rapidamente. Se le trattiamo come nemici, se ingaggiamo la battaglia, rimarremo intrappolati proprio nell’umore che stiamo cercando di sconfiggere.
Esempio: è una bella giornata di sole, state passeggiando in riva al mare. Eppure qualcosa che non va. Non vi sentite felici. “Dovresti esserlo”, ammonisce la mente critica. Risultato: state peggio di prima. Si innesca il micidiale processo di ruminazione: “perché non sto bene?”, “che cosa mi sta capitando?”. E la ruminazione è il tappeto rosso della depressione. Ma un’alternativa al pensiero critico esiste, ed è appunto la mindfullness, la consapevolezza.
Daccapo. State passeggiando in riva al mare e non vi sentite perfettamente felici: ma stavolta non lottate contro questa inspiegabile infelicità. La mente consapevole non le resiste, non la giudica, le va incontro, la accoglie per quello che è, un evento mentale temporaneo, una nube passeggera che attraversa rapidamente il cielo. La osserva e la lascia andare. La ruminazione non parte. Il senso di colpa (“non sono capace di essere felice”) è disinnescato. Al suo posto, pazienza e compassione.
Ma come si fa a essere consapevoli? Come si impara a restare fiduciosamente radicati nel presente, stoppando l’automatismo dai cattivi ricordi e la fuga ansiosa nel futuro?
Il programma proposto da Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale –illustrato in un cd allegato al libro- combina pratiche meditative orientali e terapia cognitiva occidentale, e ha dimostrato di saper dimezzare il rischio di ricaduta. Consapevolezza del respiro, primo step: il respiro è l’amico che ci tiene ancorati al qui-e-ora, impedendo alle vecchie abitudini mentali di prendere il sopravvento. La mindfullness può essere anche “in movimento”: camminate consapevoli, Tai Chi, Hatha Yoga, con un coinvolgimento più immediato del corpo, perché la depressione è un’esperienza anche fisica. Contratture, rigidità, dolore, stanchezza che nascono delle reazioni di lotta e/o fuga indotte dalla sofferenza interiore. Lavorare con consapevolezza sul fisico –scansione del corpo– libera i pensieri tossici intrappolati nelle ossa e “abbassa il volume del chiacchiericcio mentale”. Via via si può imparare a essere consapevoli per gran parte della giornata, nel corso delle più semplici attività quotidiane: quando facciamo il bucato, cuciniamo o innaffiamo le piante, la pratica che coincide con la vita, il senso confortante di essere “a casa”.
La depressione può anche essere letta come un grave errore di interpretazione. Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale fanno l’esempio di un ragazzino, figlio di separati. E’ mercoledì e papà lo andrà a prendere a scuola. Il ragazzo è felice: staranno insieme, andranno a comprare nuove scarpe da ginnastica. Ma fuori da scuola papà non c’è. Passano dieci minuti, mezz’ora, un’ora. Il ragazzino torna a casa avvilito. Parte la ruminazione: papà si è dimenticato di lui, non lo ama abbastanza. Si sente solo, senza amici. La sua vita è triste. A casa e accende la tv. Ma quel programma va in onda il martedì! Papà non si è affatto dimenticato. Semplicemente, non era il giorno giusto. L’interpretazione del ragazzo era sbagliata. Il suo dolore però era vero.
Può capitare così anche nella depressione. Prendiamo i cattivi pensieri –le interpretazioni- come cattivi fatti, e ci lasciamo travolgere. Ma i pensieri non sono reali. Sono solo evanescenti oggetti mentali. Nuvole che passano e vanno. Un po’ di allenamento e impareremo a riconoscerli, ad accoglierli e a lasciarli andare, così come sono venuti. La serenità si può apprendere.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 6 giugno 2010

Archivio Agosto 2, 2008

IL BENE HA BISOGNO DI NOI

Il mio maestro di yoga è un uomo molto positivo e cerca di parlare di cose buone appena può. Un giorno, finita la lezione, si mette a dire bene della medicina, dei suoi progressi, del fatto che certe patologie, fino a poco tempo fa mortali, sono sempre più curabili, e di quella vecchietta sua allieva che poco dopo la sostituzione della testa del femore è già in piedi e si muove agevolmente.
Un paio di ragazze, le gambe ancora incrociate nel “loto”, protestano vivacemente: “Non sempre le cose vanno così”. “Potrei raccontarti storie ben diverse”. Certo. Potrei raccontarle anch’io, violando la mia privacy. Di quella volta che nessuno seppe per lungo tempo diagnosticarmi un serissimo problema ginecologico, ed è quasi un miracolo che io abbia potuto avere un bambino. Di quell’altra che a causa di un banalissimo intervento, la rimozione di una neoformazione benigna al collo, per l’imperizia del chirurgo ci ho rimesso una spalla, che da allora soffre di dolori cronici e non ha più ripreso la sua mobilità.
E invece mi viene da raccontare dell’incontro successivo con un ginecologo che mi ha salvato la capacità riproduttiva, oltre alla pelle. E del fatto che con la pratica costante di alcuni esercizi la mia spalla si muove e fa meno male di un tempo.
Dire il bene è farlo essere, dargli spazio e toglierne al male, farlo dilagare e contagiare quello che c’è intorno. Ma al bene si fa una grande resistenza, come per non dargli soddisfazione. E’ la “magica forza del negativo”, per rubare il titolo a un libro a firma delle filosofe di “Diotima”, che rende bene l’idea. E’ la trappola della critica, scambiata come l’unica possibilità di esercizio della libertà: e certo può esserlo, ma non sempre, comunque e in via esclusiva, portando vias spazio al resto.
Dire bene oggi può essere uno scandalo, nel senso etimologico di intoppo, inciampo, nel senso di qualcosa che ci impedisce di continuare nel nostro percorso di distruzione. Può scatenare rabbia e senso di impotenza. Mentre, a ben guardare, un potere più grande non c’è.

(pubblicato su “Io donna” – “Corriere della Sera”  il 2 agosto 2008)

Archivio Maggio 29, 2008

UN POSTO MAGICO

C’è un punto preciso della mia casa, non più di un metro quadro di parquet -ci si sta a malapena in piedi- dove mi sono capitate diverse cose speciali. Lì ho carezzato per la prima volta la creatura non umana che più ho amato nella mia vita, un cucciolo biondo e dispettoso; lì una musica mi ha portato via; lì ho vissuto e sentito cose le cui conseguenze sarebbero durate negli anni a venire. L’ho scoperto per caso e di tanto in tanto mi ci fermo, d’istinto, senza programmarlo. E mi metto in ascolto.
C’è un mudra dello yoga, un gesto che ricorre in posture di preghiera comuni a molte tradizioni religiose – anche nel Padre Nostro cristiano, per esempio-, che favorisce l’ascolto e l’accoglimento di quello che deve venire: le mani lasciate morbide, il palmo rivolto verso l’alto, come in chi attende un dono o si dispone a un’attiva passività.
Non saprei dare una spiegazione di questo fenomeno, che un metro quadro del mio living sia il posto dove capitano certe strane cose. Il meraviglioso, mi verrebbe da dire. E del resto non è questione di spiegare, forse non tutto si aspetta di essere spiegato. Mi capita di trovarmi lì, tra una delle librerie e una portafinestra che accede al terrazzo, il viso a est e le spalle a ovest, gli occhi socchiusi, e la sensazione precisa di essere in un raggio di energia, qualcosa di luminoso che dal più profondo della terra sale in cielo, e mi permette di partecipare a questa unione. Il tempo si fa sferico, come un grembo, e non corre più. Non succede nulla, eppure capita tutto, e quando vuole lui.
Se fossi una donna primitiva lì probabilmente costruirei un piccolo recinto sacro, un tempietto sottratto alla legge dell’utile, alla fretta, alla violenza della ragione, alla paura. Ci metterei qualche oggetto a contrassegnarlo, mi inventerei qualche piccolo rituale di purificazione prima di entrarci. Le stesse cose antiche che fino dalla notte dei tempi gli uomini e le donne hanno fatto quando hanno sentito che in un certo luogo non erano più soli, e tutto era luminoso.
Ma non si può. Di lì ci passiamo frettolosamente tutti. Il cane ci galoppa con la sua pallina. C’è un’enorme tv al plasma a qualche metro. Resterà un segreto tra me e la luce.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)