1210872753depressione

Meglio un tumore, dovendo scegliere, piuttosto che la depressione: secondo Onda, Osservatorio nazionale sulla salute femminile, lo pensa una donna italiana su due. Il tumore puoi provare a curarlo. Con la depressione non vivi più.
La cosa ha una sua pazzesca oggettività. Nel giro di una ventina d’anni -proiezioni Oms- in cima alle emergenze sanitarie ci sarà la depressione, non il cancro. 12 uomini su 100 e 20 donne su 100 sperimenteranno almeno un episodio di male maggiore, che ti inchioda a letto. Un dolore che non sai spiegare e vivi “clandestinamente” e colpevolmente. Su e giù, dentro e fuori, secondo una logica misteriosa: “Ieri stavo bene: che cosa mi è successo, oggi?”.
Quello che è successo ad Alice, che si rigira nel letto, i pensieri che la ossessionano come un disco rotto, è un’ordinaria rogna in ufficio. Una stramaledetta riunione andata storta. Tutto qui. Ora i muscoli le dolgono, si trascina a fatica. I pensieri sempre più neri: ricomincerà a ingozzarsi di cibo, resterà senza lavoro, i figli saranno allo sbando. Tutto andrà male. Una spirale che la avviluppa e la tira giù. La prima volta è stata cinque anni prima, quando il suo matrimonio è finito. Gli antidepressivi l’hanno rimessa in sesto. Ma quando li sospendi prima o poi ci ricaschi. Sempre lo stesso schema: una piccola, occasionale infelicità che risveglia quella grande. E rieccoti all’inferno.
Raccontando il caso di Alice, gli psichiatri americani Jon Kabat-Zinn, Zindel Segal e i loro colleghi inglesi Mark Williams e John Teasdale, autori di “Ritrovare la serenità-Come superare la depressione attraverso la consapevolezza” (RaffaelloCortina), spiegano che ciò che scatena la depressione non è quel piccolo malumore passeggero, ma il modo in cui vi reagiamo. Per liberarci del cattivo sentimento ci divincoliamo. Gli dichiariamo guerra, per la paura che ci trascini nel gorgo. Ma più ci agitiamo e più ci impantaniamo. “La cosa a cui opponiamo resistenza persiste”. E’ proprio questa lotta ad alimentare la cascata dei pensieri “tossici”, e a far lievitare l’angoscia. Ed è qui, in questa fase iniziale, che si deve intervenire, cambiando strategia. La nuova strada è quella della “mindfullness”: consapevolezza, piena presenza mentale, risorsa di cui tutti siamo dotati ma che non sfruttiamo a sufficienza. Si tratta di imparare a vedere le emozioni per quello che sono: “messaggeri” che passano e vanno rapidamente. Se le trattiamo come nemici, se ingaggiamo la battaglia, rimarremo intrappolati proprio nell’umore che stiamo cercando di sconfiggere.
Esempio: è una bella giornata di sole, state passeggiando in riva al mare. Eppure qualcosa che non va. Non vi sentite felici. “Dovresti esserlo”, ammonisce la mente critica. Risultato: state peggio di prima. Si innesca il micidiale processo di ruminazione: “perché non sto bene?”, “che cosa mi sta capitando?”. E la ruminazione è il tappeto rosso della depressione. Ma un’alternativa al pensiero critico esiste, ed è appunto la mindfullness, la consapevolezza.
Daccapo. State passeggiando in riva al mare e non vi sentite perfettamente felici: ma stavolta non lottate contro questa inspiegabile infelicità. La mente consapevole non le resiste, non la giudica, le va incontro, la accoglie per quello che è, un evento mentale temporaneo, una nube passeggera che attraversa rapidamente il cielo. La osserva e la lascia andare. La ruminazione non parte. Il senso di colpa (“non sono capace di essere felice”) è disinnescato. Al suo posto, pazienza e compassione.
Ma come si fa a essere consapevoli? Come si impara a restare fiduciosamente radicati nel presente, stoppando l’automatismo dai cattivi ricordi e la fuga ansiosa nel futuro?
Il programma proposto da Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale –illustrato in un cd allegato al libro- combina pratiche meditative orientali e terapia cognitiva occidentale, e ha dimostrato di saper dimezzare il rischio di ricaduta. Consapevolezza del respiro, primo step: il respiro è l’amico che ci tiene ancorati al qui-e-ora, impedendo alle vecchie abitudini mentali di prendere il sopravvento. La mindfullness può essere anche “in movimento”: camminate consapevoli, Tai Chi, Hatha Yoga, con un coinvolgimento più immediato del corpo, perché la depressione è un’esperienza anche fisica. Contratture, rigidità, dolore, stanchezza che nascono delle reazioni di lotta e/o fuga indotte dalla sofferenza interiore. Lavorare con consapevolezza sul fisico –scansione del corpo– libera i pensieri tossici intrappolati nelle ossa e “abbassa il volume del chiacchiericcio mentale”. Via via si può imparare a essere consapevoli per gran parte della giornata, nel corso delle più semplici attività quotidiane: quando facciamo il bucato, cuciniamo o innaffiamo le piante, la pratica che coincide con la vita, il senso confortante di essere “a casa”.
La depressione può anche essere letta come un grave errore di interpretazione. Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale fanno l’esempio di un ragazzino, figlio di separati. E’ mercoledì e papà lo andrà a prendere a scuola. Il ragazzo è felice: staranno insieme, andranno a comprare nuove scarpe da ginnastica. Ma fuori da scuola papà non c’è. Passano dieci minuti, mezz’ora, un’ora. Il ragazzino torna a casa avvilito. Parte la ruminazione: papà si è dimenticato di lui, non lo ama abbastanza. Si sente solo, senza amici. La sua vita è triste. A casa e accende la tv. Ma quel programma va in onda il martedì! Papà non si è affatto dimenticato. Semplicemente, non era il giorno giusto. L’interpretazione del ragazzo era sbagliata. Il suo dolore però era vero.
Può capitare così anche nella depressione. Prendiamo i cattivi pensieri –le interpretazioni- come cattivi fatti, e ci lasciamo travolgere. Ma i pensieri non sono reali. Sono solo evanescenti oggetti mentali. Nuvole che passano e vanno. Un po’ di allenamento e impareremo a riconoscerli, ad accoglierli e a lasciarli andare, così come sono venuti. La serenità si può apprendere.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 6 giugno 2010

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