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regione lombardia

bambini, Politica Febbraio 17, 2016

Lombardia: se adotti niente bonus bebè

Più ancora che l’arresto (semplice routine: Lombardia ladrona) per concussione e turbativa d’asta del leghista Fabio Rizzi, braccio destro nel settore Sanità del governatore lombardo Roberto Maroni, mi offende e mi umilia la vicenda del bonus bebè che esclude i figli adottivi.

Maroni spiega goffamente che la misura sarebbe a sostegno della natalità, e non rientra nelle misure di aiuto alle famiglie (quali?). E’ evidente che Maroni non ha approfondito la questione della denatalità, per affrontare la quale il bonus bebè serve poco o niente.

Propagandisticamente però la misura è molto efficace. A corroborare una cultura per la quale ci sono i figli di serie A e quelli di serie B (specie se gli adottati non sono bianchi caucasici), a ribadire lo ius sanguinis, meglio se sang lumbard, a completare il capolavoro del nostro bel grattacielo progettato da Giò Ponti illuminato a sostegno del Family Day. Soprattutto a disincentivare ulteriormente le adozioni, che sono già drasticamente diminuite a causa dei costi e della complessità delle procedure. Ed eventualmente a vantaggio del business della fecondazione assistita: in Lombardia l’eterologa costa fino a 4 mila euro (qualche mese fa il Tar ha giudicato la misura illegittima, ora si attende il pronunciamento del Consiglio di Stato).

Quella del bonus bebè riservato solo ai nuovi nati è una misura più culturale che economica. E spalanca la forbice tra una regione avanzata, allineata o perfino superiore nei suoi standard alle medie europee, e la sua classe dirigente retriva e ideologica. Ladri a parte.

Da lombarda mi vergogno e chiedo scusa alle generose famiglie che accolgono un bambino.    

diritti, Donne e Uomini, migranti Dicembre 11, 2015

Lombardi alla prima Crociata. Contro il Niqab

Tanti anni fa, subito dopo l’11 settembre, mi sono infilata un burqa afghano di rayon blu e sono andata in giro per le strade di Milano. Per vedere di nascosto l’effetto che fa: a me, e tutti gli altri. L’effetto fu pessimo: un’esperienza terribile, non poter respirare, non riuscire a vedere, non sentirmi più io, essere presa a male parole nel mio quartiere da gente che ritenevo buona e caritatevole. Un incubo. L’unico ricordo gentile, alcune vecchie signore che mi invitarono a levarmi quel coso di dosso: “Qui sei in Italia, non può obbligarti nessuno”.

Tutto sommato ci siamo abituati: non ai burqa afghani, ma qualche niqab nelle nostre città si vede: quel velo integrale total black, una fessura che scopre gli occhi, appena più pietosa dell’accecante reticella del burqa. Io ne ho visti per strada, al supermercato. Doppia umanissima inquietudine: per il destino della donna che sta lì sotto, per la paura che oltre alla donna ci sia qualche etto di esplosivo.

La delibera del governatore della Lombardia Roberto Maroni, che vieta l’accesso a caschi e volti coperti negli ospedali e negli uffici regionali, non parla esplicitamente di velo integrale, ma dice in premessa che «le tradizioni o i costumi religiosi (…) non possono rappresentare giustificati motivi di eccezione (…) rispetto alle esigenze di sicurezza». Esiste già una legge nazionale a disporre in questo senso: la delibera Maroni ne chiede in sostanza un’applicazione più severa, cogliendo l’occasione post-parigina per fare un po’ di propaganda. Che a mio parere va a segno: la disposizione di sicuro non spiacerà alla maggioranza dei cittadini, anche se il numero dei niqab in giro è molto esiguo.

In Francia da 5 anni è in vigore la legge “interdisant la dissimulation du visage dans l’espace public”. Il divieto vale anche strada, sui mezzi pubblici, nei centri commerciali, con una multa di 30mila euro e il carcere per chi obbliga la donna a velarsi integralmente. In 5 anni le donne fermate sono state poco più di un migliaio (i musulmani in Francia sono più di 5 milioni) e vivono quasi tutte a Parigi e dintorni. La legge non è servita a impedire l’orribile strage del 13 novembre, e anzi ha risvegliato una sorta di orgoglio del niqab: ci sono donne che hanno deciso di indossarlo in segno di protesta contro il divieto, radicalizzandosi.

La delibera Maroni interferisce anche con il diritto alla salute, per quanto limitato a un numero davvero esiguo di casi: donne che, non potendo presentarsi velate in ospedale, potrebbero decidere di rinunciare alle cure tout court. Non si rischia di peggiorarne la condizione, già evidentemente penosa? Un anno fa a Padova un gruppo di profughi uomini rifiutò di essere visitato da personale sanitario femminile, e l’Asl decise di richiamare medici maschi in pensione. La resistenza a rinunciare ai propri costumi può essere davvero molto forte.

E’ davvero opportuna, questa delibera? Non c’è il rischio che i danni siano maggiori dei benefici?

 

Donne e Uomini, femminicidio, Femminismo, Politica Marzo 12, 2015

Business antiviolenza: ce n’è per tutti. Tranne che per i centri gestiti dalle donne

Milano, Palazzo Lombardia: la manifestazione della rete lombarda delle Case delle Donne e dei Centri antiviolenza

Quando dico backlash, o contrattacco, o ritorno al passato remoto, mi riferisco a cose tipo il discorso di Maria Cristina Cantù, assessora leghista lombarda alla Famiglia, alla Solidarietà Sociale, al Volontariato e alle Pari Opportunità (un bel mucchietto di roba) per introdurre il convegno «Pari Opportunità e contrasto alla violenza di genere in Lombardia. Strumenti d’intervento e scenari di sviluppo per il 2015» in corso a Milano, Palazzo Lombardia. Dopo averci ammannito un improbabile “persuàdere” -probabilmente si intendeva “persuadère”- l’assessora si è avventurata in un ardito paragone tra la stupidità dei violentatori di donne e quella dei writer imbrattatori di treni della metropolitana. Ed è detto pressoché tutto.

Fuori da Palazzo Lombardia il presidio di protesta della rete lombarda delle Case delle donne e dei Centri antiviolenza, che nessuno ha invitato al convegno: mother of us all (un’esperienza trentennale, navigando controvento e con scarsissime risorse, in cui si è originato il metodo che da sempre viene adottato nei corsi di formazione) che la giunta Maroni non considera come interlocutrici. “Nonostante le continue riunioni di tavoli a cui veniamo chiamate a portare idee, contenuti ed esperienze” spiegano “ultima e pericolosa invenzione è quella di definire ospedali, consultori, sportelli e servizi come centri antiviolenza pubblici ingannando e creando confusione fra le donne».

A Marisa Guarneri, pioniera e presidente onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano, chiedo di chiarire i termini della querelle.

Marisa Guarneri, Presidente Onoraria della Casa delle Donne Maltrattate di Milano

“Il punto è la strategia politica della giunta Maroni, che sceglie l’istituzionalizzazione della lotta alla violenza” dice. “Quanto al governo Renzi, stessa musica: aspettiamo ancora di conoscere i contenuti del piano nazionale. Senza la nostra esperienza non ci sarebbe nemmeno stata lotta alla violenza, ma nonostante la convenzione di Istanbul riconosca un ruolo di primo piano ai centri gestiti dalle donne, i nostri centri vengono dimenticati, privilegiando l’intervento pubblico, ospedali compresi. Il che significa, per fare un esempio, obbligo di denuncia, quando invece è ampiamente dimostrato che segretezza e anonimato sono essenziali per accompagnare le donne che chiedono aiuto. Noi abbiamo sempre lavorato per la libertà femminile” conclude Guarneri “per fare uscire la forza che anche una donna maltrattata ha dentro di sé. Questo è l’unico modo per contrastare la violenza. Qui invece si parla di “mettere in sicurezza” le donne (copyright, Fabrizia Giuliani, deputata Pd), di tutelarle, di controllarle come eterne minori. Per non parlare dei finanziamenti: le istituzioni stanziano fondi per finanziare se stesse“.

In effetti, se prima erano in 4 a ballare l’hully-gully, ora che la lotta antiviolenza è diventata un business a tutti gli effetti (fondi pubblici, corsi di formazione, sportelli, progetti, libri e show) tutti quanti vogliono ballare, sempre sulla pelle nostra e, ovvio, con soldi nostri. Tagliando fuori quello che alcuni definiscono sprezzantemente “vecchio femminismo”, nel quale tuttavia si sono fondate e continuano a fondarsi le pratiche più efficaci nella lotta alla violenza, basate sul primato della relazione. E a cui sarebbe più giusto dare il nome di radicalità femminile. Radicalità di cui oggi, a fronte dell’esangue parità solo apparente, oggi c’è più che mai bisogno.

 

 

 

 

 

femminicidio, questione maschile Giugno 26, 2014

A chi i fondi per la lotta anti-violenza?

Il 10 luglio a Roma-i dettagli in coda al post- i Centri antiviolenza e le Case delle Donne associate in D.i.Re manifesteranno contro i criteri di stanziamento dei fondi governativi contro la violenza e il femminicidio.

A seguire tutte le info sulla vicenda.

 

Stamattina la rete dei Centri antiviolenza e delle Case delle donne della Lombardia (16 in tutto) ha animato un affollato incontro al Pirellone per illustrare pratica e metodologia condivise dell’intervento.

Ma anche per confrontarsi sulla questione dei finanziamenti ad hoc previsti dal decreto Femminicidio e dalla legge di Stabilità. Ci vorrà ancora un mese perché lo stanziamento di 17 milioni sia effettivo: la Conferenza Stato-regioni sta ancora discutendo sui criteri di distribuzione. Quello che è certo, i soldi arriveranno alle Regioni, che a loro volta li faranno amministrare ai Comuni, titolati alla decisione finale sui centri destinatari.

Destano qualche preoccupazione le dichiarazioni dell’assessora regionale alle Pari Opportunità Paola Bulbarelli, già Pdl, che ha indicato come obiettivo 44 centri operativi entro l’anno, con relativi corsi di formazione.

Al momento, come dicevamo, i Centri e le Case sono 16: la prima è stata la Casa delle Donne maltrattate di Milano, fondata dalla pioniera Marisa Guarneri e da altre nella seconda metà degli anni Ottanta, quando quella della violenza appariva come una questione marginale. Il metodo di intervento messo a punto e lungamente sperimentato nella Casa di Milano è stato in seguito acquisito e praticato nella Case nate successivamente in Lombardia e su tutto il territorio nazionale (in Italia la rete si chiama D.i.Re e conta 62 centri)

Nel lavoro contro la violenza sessista la metodologia è tutto.

“E’ un metodo basato sulla relazione tra donne” ha chiarito Manuela Ulivi, Presidente della Casa delle Donne maltrattate di Milano “che stabilisce molto precisamente percorso e criteri dal momento delicatissimo dell’accoglienza, alla costruzione di un progetto non sulla donna ma con la donna, la quale resta la protagonista insostituibile del suo cammino di liberazione dalla violenza. E’ lei,  non le “esperte”, a stabilire i tempi del suo cammino, senza mai essere giudicata o eterodiretta. E’ lei ad attivare le sue risorse interiori, la sua forza e i suoi desideri, in un percorso condiviso con le altre che mettono a disposizione professionalità, esperienza ed empatia, ma soprattutto la voglia di condividere con la donna questo passaggio delicato della sua vita”.

Uno sportello anti-violenza, un “centro” messo in piedi in quattro e quattr’otto, che non nascano da questo desiderio e da questa esperienza ma da un atto burocratico o, peggio, dall’interesse a intercettare i fondi regionali o nazionali, non hanno niente a che vedere con queste realtà consolidate.

Negli ultimi anni è nato un vero e proprio business, molto italiano, e perfino uno showbitz dell’anti-violenza: esperti e centri improvvisati, corsi volanti di formazione, operazioni editoriali instant e di dubbia qualità, iniziative e spettacoli “d’emergenza”. Non è in questo modo che si contrastano violenza e femminicidio.

Che la Lombardia, come annunciato dall’assessora Bulbarelli, nel giro di pochi mesi conti di istituire un’altra trentina di centri individuati dai comuni come possibili destinatari delle risorse stanziate non è certamente una buona notizia, e fa temere il solito peggio.

 

Aggiornamento domenica 29 giugno:

Duro comunicato dei Centri antiviolenza e delle Case delle Donne
che ricevono solo le briciole dei finanziamenti governativi

 Ai centri antiviolenza solo le briciole dei finanziamenti stanziati:
e il resto dei fondi a chi?

Sei mila euro l’anno per due anni: è quanto il Governo intende assegnare a ognuno degli storici Centri antiviolenza e alle Case Rifugio che operano con efficacia da decenni e in regime di volontariato.
E’ in questa esperienza che si radicano il sapere e il metodo che consentono a tante donne di salvarsi la vita, e di ritrovare autonomia e libertà.
Ma quei soldi non basteranno nemmeno a pagare le bollette telefoniche.

A chi gran parte degli stanziamenti (circa 15 milioni di euro)?
Alle Regioni, che finanzieranno progetti sulla base di bandi: la scelta è quella di sostenere “centri” e sportelli istituiti last minute, oltre che di istituzionalizzare i percorsi di uscita dalla violenza delle donne.

Apprendiamo dalla stampa – il Sole 24 ORE del 27 giugno 2014 – le incredibili modalità di riparto dei fondi -17 milioni di euro- stanziati dalla L. 119/2013 detta contro il femminicidio per gli anni 2013/14.

Secondo una mappatura in base a criteri illeggibili, di questi 17 milioni ai 352 Centri Antiviolenza e Case Rifugio toccheranno solo 2.260.000 euro, circa 6.000 euro per ciascun centro.
Inoltre tutti i centri, pubblici e privati, saranno finanziati allo stesso modo, senza tenere conto del fatto che diversamente dai privati i centri pubblici hanno sedi, utenze e personale già pagati.

Questa scelta del Governo contravviene in modo netto alla Convenzione di Istanbul per la prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, che l’Italia ha ratificato e che entrerà in vigore il prossimo 1° agosto, la quale prevede siano destinate “ adeguate risorse finanziarie e umane per la corretta applicazione delle politiche integrate, misure e programmi per prevenire e combattere tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione, incluse quelle svolte da organizzazioni non governative e dalla società civile” (Articolo 8)
Nella Convenzione si privilegia il lavoro dei centri di donne indipendenti, mentre il Governo Italiano sceglie di destinare la maggior parte dei finanziamenti alle reti di carattere istituzionale.

L’idea e’ che la politica non intenda rinunciare a ‘intercettare’ quei fondi, e che si proponga di controllare e ridurre allo stremo i Centri antiviolenza indipendenti, gia’ operativi da molti anni e associati nella rete nazionale D.i.Re (Donne in Rete Contro la Violenza).

Denunciamo questo modo di procedere.

Il Governo non ha sino ad oggi neppure formulato un Piano Nazionale Antiviolenza, e si presenta in Europa senza avere intrapreso un confronto politico serio con tutte coloro che lavorano da oltre 20 anni sul territorio, offrendo politiche e servizi di qualità per prevenire e contrastare il fenomeno della violenza sulle donne.

Roma, 28 giugno 2014
Di.Re Donne in Rete contro la violenza
Casa Internazionale delle Donne – Via della Lungara, 19 – 00165 Roma, Italia, Cell 3927200580 – Tel 06 68892502 Fax 06 3244992 – Email direcontrolaviolenza@women.it; www.direcontrolaviolenza.it

 

Aggiornamento 3 luglio: e ora non c’è più nemmeno l’arresto preventivo per maltrattanti e stalker.

Aggiornamento 4 luglio: il 10 luglio a Roma manifestazione dei centri antiviolenza

 

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, bambini, salute Luglio 4, 2013

Divieto di morbillo per i piccoli immigrati

Dunque: a Milano un bambino di 5 anni, figlio di immigrati irregolari (ovvero senza permesso di soggiorno), è febbricitante e pieno di bollicine. Verosimilmente una malattia esantematica. In genere è un pediatra a fare diagnosi e indicare una terapia. Ma il nostro piccoletto un pediatra non ce l’ha: per i figli di irregolari il servizio pediatrico è garantito solo fino ai 6 mesi. Dopo i 6 mesi in caso di malattia c’è solo il pronto soccorso, che oltre a non garantire la continuità di cure, necessaria in particolare per la salute di una creatura in crescita, comporta per la nostra sanità un esborso assai maggiore. Quindi anche dal punto di vista della spesa pubblica si tratta di una scelta fallimentare. La salute è un bene collettivo, e non tutelarlo costa.

Un pediatra volontario visita il piccolo, e diagnostica una varicella. La diagnosi rapida e certa di una malattia infettiva, com’è il caso delle malattie esantematiche, è il solo efficace presidio contro la diffusione dell’epidemia, che oltre ai molti disagi comporta, anch’essa, un aumento della spesa pubblica. Ma se non fosse stato per il buon cuore di quel pediatra, per il bimbo non ci sarebbe stato che il pronto soccorso.

A raccontarmi la storia esemplare è Lucia Castellano, capogruppo in Regione Lombardia per Patto Civico Ambrosoli, poche ore dopo che la Regione ha ribadito l’intenzione di non garantire cure pediatriche oltre i 6 mesi per i bimbi figli di irregolari.

C’è un accordo Stato-Regioni per garantire a tutti i bambini, compresi i figli di irregolari, continuità di cure. Ma a differenza di altre regioni, la Lombardia dell’eccellenza sanitaria non lo ha recepito.

Insieme al Pd, il Patto Civico per Ambrosoli ha presentato una mozione per aderire all’accordo, ma l’ipotesi è stata respinta all’unanimità da i rappresentanti del Pdl, della Lega, dei Fratelli d’Italia e della Lista Maroni. Tra gli argomenti, il fatto che garantire cure pediatriche ai figli di irregolari costituirebbe una “breccia” strumentale per superare la legge Bossi-Fini sull’immigrazione; che in caso di malattia, come già detto, ci sono eventualmente i Pronti Soccorsi; e che anzi i pediatri, in quanto pubblici ufficiali, sarebbero tenuti a denunciare i “clandestini” grandi e piccoli.

Anche i ciellini e tutti i cattolici di Lega e Pdl hanno votato contro.

Lucia mi prega di mettervi al corrente di questa vicenda, e io lo faccio volentieri.

 

Qui il testo della mozione, primo firmatario Umberto Ambrosoli:

 

IL CONSIGLIO REGIONALE DELLA LOMBARDIA

PREMESSO CHE
secondo i dati fomiti dall’ORIM (Osservatorio Regionale per l’integrazione e la
multietnicità) il numero dei cittadini stranieri extracomunitari che risiedono in
Lombardia è aumentato sensibilmente negli ultimi anni;
che i figli di stranieri senza permesso di soggiorno possono accedere alle strutture
sanitarie solo per prestazioni urgenti ed essenziali, come le vaccinazioni o per
patologie che, se non curate, provocano danni permanenti;
che i figli di cittadini stranieri senza permesso di soggiorno hanno diritto
all’assistenza del pediatra di famiglia solo fino ai 6 mesi di vita, il che significa che
manca la continuità delle cure e la prevenzione, determinando evidenti rischi anche
per la salute pubblica;
CONSTATATO CHE
il DPR n. 394/99, ha delegato alle regioni italiane l’organizzazione dei servizi
sanitari, ovvero la definizione dei destinatari e dei luoghi dove fornire l’assistenza
sanitaria:
“le regioni individuano le modalità più opportune per garantire le cure essenziali e
continuative, che possono essere erogate nell’ambito delle strutture della medicina
del territorio o nei presidi sanitari accreditati, strutture in forma poliambulatoriale od
ospedaliera, eventualmente in collaborazione con organismi di volontariato aventi
esperienza specifica;
CONSTATATO INOLTRE CHE
le regioni come Friuli Venezia Giulia, Umbria, Toscana, e P.A. di Trento prevedono
l’accesso dei minori irregolari anche all’assistenza pediatrica fornita dai PLS;
CONSIDERATO CHE
i figli degli stranieri senza permesso di soggiorno non hanno diritto al pediatra di
famiglia cioè alla continuità delle cure e che questo determina una limitazione del
diritto alla salute del minore che si trova chiaramente in contrasto con la
Convenzione sui diritti del fanciullo, che stabilisce che tutti i minori, senza
discriminazioni, devono avere accesso ali’ assistenza sanitaria;
CONSIDERATO INOLTRE CHE
– il Parlamento Europeo ha invitato gli Stati membri, con la Risoluzione A7-0032/2011
dell’S febbraio 2011, “ad assicurare che i gruppi più vulnerabili, compresi i migranti
sprovvisti di documenti, abbiano diritto e possano di fatto beneficiare della parità di
accesso al sistema sanitario” e “a garantire che tutte le donne in gravidanza e i
bambini, indipendentemente dal loro status, abbiano diritto alla protezione sociale
quale definita nella loro legislazione nazionale, e di fatto la ricevano”;
– che molti medici in diverse strutture, ottemperando al giuramento di Ippocrate,
prestano comunque l’assistenza in una condizione di indeterminatezza che rischia di
risultare in contrasto con le normative;
VISTO CHE
gli artt. 2 comma 2 e il 24 della Convenzione di New Y ork disciplinano la tutela del
diritto alla salute di tutti i minori non solo di quelli che hanno la cittadinanza;
l’art. 32 comma 2 della Costituzione recita: “La Repubblica tutela la salute come
fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure
gratuite agli indigenti”;
INVITA IL PRESIDENTE E LA GIUNTA REGIONALE:
a riconoscere l’assistenza sanitaria di base anche per i minori non regolari tramite
l’attribuzione del Pediatra di libera scelta e l’erogazione di determinate prestazioni
sanitarie per i figli di immigrati extracomunitari senza permesso di soggiorno.

Umberto Ambrosoli

Lucia Castellano
Fabio Pizzul
Laura Barzaghi
Roberto Bruni
Carlo Borghetti
Michele Busi
Marco Carra
Paolo Micheli

Gianantonio Girelli

Sara Valmaggi

Donne e Uomini, Politica Febbraio 5, 2013

Per le donne: Umberto Ambrosoli

Dal candidato presidente di Regione Lombardia Umberto Ambrosoli ricevo le proposte politiche per le cittadine, che pubblico qui a seguire -in attesa di ricevere il programma su questi temi dei candidati presidenti degli altri schieramenti-.

La Lombardia è agli ultimi posti in Italia secondo l’indicatore di uguaglianza di genere della Banca d’Italia, con un valore di tra 0,26 e 0,35, peggiore di quasi tutto il centro nord.

 Umberto Ambrosoli incontra le donne di Lombardia e promette: “Lavoreremo su regole, opportunità e cultura: liberare le energie delle donne va a vantaggio di tutta la regione”

 Mezzo punto di PIL per ogni punto percentuale di occupazione femminile. Basterebbe questo a investire nelle pari opportunità, ma c’è anche altro. Oggi la disuguaglianza di genere in Lombardia riguarda la retribuzione (meno 6 per cento a parità di ruolo), la rappresentanza politica ed economica (con una presenza femminile nelle posizioni decisionali che va dal 5 all’11 per cento), ed è anche un problema culturale di dimensioni profonde.

I punti essenziali del programma di Ambrosoli in materia di Democrazia Paritaria sono:

  • la piena attuazione del principio della parità, anche numerica, negli organi di governo della Regione;
  • il pieno riconoscimento e la promozione dei diritti delle donne in tutti gli aspetti della vita quotidiana:
    • dalla conciliazione dei tempi di lavoro e cura,
    • all’implementazione di strumenti di rientro nel mondo del lavoro dopo licenziamenti o allontanamenti spontanei anche per ragioni di cura dei figli e degli anziani;
    • dal disegno della città e dei suoi servizi
    • alla promozione e al sostegno dell’imprenditoria femminile;
    • alla medicina che curi finalmente la donna nella sua specificità durante la malattia (“medicina di genere”).

In tema di sanità, il programma promette la piena attuazione della legge 194 in tutte le sue declinazioni, garantendone l’applicazione in tutta la regione, anche in presenza di medici e infermieri obiettori di coscienza.

 Forte il focus su un’adeguata promozione e azione di sostegno per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, che si tratti di donne dipendenti (percorsi di carriera, parità di salario, rientro nel mondo del lavoro dopo la maternità, licenziamenti o allontanamenti spontanei) che imprenditrici (incentivi per lo sviluppo dell’imprenditoria femminile).

A vantaggio delle donne ma anche degli uomini, delle famiglie e naturalmente dell’azienda.

Molta attenzione anche ad azioni per facilitare l’imprenditoria femminile, quali:

  • consulenza alla costruzione del business plan e mentoring
  • finanziamenti e accesso al credito: convenzioni con istituti di credito attraverso lo strumento del Fondo Regionale per lo Sviluppo (per garanzie sui prestiti delle banche alle imprese femminili)
  • strumenti di supporto all’accesso di finanziamenti e bandi europei diretti all’imprenditoria femminile e a progetti di conciliazione.

Inoltre, Regione Lombardia si impegna ad attuare e dare rilievo alle direttive indicate nella legge regionale 11/2012, Interventi a sostegno delle donne vittime di violenza, approvata il 26 giugno scorso.

 

 

Politica, Senza categoria Gennaio 13, 2013

Houston, qui Ohio. Abbiamo un problema

Da quando vivo a Milano, cioè dalla nascita, ho sempre visto la sinistra, e in particolare tutta la filiera dal Pci al Pd, rimbalzarsi l’oggetto non identificato “Lombardia” come una patata bollente. Capita un po’ come -posso dire?- nei giornali: quelli meno graditi ai direttori, o ritenuti meno bravi, o meno protetti, mandati un po’ miopemente al confino nell’online. Senza pensare che l’online sta diventando, com’era ampiamente prevedibile, il reparto strategico.

Ecco, la Lombardia per la sinistra è un po’ così. A parole importante, importantissima, strategica. E del resto tutte le cose politicamente rilevanti sono sempre cominciate qui, compresa l’ultimissima svolta arancione. Ma a uno sguardo romano, la Lombardia e Milano restano totalmente incomprensibili. A parole, l’Ohio. Nei fatti, la provincia dell’impero. Eventualmente luogo di confino, dove piazzare qualche candidatura imbarazzante. Gli stessi funzionari lombardi, appena possono, tentano la fuga a Roma: in tanti stanno andando in Parlamento, lasciando sguarnita la prima linea e dando l’idea di non crederci. Ci aveva pensato anche il segretario regionale Maurizio Martina, che poi però ha cambiato idea (o gli hanno suggerito di cambiarla). Ma forse a spiegare tante cose basta il fatto che ci abbia pensato, a  operazione Ambrosoli aperta.

Leggo che perfino il Wall Street Journal e il Financial Times si occupano di noi: qui si gioca una partita decisiva per gli eventuali Stati Uniti d’Europa, o anche per quelli disuniti. Ma il fuggi-fuggi generale fa ritenere che a sinistra quei giornali non li leggano, e dà il senso di una smobilitazione preventiva.

Il centrodestra, ben più radicato territorialmente -che cosa sia la Lombardia, Maroni e i suoi colleghi lo sanno invece molto bene -è dato più avanti: sia alle regionali, dove se non ci fosse l’impuntamento di Albertini, la partita sarebbe bell’e chiusa, sia al  Senato, date un’occhiata a questo sondaggio . E le due partite si giocano insieme. L’incredibile rimonta di Berlusconi è guardata con sconcerto, disprezzata come “fatto mediatico”, in sostanza solo “virtuale”. “Gli italiani non saranno così imbecilli”, si dice. “Non avranno la memoria tanto corta”. E invece a quanto pare ce l’hanno. O meglio -ed è un fatto, mica un fattoide, con cui si devono fare attentamente i conti- forse non bastano i pur freschi ricordi di mazzette, corruzione, ndrangheta a spostare i lombardi a sinistra.

Forse ci vorrebbero buone idee, che senz’altro ci sono, ma stentano a circolare. Forse servirebbero più coraggio e meno ambiguità, e un’idea diversa e meno ottocentesca dei cosiddetti “moderati”. Forse ci vorrebbe un maggior numero di facce che rappresentano con immediatezza le nuove e buone idee, e si dovrebbe saper parlare alla “pancia” degli elettori, intendendola non come i più bassi istinti, ma come il robusto buon senso di un  popolo, usando parole semplici e buone come il pane. Forse si sarebbero dovuti schierare qui i propri talenti migliori, mix tra territorio reale e visionarietà, evitando di collocare certi scarti azotati di Roma: perché oggi gli elettori aguzzano lo sguardo, umiliati dal Porcellum vogliono conoscere anche il numero di scarpe di chi votano.

L’idea è quella di trovarsi su un taxi impazzito, con il tassametro che viaggia alla velocità della luce. E alla fine del viaggio potrebbe esserci il blocco nordista, dal Piemonte al Veneto. Il che significa secessione sostanziale. Siamo al fondo di un enorme imbuto, e tutto accelera all’impazzata. Può capitare di tutto, da un giorno all’altro.

Mi torna in mente un’amica, importante politica del Pci che poi diventò anche ministra, a cui un giorno -ormai milioni di anni fa- segnalai i primi sommovimenti leghisti, dicendole -conosco la mia gente- che quella era una cosa vera, da osservare con attenzione. Mi guardò con un sorriso di compatimento: “Sai che ti voglio bene. Non dirle in giro, certe stupidaggini”.

Io le mie stupidaggini, qui dall’Ohio, continuo a dirle. Fra cui questa: la sinistra ha ancora tempo. Ma ne ha poco.

 

 

Politica Ottobre 26, 2012

Regione Lombardia: ma Civati no?

Io, da povera donnina quale sono, non ho ben capito come mai Bruno Tabacci, già assessore milanese al Bilancio -al momento, forse lui spera definitivamente, ha rimesso le deleghe- nonché parlamentare, si voglia candidare dappertutto. Quatto quatto ha raccolto le sue firme e da ieri è ufficialmente in corsa per le primarie nazionali del centrosinistra. Ma avrà rinunciato a quelle per Regione Lombardia? Forse la spiegazione è la più semplice, Watson. Forse è solo che vuole garantirsi un futuro politico, ma questa bulimia non corrisponde alla sua storica immagine di moderato. Nel frattempo segnalo una pagina-cult di Facebook, Marxisti per Tabacci. C’è da passarci le ore.

L’altra cosa che non ho capito è che cosa vada cercando il Pd lombardo, come mai si ostini a frugare disperatamente nel cappello alla ricerca di un pingue coniglio, perché si stracci le vesti per la rinuncia di Umberto Ambrosoli, quando tutti i sondaggi formali e informali su Regione Lombardia indicano un netto favore popolare per Giuseppe Civati detto Pippo. Che tra l’altro è del Pd, il che al Pd non dovrebbe del tutto spiacere. Se poi Civati, invece di presentarsi come salvatore della patria, uomo della provvidenza ecc. ecc., scegliesse  di offrirsi modernamente all’elettorato già circondato di almeno parte della sua squadra, paghi uno e prendi 6 o 7, la bella novità farebbe salire alle stelle le sue quotazioni. E quindi, suppongo, anche quelle del Pd. Non l’ho capito io, ma credo non l’abbiano capito nemmeno i militanti del Pd.

A volte pare che il Pd lombardo non si intenda come il primo partito che è, che giochi sempre un po’ di rimessa, che si tenga a lato, che non si fidi di se stesso, che intenda le proposte degli altri come comunque migliori delle proprie, che si affidi volentieri a papi stranieri, ancorché parenti -nella fattispecie il sindaco arancione-, che vincere non gli sembri mai una buona idea. Impossessato, come diceva Francesco De Sanctis di Don Abbondio, dal “demone della paura”.

Che ci facciano capire presto, e tiremm innanz.

 

Politica Ottobre 17, 2012

Regione Lombardia: fattore Maroni

Se votassi il centrodestra -e non nascondiamoci: non lo voto- sarei entusiasta della candidatura di Bobo Maroni alla presidenza di Regione Lombardia. Avrebbero già dovuto candidarlo come sindaco per non perdere Milano: l’avevo suggerito, a suo tempo, ai miei pochi buoni amici di quella parte politica.

Maroni ha le carte in regola se non per vincere, impresa piuttosto disperata, quanto meno per minimizzare il prezzo che il suo schieramento dovrà pagare. Caduto sulla ‘ndrangheta, il centrodestra potrebbe almeno in parte rialzarsi affidandosi a un ex-ministro degli Interni che nella lotta alla criminalità organizzata ha ottenuto qualche risultato. E che saprebbe riaccendere l’orgoglio della Lega, bestia ferita ma ancora vigorosa (conosco la mia terra e la mia gente). Insomma, non l’en plein, ma un argine sicuro contro la disfatta.

Più debole la candidatura dell’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini, stimato dai moderati, un po’ troppo milanese per infiammare la riscossa. Ma anche lui non da sottovalutare.

A quanto pare il centrodestra sta valutando di organizzare primarie di coalizione (Maroni dice sì, certo di vincere). Ragione in più per non evitare quelle del centrosinistra: io sarei per un primarie day il 25 novembre, politiche e regionali in un colpo solo. Non credo che convenga saltare questo passaggio: i lombardi -noi lombardi- hanno molta voglia di scegliersi il presidente.

Vediamo i nomi che girano: Umberto Ambrosoli, avvocato penalista e giovane uomo degnissimo, riservato figlio dell’eroe borghese Giorgio Ambrosoli, più anti-Formigoni di lui non sembrerebbe esserci. Ma lui oppone -il che lo rende ulteriormente degno- la sua inesperienza della macchina amministrativa e del sistema Lombardia: già rifiutò la candidatura a sindaco. Non sembrerebbero schermaglie. Vedremo. Bruno Tabacci: candidatura debolissima. Già un trentennio fa vicepresidente di Regione Lombardia e oggi assessore al Bilancio nella giunta Pisapia, Tabacci è percepito come “vecchia politica”. Difficile che possa interpretare il grande desiderio di rinnovamento. Alessandra Kustermann: fantastica medica, primaria alla clinica Mangiagalli, esperta del sistema sanitario, grande e antico lavoro a fianco delle donne, in particolare sul tema della violenza. Potrebbe catalizzare l’attenzione dell’elettorato femminile. Anche lei, come Ambrosoli, favorita dalla provenienza dalla cosiddetta “società civile”, ma penalizzata da una notorietà prevalentemente cittadina, e il tempo per farsi conoscere è poco. Un buon piazzamento in eventuali primarie la indicherebbe come possibile -e auspicabile- assessora alla Sanità, posizione chiave in Lombardia. Maurizio Martina, segretario del Pd lombardo: una candidatura troppo interna e di “apparato”. Fuori dal Pd, Martina è poco conosciuto, e il “fuori Pd” oggi elettoralmente pesa molto. E infine -almeno a oggi- il consigliere regionale Pippo Civati, coetaneo di Ambrosoli, percepito dall’opinione pubblica come “rottamatore buono”, un pezzo di strada condivisa con Renzi prima di un definitivo divorzio, capace di muoversi con disinvoltura sul territorio mediatico virtuale -è piuttosto noto alla platea televisiva nazionale-, ma anche suole consumate in un intensissimo lavoro sul territorio reale: la Lombardia, e non solo quella, la conosce palmo a palmo. E i lombardi conoscono lui. Praticamente come Maroni.

Mi pare che la scelta vada fatta anche in funzione del competitor che ci si troverà davanti. 

Io la mia l’avrei fatta. Sperando che mi sia consentito esprimerla.

 

Donne e Uomini, Politica, questione maschile Maggio 31, 2012

Il vicepresidente lombardo a processo in contumacia

il vicepresidente lombardo andrea gibelli con renzo "trota" bossi

 

Presso gli uffici del Giudice di Pace di Lodi, per la precisione nei locali della Cancelleria -l’aula è lesionata causa terremoto- si è tenuta oggi l’udienza del processo ad Andrea Gibelli, vicepresidente leghista della Regione Lombardia, accusato di minacce e percosse dalla ex-moglie Maria Giovanna Venturini. Il processo si è aperto in contumacia, ovvero in assenza dell’imputato.

Per la precisione, la signora Venturini si è costituita parte civile contro il vicepresidente lombardo “per avere con più azioni consecutive di un medesimo disegno criminoso minacciato di un male ingiusto” l’ex- moglie, pronunciando la frase “Giuro che te ne pentirai” e per “averla schiacciata tra la porta e il muro, ripetendo il gesto tre volte… procurandole lesioni personali”.

Gibelli, che non ha partecipato alle precedenti udienze risultando irreperibile -e quindi non raggiunto dalla notifica- questa volta è stato invece “reperito”, ma non si è comunque presentato al processo. Il Giudice Roberta Succi ne ha dichiarato lo stato di contumacia, e dopo aver rigettato alcune eccezioni procedurali presentate dal legale di Gibelli, ha dichiarato regolarmente aperta l’udienza, che è stata dedicata all’acquisizione dei documenti e alla calendarizzazione.

Fra i documenti, alcune foto che ritraggono la signora Venturini con vistose ecchimosi allo zigomo sinistro. Nel referto del pronto soccorso di Lodi, al quale la signora si è rivolta il pomeriggio del 15 ottobre 2009, si parla invece di prognosi di 15 giorni per “contusione all’avambraccio-omero sx e arcata costale dx”. Gli ematomi sul viso non sono indicati: a detta della signora sarebbero apparsi alcune ore più tardi.

Le prossime udienze sono state fissate il 6 dicembre prossimo, per l’audizione del testi (9 per entrambe le parti) e il 20 dicembre per la discussione. Il giudice ha dichiarato l’intenzione di voler chiudere il processo entro fine anno. Il legale di Andrea Gibelli ha annunciato che probabilmente chiederà che il processo si svolga a porte chiuse.

Questi i fatti. E questa invece l’opinione: fatto salvo il diritto di ogni imputato di non presentarsi al processo facendosi rappresentare dal suo legale, da un alto rappresentante delle istituzioni ci si aspetterebbe che si presentasse personalmente a difendere la propria onorabilità e quella connessa al proprio ruolo di fronte a un’accusa tanto grave. Specialmente in un momento in cui l’opinione pubblica si mostra particolarmente sensibile al tema della violenza contro le donne. Nulla dovrebbe essere trascurato per pervenire a un’assoluzione piena, nel proprio interesse e nell’interesse delle cittadine e dei cittadini che attendono di essere rassicurati.

Forse non presentarsi al processo non è una buona idea. E nemmeno quella di chiudere le porte dell’aula, che invece dovrebbero spalancarsi.