Da quando vivo a Milano, cioè dalla nascita, ho sempre visto la sinistra, e in particolare tutta la filiera dal Pci al Pd, rimbalzarsi l’oggetto non identificato “Lombardia” come una patata bollente. Capita un po’ come -posso dire?- nei giornali: quelli meno graditi ai direttori, o ritenuti meno bravi, o meno protetti, mandati un po’ miopemente al confino nell’online. Senza pensare che l’online sta diventando, com’era ampiamente prevedibile, il reparto strategico.

Ecco, la Lombardia per la sinistra è un po’ così. A parole importante, importantissima, strategica. E del resto tutte le cose politicamente rilevanti sono sempre cominciate qui, compresa l’ultimissima svolta arancione. Ma a uno sguardo romano, la Lombardia e Milano restano totalmente incomprensibili. A parole, l’Ohio. Nei fatti, la provincia dell’impero. Eventualmente luogo di confino, dove piazzare qualche candidatura imbarazzante. Gli stessi funzionari lombardi, appena possono, tentano la fuga a Roma: in tanti stanno andando in Parlamento, lasciando sguarnita la prima linea e dando l’idea di non crederci. Ci aveva pensato anche il segretario regionale Maurizio Martina, che poi però ha cambiato idea (o gli hanno suggerito di cambiarla). Ma forse a spiegare tante cose basta il fatto che ci abbia pensato, a  operazione Ambrosoli aperta.

Leggo che perfino il Wall Street Journal e il Financial Times si occupano di noi: qui si gioca una partita decisiva per gli eventuali Stati Uniti d’Europa, o anche per quelli disuniti. Ma il fuggi-fuggi generale fa ritenere che a sinistra quei giornali non li leggano, e dà il senso di una smobilitazione preventiva.

Il centrodestra, ben più radicato territorialmente -che cosa sia la Lombardia, Maroni e i suoi colleghi lo sanno invece molto bene -è dato più avanti: sia alle regionali, dove se non ci fosse l’impuntamento di Albertini, la partita sarebbe bell’e chiusa, sia al  Senato, date un’occhiata a questo sondaggio . E le due partite si giocano insieme. L’incredibile rimonta di Berlusconi è guardata con sconcerto, disprezzata come “fatto mediatico”, in sostanza solo “virtuale”. “Gli italiani non saranno così imbecilli”, si dice. “Non avranno la memoria tanto corta”. E invece a quanto pare ce l’hanno. O meglio -ed è un fatto, mica un fattoide, con cui si devono fare attentamente i conti- forse non bastano i pur freschi ricordi di mazzette, corruzione, ndrangheta a spostare i lombardi a sinistra.

Forse ci vorrebbero buone idee, che senz’altro ci sono, ma stentano a circolare. Forse servirebbero più coraggio e meno ambiguità, e un’idea diversa e meno ottocentesca dei cosiddetti “moderati”. Forse ci vorrebbe un maggior numero di facce che rappresentano con immediatezza le nuove e buone idee, e si dovrebbe saper parlare alla “pancia” degli elettori, intendendola non come i più bassi istinti, ma come il robusto buon senso di un  popolo, usando parole semplici e buone come il pane. Forse si sarebbero dovuti schierare qui i propri talenti migliori, mix tra territorio reale e visionarietà, evitando di collocare certi scarti azotati di Roma: perché oggi gli elettori aguzzano lo sguardo, umiliati dal Porcellum vogliono conoscere anche il numero di scarpe di chi votano.

L’idea è quella di trovarsi su un taxi impazzito, con il tassametro che viaggia alla velocità della luce. E alla fine del viaggio potrebbe esserci il blocco nordista, dal Piemonte al Veneto. Il che significa secessione sostanziale. Siamo al fondo di un enorme imbuto, e tutto accelera all’impazzata. Può capitare di tutto, da un giorno all’altro.

Mi torna in mente un’amica, importante politica del Pci che poi diventò anche ministra, a cui un giorno -ormai milioni di anni fa- segnalai i primi sommovimenti leghisti, dicendole -conosco la mia gente- che quella era una cosa vera, da osservare con attenzione. Mi guardò con un sorriso di compatimento: “Sai che ti voglio bene. Non dirle in giro, certe stupidaggini”.

Io le mie stupidaggini, qui dall’Ohio, continuo a dirle. Fra cui questa: la sinistra ha ancora tempo. Ma ne ha poco.

 

 

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