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crisi

Femminismo, jihad, questione maschile Marzo 2, 2015

8 marzo: lei, che dà una mano a Lui

Niente da obiettare sull’iniziativa donne con la A lanciata per l’8 marzo da Se Non Ora Quando (da qualche parte nella mia incasinata biblioteca devo ancora avere il volumetto di Alma Sabatini “Per un uso non sessista della lingua italiana“, era il 1987, figuriamoci). Ci sono ancora troppe donne che pretendono la qualifica al maschile, vale la pena di tornare in argomento. E’ ancora necessario presidiare i minimi: dico per esempio prostituzione, maternità e aborto, etc. Lo faccio anch’io, ci mancherebbe.

Però poi guardo questo trittico della giovanissima artista afghana Kubra Khademi, e come dice un’amica a cui l’ho inviato “mi sembra un sogno”. Il sogno di volare veramente alto, fino a quel punto di altitudine. Di un essere donna a cui è affidato di incarnare il più dell’umanità, per il bene di tutte e di tutti.

In questo blog e in molte altre occasioni mi sono spesso lamentata del silenzio di tante -la cui parola per me è vitale- sul change of civilization che oggi prende la forma di una profondissima crisi del modello capitalistico, ma anche di un conflitto molecolare sanguinoso e potenzialmente devastante con l’Animale Morente, quel patriarcato irriducibile, malato e violento che oggi si esprime -non solo, ma soprattutto- nelle azioni di Isis.

Guardo il dipinto di Kubra e mi piace pensare che quel Dio strattonato e chiamato brutalmente in campo stia chiedendo aiuto a una donna (ci sono momenti in cui, come dice Etty Hillesum, Dio ha bisogno di noi): mi pare cioè che il soffio vitale vada al contrario, o meglio nella direzione giusta, che sia lei a dare vita e linguaggio e coraggio a Lui, come sperimentiamo ogni giorno nelle maternità corporee, e non Lui a lei. O comunque, che tra i due ci sia un’alleanza, un patto da stringere.

Questo mi insegna il quadro di una ragazzina afghana, e mi suggerisce la strada di una differenza femminile che indichi l’uscita, che colga l’occasione di questa grande crisi per mettere al mondo un altro mondo.

economics, esperienze, italia, lavoro, Politica Settembre 16, 2014

Tutti vogliono “il nero”

“Le serve fattura?”: la domanda ormai è di prammatica. Idraulici, falegnami, avvocati e bar che non ti danno scontrini. La cosa è fatta con la disinvoltura della normalità: se proprio proprio me la chiedi… Alla terza volta che vai da un parrucchiere magicamente lo scontrino sparisce. Lavoro? possiamo metterci d’accordo? “La mia commercialista” mi spiega una “mi dice che a questo punto è meglio non denunciare nulla” (si farà pagare per il consiglio? ed emetterà regolare fattura?).

“Nero” inteso non solo in senso strettamente fiscale, non solo come lavoro nero, ma come condizione esistenziale. Vivere in nero, tenersi fuori, lontani da uno Stato nemico da cui ci si può solo difendere, arraffando gli 80 euro e tutto ciò che può essere arraffato, cercando -chi può- di “stare liquidi”, piccola rivolta individualista senza rimettere in circolo nulla, senza scommettere su nulla, con la stessa lungimiranza di chi in tempo di guerra faceva la cambusa, cumulando zucchero e, potendo, caffé.

“Il Paese non è ripartito” ha ammesso qualche giorno fa il premier Renzi. I numeri Ocse della decrescita infelice confermano. Nessuna tensione, nessuna aspettativa, nessuna intenzione di ricostruire: una tartaruga che si ritira nel guscio, con un movimento regressivo.

Altro che autunno caldo. Un autunno freddo, raggelante, esangue. Il momento più difficile, mi pare, di questa lunghissima crisi. “Ogni idea di sollecitazione alla ripresa” scrive Giuseppe De Rita sul Corriere di oggi “viene accolta con indifferenza”. Un individualismo del tirare a campare, vai avanti tu che a me scappa da ridere.

Molto difficile capire che cosa potrebbe mobilitare le energie. E quale potrebbe essere l’obiettivo capace di avviare una rigenerazione collettiva.

Aggiornamento mercoledì 15 ottobre ore 19.15: più o meno intendevo dire questo:

DATI ISTAT. FARA, PRESIDENTE EURISPES: PEZZI ECONOMIA REAGISCONO A CRISI “IMMERGENDOSI”

“I dati Istat diffusi oggi fotografano una situazione di grande crisi e di profondo disagio delle famiglie italiane – lo dichiara il Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara – L’Italia è in stagnazione e il Pil non aumenta da ormai tre anni, ovvero dal secondo trimestre del 2011. Tuttavia, i dati, di per sé oggettivi, non rappresentano la vera realtà del Paese, fatta purtroppo anche di fenomeni che non si prestano, perché nascosti, alla contabilizzazione. Secondo l’Eurispes, infatti, pezzi sempre più consistenti dell’economia hanno reagito alla crisi e alle difficoltà “immergendosi” e alimentando quel sommerso che l’Istituto valuta in circa 540 miliardi l’anno, ovvero una cifra corrispondente al 35% del Pil. Si tratta di una “immersione da sopravvivenza” – conclude Fara – dell’apnea, di una “economia anfibia”, che potrà essere recuperata solo attraverso chiari segnali sul fronte della riduzione della pressione fiscale e di profondo cambiamento delle politiche del lavoro”.

 

italia, media, Politica Novembre 28, 2013

I Berlusca che vanno. E quelli che restano

Dicevo stamattina a Coffee Break (la 7, vedi qui) che il non entusiasmo con cui gli antagonisti politici del signor B. hanno accolto la sua decadenza da senatore, dentro il Parlamento e anche nel mondo fuori, dove la notizia è stata salutata da una quasi-indifferenza popolare, somiglia alla flebile risposta di un organismo malato che non ha più nemmeno la forza di reagire con un bel febbrone da cavallo, per trascinarsi con una febbricola per mesi e mesi: sintomo piuttosto preoccupante.

La caduta del signor B. costituisce anche una caduta degli alibi per tutti: per il governo, che fuoriesce dalle larghe intese per trovare una nuova maggioranza (ben più solida, a dire di Letta, che forse lo sta dicendo a Matteo Renzi). Per il Pd, che non può più indicare nell’antiberlusconismo la sua contro-narrazione e deve trovarne una plausibile (io dico da sempre: il lavoro). Per tv e giornali -a parte quelli di casa B., dico- che faranno di tutto per tenere vivo e attivo l’oggetto mediatico in attesa di trovare qualcun altro o qualcos’altro che garantisca lo share.

La caduta del signor B. costringe anche a guardare -senza più scuse per distrarsi- la desolazione e le macerie che abbiamo intorno, di cui i governi B. sono in buona parte responsabili ma non certo in via esclusiva, e a farsi senza diversivi la domanda: e ora come usciamo di qui?

Il fatto è che tutti questi anni di B. sono stati anche gli anni del consolidamento di una classe dirigente -parlo della politica, dell’economia, delle aziende e del mondo del lavoro- assolutamente inadeguata al compito di guidare il Paese. Patiamo un plus di crisi che va attribuito a una cooptazione in base a criteri che costituiscono la summa dei nostri mali: familismo, raccomandazione, impreparazione, sprezzo del merito. Vale tanto a destra quanto a sinistra. Tutti questi B. restano, liberi di fare altri danni. Fare cadere questa classe dirigente più che mediocre e abbarbicata ai propri privilegi per assicurare un ricambio, per consolidare una situazione in cui il numero degli inetti e degli incapaci rientri in quota fisiologica, sarà perfino più lungo e difficile che far cadere B.

Intanto in caduta libera sono le nostre teste, la qualità della nostra vita, la nostra fiducia.

Quanto poi ai talk e media che non si rassegnano a perdere questa stella di prima grandezza, la strada potrebbe essere quella di recuperare umilmente la propria funzione di servizio pubblico. E invece di aggiornarci quotidianamente sulle imprese corsare del signor B., che darà fondo al suo populismo anti-governo, anti-fisco, anti-tutto, una caricatura del grillismo -ma con molti più soldi- che ci impegnerà in un’estenuante e infinita campagna elettorale; invece di dare conto di ogni fremito delle vibrisse di Alfano e di ogni pestata di piedi di Brunetta, ci accompagni nel faticoso e urgente lavoro di ricostruzione, dicendo “come si fa”, rialfabetizzandoci moralmente, politicamente ed economicamente, riducendo la portata della critica destruens per accompagnare una fase costruens che ha bisogno dell’impegno e della passione di tutti.

 

 

economics, Politica Giugno 20, 2013

Meritocrazia? Io non ne vedo

Pensavo stamattina che, crisi o non crisi, una delle principali ragioni per cui tante cose vanno male è che vengono condotte male.

Tutti noi abbiamo fatto esperienza di insegnanti incapaci di insegnare, dirigenti incapaci di dirigere, capi incapaci di capeggiare, rappresentanti incapaci di rappresentare. E, corrispettivamente di veri talenti in tutti i settori tenuti fuori dalle linee di decisione e di comando in quanto “incontrollabili” e perciò “inaffidabili”.

Ne ho parlato anche con Vandana Shiva, quando l’ho incontrata: possibile che i sapienti e gli illuminati che ci sono stati dati in dono siano buoni solo per scrivere livre de chevet o per animare dibattiti, e mai per decidere ciò che va deciso, mai per fare politica? Questo vale in particolar modo per il nostro Paese, patria del familismo e della raccomandazione. Ho sempre pensato che una quota fisiologica di raccomandati va messa nel conto, ma negli anni ho visto ingigantirsi questa quota fino a diventare maggioritaria e sempre più arrogante: i mediocri fanno blocco tra loro e sbarrano la strada ai più capaci.

Il termine “meritocrazia” è bruttino, ma da qualche tempo non si fa più nemmeno la fatica di pronunciarlo, nemmeno per fare un po’ di scena. Sembra che non si prenda più in considerazione l’ipotesi di affidarsi, per uscire dai guai, a chi avrebbe capacità e idee per tirarcene fuori. Anzi: nella penuria, la situazione si aggrava, e i non-capaci serrano le fila. Dice Roger Abravanel, autore del saggio “Meritocrazia” che “negli USA, patria della meritocrazia, le “recommendations” portano a riempire un posto di lavoro su due. Si tratta però di “raccomandazioni” molto diverse dalle nostre. Chi segnala qualcuno particolarmente bravo e adatto per un posto di lavoro lo fa con grande cautela, perché mette in gioco la propria stessa reputazione e risponderà moralmente della performance della persona segnalata; da noi, invece, si raccomandano con leggerezza persone che non si conoscono (dal punto di vista delle capacità professionali) per posti di lavoro che non si conoscono“.

Una delle ragioni per cui il merito viene osteggiato è l‘idea egualitaristica che pensa alla meritocrazia come a un’ingiusta aristocrazia, in cui solo i migliori avrebbero opportunità e tutti gli altri rimarrebbero indietro. E invece alla nostra non-meritocrazia corrisponde una delle società più ineguali dell’Occidente, con ridottissime chance di mobilità sociale. La valorizzazione del merito è una chance, non un ostacolo alla democrazia.

Parlo anche per il mio settore, l’editoria, in questo momento nell’occhio del ciclone. Tra le molte ragioni della crisi c’è anche l’abbassamento della qualità dei prodotti editoriali, e proprio il fatto che sono stati sempre più spesso trattati come semplici “prodotti”. La marcia va invertita. Si deve avere il minimo coraggio di affidare i giornali, i libri e i siti web a chi sa fare i giornali, i libri e i siti web.

Mi racconta un collega di aver dovuto spiegare a un superiore che quello che per lui era un refuso da correggere, era in realtà un semplice hashtag: la produzione web doveva rispondere a qualcuno che non disponeva nemmeno dei minimi.

Ovvio che così non si va da nessuna parte.

Raccontateci un po’ di storie, se ne avete.

p.s.: devo dire che a me le parole “merito” e “meritocrazia” non piacciono affatto. Preferisco “autorità” (rimando alla lettura dell’ultimo saggio di Luisa Muraro, intitolato per l’appunto “Autorità”). Ma usandolo ci metteremmo in un ginepraio simbolico, e quindi al momento faccio riferimento a quei due termini, più comunemente usati.

AMARE GLI ALTRI, economics, esperienze Maggio 13, 2013

Buone idee per uscire dal tunnel

 

Noi guardiamo speranzosi (?) alla politica. Ma è raro che la politica -quella politica- si inventi qualcosa.

Alla politica -a quella politica-, quando e se funziona,  si può chiedere al massimo di non ostacolare o addirittura di facilitare quello che di buono sta già capitando nella vita reale, di saper cogliere i segnali che vengono dalla politica vera, la politica che facciamo tutti e ogni giorno quando troviamo il modo di minimizzare i danni e massimizzare i vantaggi del vivere insieme, e di farli fruttare.

Detto alla buona, dobbiamo cavarcela senza di “loro”. Dobbiamo scovare le cose buone e fruttose che stanno capitando nelle nostre vite e nelle vite degli altri, dare a queste cose il massimo di pubblicità, fargli propaganda, mettere in comune. E spingere insieme per realizzarle.

Ho assistito qualche giorno fa -al Capri Trendwatching Festival- a un interessante dibattito sul tema dell’invenzione e dell’innovazione. Gli interlocutori erano Adam Arvidsson, autore di “Societing Reloaded” e teorico delle nuove relazioni produttive, e Andrew Keen (“Digital Vertigo”), imprenditore della Silicon Valley e critico dell’imperativo della condivisione. Se per Arvidsson oggi l’economia e l’impresa sono basate sul networking e sulla collaborazione, per Keen il “social” e l’open source sono pura ideologia, l’invenzione -e il guadagno che ne deriva- sono strettamente individuali, quello che funziona davvero è il “secret source”. “Chi ha creato il pc” dice “l’ha fatto da solo”.

A me pare questo: che se il “colpo di genio”, chiamiamolo così, è del singolo, la realizzazione chiede condivisione fiduciosa.

Per farla breve: mi piacerebbe che in questo blog, mentre continuiamo a discutere di tante cose, aprissimo un file -o tenessimo un filo, come preferite- sui segnali “deboli” ma promettenti, a qualunque titolo: buone idee di impresa, iniziative che meritano attenzione, idee, intuizioni, lampi di luce, modi per arrangiarsi che offrono spunti da osservare e sviluppare, cose interessanti che state facendo o vedete fare, anche non immediatamente “profit”.

E’ il momento per cambiare musica. Suoniamola insieme.

Per esempio, un bel po’ di ottime idee le trovate qui.

 

Aggiungo una mia piccola lezione  radiofonica (un po’ raffreddata) su Etty Hillesum.

C’entra molto, con la fiducia.

Potete ascoltarla qui

 

economics, Politica Febbraio 6, 2013

Mr Obama va alla guerra

 

Chi a questo mondo, se non lui? Mani finalmente libere, al suo secondo mandato Barack Obama torna a essere Barack Obama, quello che nel suo “gospel” di Chicago, il giorno della sua elezione, prometteva: “A quelli che vorrebbero distruggere il mondo semplicemente dico: vi sconfiggeremo”.

Il suo attacco a Standard & Poor’s, colosso del rating accusato di aver sopravvalutato alcuni titoli immobiliari -fatto decisivo nella crisi dei mutui subprime del 2008, miccia della crisi globale- può anche essere letto in questo modo: come il primo attacco frontale della politica al cuore della finanza internazionale, intesa come nemico del mondo. Come la prima altissima sfida, fortissimamente simbolica, a quel sistema dei 99 a 1 costruito sulle menzogne: prima fra tutte, madre di tutte le bugie, che non vi sia altro sistema per regolare la convivenza umana. Che alle leggi della “necroeconomia”, che hanno preso il posto di Dio e dell’Assoluto, il mondo non possa sfuggire, nemmeno quando quelle leggi lo mettono in ginocchio. Lo diceva già John Maynard Keynes, padre della macroeconomia: «Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo».

Il clamoroso gesto di Obama finalmente buca la scorza, offre un modello alla politica globale, porta la voce di Occupy Wall Street alla Casa Bianca, riapre la speranza in quel cambio di paradigma che in tanti attendiamo, e che poi non è altro che questo: poter smettere di pensare al mondo come mercato per ricominciare a vederlo come l’ambiente domestico, la casa di sette miliardi di umani, tutti ugualmente bisognosi e interdipendenti.

Era il gesto di cui avevamo bisogno.

 

 

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, Politica Gennaio 26, 2013

Alessandra Bocchetti: Per vanto, per tigna, per orgoglio

 

Con grande piacere ospito questo intervento di Alessandra Bocchetti, e la ringrazio.

 

“E’ ricominciato il teatro della politica. Chi vince, chi perde, chi ha la battuta più pronta, chi ha la lingua più sciolta, chi è più furbo, più abile, più spiritoso. Uno spasso oppure la disperazione.

Pochi giorni fa in una delle mie tardive incursioni al mercato, quando già tutti stanno sul piede di partenza e le cassette ormai tutte impilate, ho visto un dignitoso signore che tra gli scarti a terra di frutta e verdura, raccoglieva quello che ancora era possibile raccogliere. Raccoglieva con eleganza come fosse in un orto o in un giardino e non sul pavimento sporco e fradicio del mercato all’ora di chiusura. Per me non è stata solo pena, ma un brusco viaggio nel tempo a  quando i miei figli erano piccoli e, alla vista di qualcuno che chiedeva l’elemosina, mi chiedevano, chi era, perché… Spiegare la miseria è stata per me, giovane madre, uno dei compiti più difficili. La miseria è difficile da spiegare perché fa tanta vergogna. Fa vergognare perché è colpa di tutti.

Viviamo in un tempo in cui è difficile raccontare la miseria. Tutte le mattine invece ci aspettano gli annunci: il paese è più povero, siamo tutti più poveri. Ci informano che i consumi calano, non si vendono più automobili, si viaggia di meno, i saldi sono un flop! Non possiamo più consumare allegramente, ce lo dicono i numeri, le statistiche, i bilanci. L’annuncio più spaventoso è quando ti comunicano che gli investitori fuggono. Così la nostra immaginazione si popola di figure misteriose: gli investitori che fuggono, lo spread che si alza e si abbassa, il debito pro capite che ogni bambino che nasce, creatura innocente, trova già pronto al suo arrivo. Poi ci sono i moniti della Bce, se non della Banca Mondiale o di Draghi in persona, il cui solo nome porta con se  visioni poco serene. In verità poche persone sanno quello che sta succedendo, questi sono gli esperti e i tecnici, lontani mille miglia da tutti noi. Tra di noi c’è chi un po’ si districa, c’è chi un po’ fa finta di capirci, la maggioranza si arrende e si affida. Questo affidamento è la cosa più pericolosa, perché così non si è più veramente cittadini anche se ti sembra.

Chi ci può salvare da un destino così misero è chi è capace ancora di raccontare la miseria fuori dai numeri. Chi è capace di ricordarci che il destinatario della miseria è sempre un corpo umano e chi considera tra i “beni comuni” anche tutti noi, giovani, vecchi, donne e bambini, tutti insieme, tutti in carne ed ossa.

Al mattino alla radio ascolto spesso “Prima pagina” un programma dove un giornalista commenta le principali notizie dei quotidiani e poi dialoga con coloro che chiamano per telefono per parlare delle loro personali esperienze. Lì si possono ascoltare i racconti, che sono spesso crudi e terribili, ma mai misteriosi. Pochi giorni fa una donna raccontava che per via dell’eliminazione del servizio di un pulmino garantito dal  comune del suo paese, non avrebbe potuto più permettersi di fare la dialisi tre volte a settimana e che quindi aspettava di morire. Un’altra donna raccontava che suo figlio non aveva più l’insegnante di appoggio, perché il budget della scuola non poteva più garantirlo. Quella donna temeva per suo figlio un destino crudele in un mondo crudele. Il suo amore, raccontava con dignità, non sarebbe bastato a proteggerlo. Un’altra donna confessava con stupore  di come il suo affetto per i due genitori ormai disabili  stesse mutando a poco a poco nel suo cuore in un inaspettato risentimento.  E’ un effetto della stanchezza, diceva quasi vergognandosi, perché non riceveva più alcun aiuto.

Con questi racconti ecco che l’economia si materializza, così i tagli alle scuole, alla sanità si fanno vedere per quello che combinano e scombinano, per quello che hanno a che fare con i destini delle persone.

Le storie sono tante, diverse, ma hanno sempre una cosa in comune: è sempre una voce di donna che racconta. Le donne sono capaci di raccontare e di svelarci cosa i numeri non fanno vedere.

Perché è soprattutto su di loro che si abbatte la crisi, questa come tutte le crisi della storia, come le guerre, le carestie, le epidemie. Sono sempre state le donne a pagare i prezzi più alti. Camus, ritirando il premio Nobel, dichiarò che gli esseri umani sono divisi  tra coloro che fanno la storia e coloro che la subiscono. E che lui si sarebbe sempre schierato con questi ultimi. Tra questi ultimi ci sono le donne. Non ce ne dobbiamo vergognare. E’ proprio per questo che sappiamo raccontare gioie e dolori meglio degli altri. Ancora a noi, per ora, appartiene la modestia del racconto, quello che non si fa con la penna, ma con la voce. Siamo capaci anche noi di farne arte, certo, ma per la politica sono più importanti i racconti  senza pretese.

Questa volta, speriamo, tante donne entreranno in Parlamento. C’è addirittura chi parla di una vera rivoluzione. Anche io ho lavorato tanto perché questo succeda, quindi ne sarò molto contenta. E’ un primo importante passo, ma non è questa la rivoluzione delle donne, sia chiaro. La vera rivoluzione sarà se le donne saranno capaci di parlare con la propria voce, quella della loro storia, quella appunto che sa raccontare. Rivoluzione sarà, se non se ne dimenticheranno, se non se ne vergogneranno, se la sapranno riconoscere tra le tante e la sapranno ascoltare dentro e fuori di sé. Insomma, voglio dire che la vera rivoluzione sarà solo se riusciranno a restare donne.

Sembra un paradosso, vero? Come si fa a non parlare con la propria voce, a parlare con la voce di un altro? Eppure capita alle donne soprattutto in politica, perché la politica è sempre stato il mondo degli uomini, il mondo del loro potere, delle loro decisioni. E non ha importanza se queste decisioni hanno portato a dei grandi disastri, se scelte sbagliate hanno prodotto milioni e milioni di morti. Comunque gli uomini si sentono autorizzati alla politica e pensano che quello sia il loro territorio, la storia di tanti errori non riesce a delegittimare questa loro certezza. Di fronte a tanta sicurezza, le poche donne che fino ad oggi sono entrate a fare parte di questo mondo, hanno finito per parlare con un‘altra voce. C’è da dire che viene quasi naturale, come entrando in un coro, spontaneamente si segue la voce dominante. Ci sono state delle eccezioni luminose verso le quali ogni donna è debitrice, ma queste eccezioni non hanno fatto ancora la rivoluzione. Così chi ci governa è ancora lontano dalla vita quotidiana, sa poco di cosa succede nelle case, ha magari il sapere dei numeri, o la sua presunzione, ha, o crede di avere, l’arte delle alleanze, ma non ha la voce del racconto, né la capacità di saperla ascoltare. Le donne al seguito.

Con questa storia dei numeri che, avrete capito, io uso come artificio retorico, non vorrei deludere la mia amica Linda Laura Sabbadini, perché lei è una di quelle persone che ai numeri mette l’anima, consegnandoci un paese più leggibile seguendo parametri di pura umanità.

Personalmente soffro quando sento rivendicare la formula del 50 e 50. Detta così, sembra un’arroganza, una spartizione ladronesca, tanto a me tanto a te, un gesto di giustizia rudimentale, la giustizia dell’invidia, bassa, la definirebbe Simone Weil. Si tratta, in realtà, di un’idea tutta nuova, inedita alla storia, del governare insieme di uomini e di donne, non perché gli uomini e le donne sono uguali, ma proprio perché sono differenti, due corpi differenti, due storie differenti, due sguardi differenti. Anche la formula di “democrazia paritaria” con cui si vuole significare questa nuova teoria di governo, non mi soddisfa, perché l’idea della parità è talmente estranea alla realtà umana che questa formula finisce per significare una sorta di idealità troppo astratta. L’”insieme” di cui si parla non sta a garantire un mondo più giusto, ma solo un mondo più equilibrato, che funzioni meglio per tutti, garantito dal doppio sguardo di due esseri che sono sempre stati vicini, ma non sono stati mai vicini per governare i beni comuni, i beni, cioè, che appartengono a tutti coloro che condividono l’esperienza umana,  finalmente senza servi, né serviti.

I segretari dei partiti che hanno accolto questa idea, sono stati più conformisti che veramente interessati, non hanno capito la portata rivoluzionaria di una teoria come questa. Passare dalla civiltà dell’uno alla civiltà del due, è un cambiamento epocale. Non ho registrato né commozione né sgomento.

E le donne ne saranno all’altezza? Il gioco è tutto in mano loro.

Personalmente credo che a salvarci dalla crudele deriva liberista potrà essere solo il sapere delle donne e il loro modo di stare al mondo, se le donne, però, riescono a coglierne il valore. Ma sapranno rendere i racconti che hanno ascoltato, che hanno fatto, strumenti di una politica più attenta alla vita? Sapranno armonizzare la politica dei racconti con la politica dei numeri? Sapranno non dimenticare di essere donne? Altrimenti non vale la pena, meglio sarebbe fare altro.

Certo per loro il compito non è facile, ma le donne hanno una chance in più, secondo me.

Gli uomini hanno dietro di loro un’età dell’oro che è sfuggita per sempre dalle loro mani, legata a un ordine che non c’è più. Questo ordine voleva le donne sottomesse, a casa con i bambini sorridenti o al giardino,  con pochissima istruzione, che tanta non serviva, donne dall’intelligenza disinnescata, che non potevano amministrare i loro beni, che non potevano deporre in tribunale, sempre a totale  disposizione per desideri, capricci e soprattutto servizi. Rarissimi uomini nella storia hanno sofferto per le condizioni misere delle donne. Questo ordine  ogni onest’uomo lo rimpiange nel segreto della sua anima ancora oggi, anche se non tutti sarebbero  disposti a confessarlo. Per questo sentimento segreto le donne ai loro occhi, nel mondo della politica, ma anche in quello degli affari, anche in quello della scienza e dell’arte resteranno delle intruse chissà per quanto tempo ancora. Per loro siamo ancora disordine. E’ bene non dimenticarlo, dovendo fare “un insieme”

Noi donne invece non abbiamo niente da rimpiangere, nessuna età dell’oro alle nostre spalle, nessun ordine ci fa nostalgia, proprio per questo possiamo guardare avanti ad occhi asciutti con animo saldo e piede leggero. Questa è la nostra forza, basta cercarla dentro di sé. Possiamo vincere un premio Nobel, ma anche  raccontare la vita vera come nessuno, perché nessuno la conosce come la conosciamo noi. E poi apparteniamo a quel popolo eletto che si lava le sue mutande da sé e continueremo a lavarcele, per vanto, per tigna e per orgoglio. E questa non è una metafora.

Un grande augurio a tutte le donne che saranno elette, che possiate fare del vostro meglio”.

 

 

AMARE GLI ALTRI, economics, giovani, Politica Novembre 6, 2012

La generazione perduta: noi

Tante volte dico: dovrei fare causa all’università. Dove, facoltà di Filosofia, mi hanno fatto studiare Marx, Engels, Lenin, Rosa Luxemburg, il rinnegato Kautsky, Agnes Heller e la scuola di Budapest, perfino Toni Negri. La rivoluzione era alle porte e ci si doveva tenere pronti e attrezzati. E poi -scusate, avevamo scherzato- è arrivato l’edonismo reaganiano, il liberismo senza freni, Wall Street al centro del mondo, il godimento consumistico illimitato, e tutto quello che oggi si sta sgonfiando come un soufflé venuto male.

I ragazzi che oggi hanno sui vent’anni sono cresciuti in questo sconfinato Bengodi, barche, Coste Smeralde, Briatori, sesso compulsivo, Porsche Cayenne, calciatori e veline, labbroni, senoni, fiumi di denaro, Paese dei Balocchi in cui tutto è a portata di mano, basta allungarla senza spostarsi dal triclinio. E poi -scusate, avevamo scherzato- eccoli qua, piegati dai debiti, senza lavoro, senza casa, senza soldi, senza prospettive: e, insomma, come siete bamboccioni, quanto siete choosy, ma che generazione perduta, potreste sempre andare a Rosarno a raccogliere i pomodori anche se vi siete laureati e masterizzati, ma che volete?

Non dovrebbero farci causa, dovrebbero ammazzarci.

La generazione perduta è la mia, la nostra, ma perduta irrimediabilmente, c’è un girone dell’inferno bell’e pronto che ci sta aspettando, se non faremo da subito qualcosa per redimerci, se di qui alle fine dei nostri giorni non metteremo i giovani al centro di ogni nostro pensiero e di ogni nostro gesto politico.

Lorella Zanardo ha scritto un libro pensando ai giovani, a cui ormai dedica la gran parte del suo tempo. Si intitola Senza chiedere il permesso (Feltrinelli), ne parleremo più diffusamente, intanto guardate questo video.

 

Donne e Uomini, Politica Ottobre 5, 2012

A Paestum!

Il lavoro sarà certamente al centro per le donne che da stasera a domenica si vedranno a Paestum per “Primum Vivere anche nella crisi: La rivoluzione necessaria. La sfida femminista nel cuore della politica”. Logo dell’iniziativa (disegnato da Pat Carra), la silhouette di una Tuffatrice, femminile di quel Tuffatore del 470 a.C. esposto nel Museo Archeologico locale. Ma se il mare in cui lui si tuffa è l’aldilà, per lei è l’al-di-qua, il mondo, la polis, l’intreccio delle vite di tutti.

L’incontro è promosso da una trentina di protagoniste del femminismo italiano (da Lea Melandri a Lia Cigarini, Letizia Paolozzi, Bia Sarasini e altre) per misurarsi con “gli effetti di una crisi che sembra non avere una via d’uscita, e con una politica sempre più subalterna all’economia”. E verificare la propria capacità di “restituire alla politica corrente un orientamento sensato”. Quel “buon” senso delle donne chiamato oggi a esercitarsi nello spazio pubblico.

Il femminismo ha prodotto cambiamenti straordinari nella vita di tutte e tutti. Ma la crisi che riduttivamente chiamiamo “economica” chiede che il lavoro continui, se è vero, come dice il sociologo francese Alain Touraine, che “coscienza femminile e mutamento sociale non sono più separabili”.

L’idea ambiziosa e radicale: “Partire dalla vita delle donne e degli uomini” dice Lea Melandri “da quel congegno vita-lavoro che non tiene più, per ripensare anche l’economia e la politica. Per un’idea diversa di polis e di civiltà”. In cerca di un pensiero politico buono non soltanto per le donne, ma anche per gli uomini. I quali non sono espressamente invitati, ma Paestum non sarà off limits. La discussione sarà viva e libera: la ricerca di energia e significati si avvale anche della parola faticosa e ambigua e dell’impasse, tutto parla, non solo le parole.

Obiettivo su alcuni grandi temi: oltre a Economia, lavoro, cura, Voglia di esserci e contare, Auto-rappresentazione/rappresentanza, Corpo-sessualità-violenza-potere. Non è improbabile che le elezioni catalizzino l’attenzione. Dice Bia Sarasini: “Paestum non è per questo, ma potrebbe uscirne una proposta che ha anche a che vedere con l’immediato elettorale. Personalmente ci spero”.

Sulla battaglia per il 50/50, quel metà donne-metà uomini che ha già corso in alcune città, il consenso non è unanime: passaggio irrinunciabile per il cambiamento secondo alcune, rischio di prestarsi come “risorsa anticrisi” secondo altre. Ma il tema dell’efficacia è ben presente a tutte: è ancora utile l’“estraneità”, quell’attivo tenersi fuori dalla politica degli uomini a cui molte imputano il difetto di efficacia?

Tante giovani donne, a dispetto dell’estraneità da un lato e della misoginia dei partiti monosex dall’altro, nella politica si getterebbero a capofitto, con lo stesso slancio della Tuffatrice. “Un protagonismo” dice Giordana Masotto “che è una molla interessante. Un desiderio che non può essere oggetto di tabù, né visto come “poco etico” o smania di potere. Ma vogliamo ragionarci a fondo. Per capire che cosa le donne possono cambiare di quella politica, e che cosa no”.

Previste almeno 700 partecipanti.

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