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TEMPI MODERNI

AMARE GLI ALTRI, TEMPI MODERNI Luglio 29, 2013

La reazione di Kyenge

Ho letto molti commenti di amic* e collegh* (Letizia Paolozzi qui, ma anche Alessandro Robecchi sul “Fatto”, Paola Bacchiddu e altri) che hanno molto apprezzato la reazione quieta e ironica della ministra Kyenge al gesto beluino del lanciatore di banane.

Con la gente che muore di fame e la crisi, sprecare cibi così è triste”, ha detto la ministra.

Pur ammirando tanto fair play, io avrei decisamente preferito dell’altro. Per esempio che la ministra raggiungesse quell’orrendo individuo -stiamo parlando di uno che è uscito di casa con delle banane in tasca, determinato a quella ripugnante performance- e gli tirasse uno schiaffone, per poi tornare tranquillamente al tavolo. Che mangiasse una banana e poi gli spiaccicasse la buccia in faccia. Che mostrasse e applicasse un po’ di forza, anche solo simbolica, perché in quella circostanza era necessario, più che mai. Quando ci fu da infuriarsi nel Tempio, Gesù non ci pensò due volte.

Ai lanciatori di banane, alla gente che vede un nero e dice “bingo-bongo” o peggio, la composta reazione di Kyenge non ha insegnato nulla. Anzi, avranno pensato, se si possono impunemente tirare banane in faccia a una ministra, figuriamoci che cosa possiamo fare con un nero qualunque. Quando Rose Louise Parks nel 1955 rifiutò di cedere il posto sul bus a un bianco, come previsto dal regolamento, con la sua disubbidienza aprì un conflitto, disposta a un’azione di forza. Anche Kyenge, in un certo senso, è la prima a occupare un posto che finora è toccato solo a bianchi, preferibilmente maschi.

Insomma, alla ministra, che abbraccio forte e non mi permetto di giudicare, direi questo: che forse l’occasione non è stata sfruttata come si sarebbe potuto. Io avrei preferito un po’ di forza, anche perché lei è donna come me, la sua mitezza è data per scontata, e invece è un’ottima lezione mostrare la forza femminile in azione.

A voi non pare?

p.s.: naturalmente le reazioni che qui descrivo (schiaffo, buccia spiaccicata in faccia) sono molto grossolane, sono miei acting out mentali. Mi sarebbe bastata un po’ di sferza in più, come ho detto una manifestazione di autorità e di forza. E’ questo che mi è mancato.

Un esempio può essere Vandana Shiva: quando a Ballarò il finanziere Davide Serra liquidò come “ridicoli” i suoi argomenti, lei reagì con la giusta autorità, dicendo che se lui era il principale supporter economico di Matteo Renzi, “questo Renzi non va affatto bene”.

Non-violenza non significa subire il colpo dell’avversario senza reagire. Si tratta di saper riconvertire l’energia di quel colpo contro l’avversario. Kyenge a mio parere non l’ha fatto.

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aggiornamento del 29 luglio, mezzanotte: nel frattempo Kyenge è oggetto di un’escalation di insulti e provocazioni impuniti, dal gorilla alle noci di cocco a questa cosa inaccettabile che vedete qui.

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aggiornamento di martedì 30 ore 19: Kyenge mostra di voler cambiare registro, e io approvo molto. Ecco qui.

 

 

Politica, TEMPI MODERNI Giugno 9, 2013

Delusione arancione: lettere da Milano

Cara Paola,

mentre contemplavo la buca che ho da anni davanti a casa –mi ci sono affezionata, le voglio bene, guai a chi me la aggiusta!- pensavo che questa cosa di Milano degelatizzata ci sta dando la misura esatta della diffusa delusione nei confronti di questa giunta, per la quale molte e molti di noi hanno lottato tanto. Gente di Napoli che chiama amici e parenti emigrati qui: “Maro’! Manco o’ gelato!”. Poi il sindaco è costretto a precisare: ma no, c’è un equivoco… Tant’è.

La festa, l’arancione, il doppio arcobaleno… sì, ciao. Mia mamma, che di sindaci ne ha visti tanti, lo dice in una sintesi efficace: “Par che el sindich el gh’è no”. “Pare che il sindaco non ci sia neanche”: traduco per te, ragazza sarda flamboyant che vivi a Milano, e perciò milanese perfettissima come me che sono il solito miscuglio imbarazzante, dalla Germania al profondo Sud con deviazione a Pittsburgh-Pa.

Cara Paola, io vivo in una dead zone con potenziale grandissimo: c’è quel meraviglioso naviglio leonardesco, “la” Martesana, popolato di anatre, aironi, pseudo-castori (le nutrie), cani scodinzolanti, e umani corridori che si fanno al trotto o in bici tutta l’alzaia: si arriva fino all’Adda. Con lo skyline metafisico delle ferrovie e dei treni, circondato da parchi stupendi (l’ex Trotter, Villa Finzi e il Parco Martesana che via via sta venendo su).

Salvo un progetto per l’ex-Trotter, l’abbandono di questa zona -5 minuti 5 di linea rossa da Piazza Duomo-, è assoluto e incomprensibile. Be’, spostati di lì, diranno tanti: vai a vivere in centro, rinuncia ai tuoi pomodori sul terrazzo, al basilico e alla bicicletta.

Vorrei che tu vedessi i meravigliosi magazzini delle ferrovie in via Sammartini, attualmente in dotazione a Grandi Stazioni: una cosa per la quale qualunque sindaco dovrebbe leccarsi i baffi. Potrebbero diventare i nostri docks e configurare una perfetta zona da movida, visto che lì non ci sono case e non dai noia a nessuno, con la “riviera” del Naviglio a pochi metri, e il gelato te lo potresti fare anche alle tre di notte.

I magazzini delle Ferrovie in via Sammartini, meraviglia abbandonata al degrado

Recuperi del genere sono stati già realizzati a Berlino e a Parigi, ça va sans dire. E invece qui non si muove foglia, se non associazioni di volonterosi cittadini che lo scorso we hanno organizzato una festa per vivificare la zona morta. Segnalo anche, se posso, nell’adrianesca via Gluck che fa parte del comprensorio, uno stupendo Museo del Manifesto Cinematografico –ovviamente privato- dove si possono anche organizzare feste ed eventi, con un barettino delizioso dedicato ad Adriano (vai a vederlo, è al numero 45).

I magazzini ferroviari di Parigi, molto simili a quelli di Milano, dopo la ristrutturazione

Faccio questo esempio ma potrei farne mille altri a dimostrazione di un procedere svogliato, stentato e areaC-centrico. E che palle questo centro storico! Che noia, che dead zone, quella sì. Il prossimo sindaco lo vorrei abitante ad Affori, a Turro o all’Ortica, così lo sguardo finalmente cambierebbe. Guidato dal desiderio di portare la bellezza anche a casa sua. Perché la bellezza cambia tutto, è il vettore ed il motore principale di tutto, nel nostro Paese.

Così, sempre contemplando la mia amata buca e le sue compagne -oltre le quali si estende un giardinetto comunale anche lui abbandonato da anni, e se non bastasse circondato da una atroce retazza di plastica arancione forse per farci soffrire di più, o forse perché è arancione- mi pare che a questo sindaco e alla sua giunta oltre ai soldi manchi la potenza del sogno e della visione, manchi l’entusiasmo –come se fossero stati condannati a essere lì-, manchi il progetto politico, che poi significa perseguire la minore infelicità per il maggior numero e immaginare la città in cui questo sia possibile, avere un’idea di città. Ovvero dire definirne l’identità all’orizzonte e perseguirla usque ad sanguinis effusionem. Tutto questo che sta mancando rende la compagine governativa nostrana molto esangue e a tratti perfino un po’ torva: tu prova a fare una critica su come stanno lavorando e vieni automaticamente rubricata tra i nemici del popolo. Come se non fossero all’ascolto, ma in difensiva perenne. Se poi menzioni la cacciata biblica di Stefano Boeri, attivissimo assessore alla Cultura defenestrato senza che ancora ce ne sia stata data spiegazione plausibile a parte il suo caratterino, be’, allora cerchi proprio guai.

Cara Paola, non sono nata borghese. Sono cresciuta in un milieu operaio. La mia infanzia è stata tra le tute blu, rivediti “Romanzo Popolare”: il mio mondo era precisamente quello, le Vincenzine, i manufatti, sveglia alle sette con le sirene della Breda e della Falck e tutto il resto. Un’infanzia in cortile, per strada, al bar, dura e molto felice. Io amo il popolo, so esattamente com’è e che cosa vuole. E non ti dico la noia di ritrovarmi costantemente a colluttare con tanti di questi borghesi “comunisti” e talora guerriglieri del centro storico, che invece di godersi beati i loro molti privilegi –ne ho conosciuti alcuni che volevano andare a lavorare in fabbrica, alla catena, quella dalla quale io e tanti altri abbiamo voluto fuggire, traditori del popolo! e giustamente i genitori li hanno sbattuti in analisi dal professor Musatti-, hanno sempre preteso di insegnare alla sinistra che cos’è la sinistra, e al popolo com’è il popolo e che cosa è giusto per lui: la periferia, le bibliotechine sfigate, i mercati miserabili, le slot machine, i centri massaggi cinesi, i giardinetti spelacchiati con lo scivolo giallo rosso e blu. Mai la bellezza, mai il glamour, eh no, per carità! Perché se no il popolo non è più il popolo come lo pensano loro, se no la periferia non è più la periferia come deve essere. Gli si spostano gli stereotipi e gli viene una labirintite ideologica.

Tu pensa la vecchiezza di ragionare ancora in termini di centro-e-periferia, e non invece in una prospettiva policentrica, in cui ogni zona abbia la sua propria vocazione, il suo proprio centro vivo e pulsante.  Che fine ha fatto, a proposito, il progetto dei Municipi?

Che tristezza, Paola. Che delusione. Che mediocrità. Che provincialismo: con il low cost anche il popolo viaggia, in classe economica, e fa i confronti con il resto del mondo.

Almeno tu ogni tanto nella tua Sardegna ci puoi tornare. Quando ci vai, salutamela.

(questa lettera da-milanese-a-milanese è per Paola Bacchiddu, “giovane” collega che stimo molto e a cui auguro un grande futuro. Paola mi risponde)

 

Cara Marina, innanzitutto ricambio la stima.

Sono arrivata a Milano nel settembre del 1991. Avevo 16 anni. Ricordo ancora gli acquazzoni di quell’autunno – io, che arrivavo da Cagliari – e mio padre che, durante un pranzo, convocò me e le mie sorelle per spiegarci che Milano era “altra cosa” dalle città in cui avevamo abitato finora.
“In che senso?”, chiesi. “Nel senso che non è paragonabile a nessun’altra città”, mi rispose lui.
Ci penso spesso a quella frase che allora non capii. All’epoca, l’ultima coda di quella “Milano da bere” – amministrata dal socialista Paolo Pillitteri – stava per essere spazzata via dalla stagione di Mani Pulite, dopo l’arresto di Mario Chiesa nel febbraio dell’anno successivo. L’immagine di quegli anni sono i lampeggianti azzurri delle volanti che attraversano di corsa la città. Sono gli arresti, continui. E una parola, pronunciata come un mantra liturgico: tangenti. Ricordo anche il primo sindaco leghista, Marco Formentini, dopo la parentesi socialista di Giampiero Borghini e del commissario prefettizio Claudio Gelati. Bossi, il suo leader, urlava “terùn”, dalla piazza prospiciente Palazzo Reale. E mi chiedevo dove fossi precipitata.

Non ho percorso questo amarcord a caso. Quando penso a Formentini, oggi, a vent’anni di distanza, mi ritrovo a esprimerne un giudizio tutto sommato positivo. E questo mi sorprende. Due anni fa, l’ondata arancione dell’attuale sindaco Pisapia si guadagnò nove circoscrizioni su nove. La città era stanca dei dieci anni di gestione di centro-destra, con Albertini e Moratti. Gli associazionismi, i comitati germinati spontaneamente, i partiti politici, gli elettori stessi si erano stretti in un grumo fiducioso attorno a chi prometteva – per la vecchia capitale morale d’Italia – “la grande visione”. Nel suo primo discorso, al teatro Litta, come candidato premier del centro-sinistra, Pisapia parlò di “buche sulle strade”. E io pensai, con scarsa lungimiranza, che un sindaco che intende conquistarsi una città come Milano deve promettere molto più di questo: deve regalarci il sogno o, quantomeno, un orizzonte.

Due anni dopo, invece, con rammarico e uno strano senso del paradosso, noi, che a quel sogno ci avevamo creduto, ci troviamo a lagnarci proprio di quelle buche che la giunta non riesce a riparare, neppure in un’ordinaria amministrazione. Quelle a cui tu sei affezionata, e che io cerco di schivare, a bordo dello scooter, per non spezzarmi il collo in un Corso Sempione non proprio secondario, quanto a viabilità.
Che è successo? L’assessore Majorino risponde attribuendo la responsabilità al patto di stabilità, alla spending review, ai tagli attuati dal Governo centrale, al buco in bilancio lasciato da Letizia Moratti. Il suo collega D’Alfonso risponde alle legittime obiezioni di Marco Vitale (“”manca il progetto, non c’è la visione”), gettando benzina sullo scontento: “La macchina comunale si è rivelata essere un imbarazzante trabiccolo e in due anni siamo riusciti a cambiare poco o nulla”.
La città sembra aver perso tutti gli appuntamenti di gestione ordinaria che si era prefissato di risolvere: la sicurezza, la sporcizia, il traffico, la qualità dei servizi. L’ultima miccia che tu ricordi – un’altra puntuale ordinanza restrittiva per vietare il consumo dei gelati oltre la mezzanotte, allo scopo di evitare “gli assembramenti” nella zona della movida – ha deflagrato lo scontento. Con intempestivi comunicati di smentita che confermano il già deciso e accendono un riflettore su una giunta tesa, nervosa, divisa (ormai, dopo la cacciata di Boeri, non si contano più le tensioni intestine).

Cara Marina, Milano e chi la ama – come te e come me che non ci sono nata ma ho imparato a non poterne più fare a meno – non si meritano, forse, qualcosa di meglio? Mancano 24 mesi ad Expo e io ricordo, ancora con sgomento, le pattuglie di vigili urbani a multare le auto, anche straniere, parcheggiate attorno alla zona di via Savona, durante il salone del Mobile di quest’anno.
Ma perché? Perché trasmettere l’identità di una città che respinge? Perché, come tu ricordi, la Martesana non può essere un fiore all’occhiello che brilla nel cuore di un capoluogo ostaggio di luoghi comuni spesso ingiustificati? A Milano non si lavora, solo. Non si produce, solo. A Milano si vive, si lotta, e ci s’innamora. Milano è forte: nel suo spirito civico, nel suo apparato associazionistico, nelle sue strutture sanitarie (scandali a parte), in quella capacità – in fondo ancora ne è rimasta, anche se siamo in Italia – di consentire una possibilità di successo a chi qui viene ad abitare, e a scommettere sul futuro.
Uno scrittore che amo molto, Sandrone Dazieri, ha scritto in un suo romanzo una cosa che io condivido e che forse non molti comprendono: “Milano non è una città, ma un grumo di lava che ha subito tutte le furie. Che è sterile, come il deserto, e per starci bisogna essere attrezzati. Che non è adatta ai dilettanti. Per questo la amo”.

E allora, Marina cara, perché dovremmo accontentarci di una gestione dilettantistica?

Donne e Uomini, Politica, TEMPI MODERNI Giugno 5, 2013

Istanbul: la forza della non-violenza

(foto Sinem Babul)

 

A giorni dovrei partire per Istanbul, chiamata a coordinare uno dei panel alla Conferenza delle donne nella nuova stagione del Mediterraneo. Dovrei, dico, perché non è ancora chiaro se vi saranno le condizioni per tenere quell’incontro, che riunirà intellettuali, politiche e imprenditrici di tutti i Paesi del bacino.

Stanotte altri scontri intorno allo stadio e a Gezi Parki. Dopo molte giornate sanguinose -i morti sono 3, secondo alcune fonti 4, per Amnesty International quasi 2500 feriti in tutta la Turchia , centinaia i detenuti, moschee trasformate in ospedali da campo: guardate qui) la giornata di oggi è cruciale. Una delegazione del movimento di protesta incontrerà il vicepremier Arinc, ponendo 4 condizioni molto nette: la liberazione dei manifestanti in carcere, la punizione dei responsabili degli abusi da parte delle forze dell’ordine, nessun divieto di manifestare a Taksim o altrove, la salvezza di Gezi, parco storico minacciato dalle ruspe della speculazione e luogo-emblema della rivolta contro il crescente autoritarismo del governo Erdogan.

Scelgo quella che vedete come immagine-simbolo di questi giorni dolorosi per la Turchia: una ragazza che resiste al getto potente di un idrante, la splendida e invincibile forza della non-violenza. L’islamizzazione debutta sempre con la restrizione della libertà femminile, si gioca da subito sui corpi delle donne: poco trucco, abiti castigati, niente effusioni in pubblico. La ragazza in rosso, con la sua passività attiva, fa del suo corpo campo di battaglia, inerme ma resiliente, quasi invulnerabile. Sembra che niente e nessuno la possa abbattere.

Sta facendo politica. Anche questo è un esempio di body-politics.

p.s. Seguite sui social network, sul “Corriere” e sulla “Stampa” le ottime corrispondenze da Istanbul di Monica Ricci Sargentini e Marta Ottaviani.

ULTIM’ORA: Il vicepremier Arinc ha disdetto l’incontro previsto per oggi con la delegazione del movimento. Intanto sono stati effettuati 24 arresti per un tweet. Qui le news.

 

Donne e Uomini, questione maschile, TEMPI MODERNI Maggio 9, 2013

Ma noi donne siamo così?

 

So che potrebbe scatenarsi l’inferno, ma riposto qui il commento di un lettore. E vi domando: noi donne siamo così?

 

Io odio le donne di oggi perché non sanno essere madri, perché si vezzeggiano in questo patetico sogno di femminismo alterato dimenticando che in un rapporto siamo in due a dover impegnarsi.
Le donne scelgono é vero, lo sto facendo anche io. Sto rifiutando tante donne perché le odio si, perché ti chiedono se hai i soldi o no, perché ti guardano in mezzo alle gambe subito, perché non amano ciò che non luccica, perché é scontato che debbano essere servite e riverite, perché non sanno essere madri, perché sono delle innate insoddisfatte insicure paranoiche, perché sono delle grandi ciniche opportuniste, perché una volta che hanno trovato un bel divano coi quattrini ci si siedono sopra e rovinano quel poveraccio che per disperazione ci casca come un allocco, perché non pensano mai al partner, perché non amano veramente il partner, perché odiano quello che piace all’uomo invece di sforzarsi di capirlo e non criticarlo, perché senza trucco e vestiti costosi non valgono nulla, perché pensano di fare le furbe allocanndo le persone ma con me non funziona.
Ecco perché odio le donne, tutto qua. Io sono diverso, ho sempre portato rispetto a tutte le mie partner senza tradirle e senza essere geloso o appiccicoso, ma una donna non mi può giudicare un perdente perché non ho i soldi o perché le sue amiche vivono meglio o perché non ha una casa abbastanza grande….LORO CHE FANNO ? PORTA I SOLDI A CASA E POI VEDIAMO….
Le donne sono ciniche accalappiatrici di vantaggi, sono delle estese insoddisfatte eternamente attratte dal sogno e non vivono mai una VITA REALE. Io amerò nuovamente quando troverò una donna acqua e sapone che sia dolce e sensibile ma soprattutto che mi rispetti che non mi svuoti il conto in banca, che sappia essere madre, che sappia rendermi felice nelle piccole cose in gioia e povertà per quanto riguarda me io la renderò felice, vivrò per lei e per i miei figli ma mai accetterò che lei mi manchi di rispetto o prenda in giro con cattiveria la mia povertà”.

economics, TEMPI MODERNI Maggio 3, 2013

Stampiamoci una casa

un modello in stampa 3d della stilista Iris Van Herpen

Mentre al governo si litiga su tutto, dalla stramaledetta Imu alla presidenza della Convenzione per le riforme, il mondo va avanti imperterrito, e oggi ho visto una cosa davvero straordinaria: una stampante “povera”, costruita con quattro assi di legno e poco più, capace di produrre oggetti alla velocità del desiderio.

Nella dimostrazione pubblica, un bicchiere “tessuto” con la pazienza di un ragno, sottilissimi fili di materiale plastico a costruire prima il fondo e poi il corpo, una ventina di minuti per realizzarlo sulla base di un progetto contenuto nel software, cervello della rudimentale stampante 3d. Qualcosa che sembra nascere dal nulla, una meraviglia da Wunderkammer.

A quanto pare grazie alle tecnologie digitali, e con attrezzature low cost -la stampante 3d che abbiamo visto in funzione si può costruire da sé, con un kit da un migliaio di euro- chiunque può dare forma a qualunque oggetto, con materiali che vanno dalla plastica ai metalli all’argilla e al legno. E se un oggetto unico che ho costruito piace a un amico californiano, è sufficiente che gli invii il file via email e potrà riprodurlo in tempo reale: una sedia creata a Torino è stata riprodotta identica in un fablab (le officine superspecializzate dei maker) di Helsinki.

Carichi il modello 3d, scegli i materiali, ed è fatta.

Esistono già anche stampanti meno artigianali per il grande formato con le quali, per esempio, è stata relizzata una bicicletta in un blocco unico. La magia ha già consentito di produrre mattoni, scarpe e altri accessori, abiti (come quelli della stilista olandese Iris Van Herpen). Ci sono poi le straordinarie sculture on-demand del fiorentino Enrico Dini. Esiste anche una Wikihouse per costruire case.

Ci si può stampare una casa, mentre “loro” discutono di Imu.

Meraviglie illustrate da Enrico Bassi del FabLab Officine Arduino e da Giorgio Olivero di ToDo al Capri Trendwatching Festival, organizzato dalla Fondazione Capri -titolo della terza edizione: “Segnali di futuro. Compro, dunque sono?”.

Domani la seconda giornata, ricco programma concluso da una lectio di Zygmunt Bauman dal titolo “Consuming for life, or to death?”.

Vi tengo aggiornati.

 

economics, TEMPI MODERNI Aprile 15, 2013

Giù le mani dai nostri pomodori!

 

Oggi non voglio parlarvi di Bersani che dà dell’indecente a Renzi, né di Renzi che dice che Finocchiaro è della casta, né di Finocchiaro che dà a Renzi del miserabile. Anche perché non stanno litigando su un contenuto che sia uno, ma si scannano per i fattacci loro.

Vorrei parlarvi di qualcosa di molto più serio: dei nostri pomodori nella loro stupefacente varietà, dei cocomeri, dei meloni, delle melanzane del frumento e di tutto quello che un seme piantato in terra riesce a fare con un po’ d’acqua e un po’ di luce.

Ebbene: Monsanto, multinazionale di biotecnologie, starebbe nuovamente tentando di depositare brevetti per ottenere il monopolio nella commercializzazione di svariate specie di frutti e ortaggi. Costringendo in questo modo i coltivatori a pagare per acquistare i semi, di cui la multinazionale avrebbe la proprietà esclusiva, con il rischio di essere denunciati se non lo fanno.

Gli stati europei hanno firmato una convenzione sul tema dei brevetti. Ma la Monsanto, a quanto pare, è abile nel gabbare il santo. Se non puoi brevettare, poniamo, un seme di pomodoro esistente in natura, non è invece proibito brevettare la caratterizzazione di un certo gene del pomodoro, o una variante del pomodoro che hai ottenuto in laboratorio. Un pachino anche lievemente modificato, in poche parole.

Per evitare che le multinazionali del biotech si comprino l’intera natura e ne facciano un orrendo business fantastiliardario, speculando unilateralmente su un patrimonio che appartiene all’umanità e al resto dei viventi, occorre rendere le leggi più restrittive e meno facilmente aggirabili.

Se siete sensibili al problema -e darei per certo che lo siate- qui l’appello da inviare ai governi europei: sottoscrivete e fate sottoscrivere.

Donne e Uomini, esperienze, TEMPI MODERNI Marzo 20, 2013

Baci da Roma: il Papa e i nuovi desideri degli uomini

Papa Francesco è uno sbaciucchione. Abbraccia e bacia tutte e tutti, con calore latino. Linguaggio del corpo che noi italiani conosciamo e pratichiamo.

A poche ore dalla sua nomina, sulla rete abbiamo visto di tutto. Il nuovo Papa santo subito, o violentemente demonizzato. In questi tempi convulsi e rabbiosi, meglio evitare i giudizi frettolosi. Aspettiamo che dica e che faccia.

Ieri, nel corso della solenne intronizzazione al cospetto di capi di stato e massimi rappresentanti religiosi, Francesco -anzi, Francisco- ha avuto toni giovannei e solari. “Non dobbiamo avere paura della bontà, e neanche della tenerezza“. “Il vero potere è il servizio“. Bisogna “custodire la gente, aver cura di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore”. “Per favore, siate custodi della creazione, dell’altro, dell’ambiente“.

Di questa tenerezza e di questo primato della cura ha dato un immediato saggio, baciando un bambino terrorizzato e carezzando un uomo gravemente disabile, che a quel contatto ha reagito con evidente felicità.

Mi ha molto colpito l’assonanza tra le parole del Papa e quelle di alcuni uomini che ho ascoltato nel corso di un convegno nel fine settimana a Roma: “Mio fratello è figlio unico – Cosa cambia se cambiano i desideri degli uomini“, organizzato dall’associazione Maschile Plurale.

Parole come queste: “Per noi uomini c’è un guadagno di senso esistenziale, quando ci applichiamo al lavoro di cura“. “E’ trasformativo che siano gli uomini a parlare di violenza, che si mettano in gioco con i loro sentimenti“. “Non dobbiamo avere paura di usare una parola di cui ci vergognamo, che è amore” (presto un reportage completo sulla due giorni romana).

Vedo qui, e nelle parole del Papa, tracce di un nuovo modo di stare liberamente al mondo da uomini.

Politica, TEMPI MODERNI Marzo 11, 2013

L’ora della paura

 

Troppi conflitti, troppi muro-contro-muro, troppi veleni, anche dentro ai singoli schieramenti politici. Troppa fatica quotidiana, troppa insicurezza. Troppa piazza, come quella dei parlamentari Pdl che “occupano” la scalinata di Palazzo di Giustizia a Milano. Troppo odio. Troppo potere, troppi privilegi a rischio. Troppi soldi che rischiano di scivolare dalle dita. Troppa leggerezza, da parte dei veterani della politica, che continuano a guardare la realtà con le lenti di sempre, e non hanno capito per tempo che gli occhiali vanno cambiati. Troppi scandali, troppa corruzione. Troppi ricatti. Troppa roba sotto traccia che rischia di venire a galla e fare saltare un banco già precario. Troppa rabbia.

Troppa paura: e ognuno ha le sue. Le paure dei cittadini, per 3/4 sulla soglia di povertà o già abbondantemente oltre. Le paure dei vecchi politici, di fronte alla prospettiva di uscire di scena. Quelle dei nuovi politici, incalzati da ogni parte, di fronte al rischio di smarrire da subito la purezza e la retta via. La paura dei poteri forti, minacciati da sommovimenti e cambiamenti.

La paura e la violenza sono gemelle siamesi. L’una chiama l’altra, l’una è premessa dell’altra. La paura genera violenza che genera paura e altra violenza.

Troppo pochi, non abbastanza, quelli che si impegnano sul fronte del dialogo, a tirare fili, a gettare ponti.

Si deve diventare sempre di più.

Tutte le nostre migliori energie devono impegnarsi in questo. A partire da sé.

AMARE GLI ALTRI, bambini, TEMPI MODERNI Gennaio 29, 2013

Piccoli milanesi ad honorem

 

Metropolitana milanese. Mamma e figlio cinesi, lui sui dieci anni con borsone da calcio, lei di una pallosità materna senza confini: “Allola mi laccomando, poi asciuga bene capelli se no plendi laffleddole, e sotto metti la maglia (giuro, parlava così, ndr) e poi dimmi a che ola tolni, no come l’altla volta che hai detto sette e sei allivato a otto…”. “E basta ma’! E mollami!” la stoppa lui. “E che strèss! Se ti ho detto le sètte  vuole dire le sètte”, con una “e” che più aperta non si può. Una “e” della Bovisa, del Giambellino, di Quarto Oggiaro (vorrei farvela sentire: un’autentica meraviglia!). Una “e” del Ticinese, di Lambrate, di Gorla, in bocca a quel piccoletto con gli occhi monopalpebra.

L’essenza della milanesità –da sempre- è il meticciato. Il vero milanese è una creatura stralunata e scissa, le radici che pescano a centinaia di chilometri –quasi sempre più a Sud: terroni-, una creatura aggrappata alla città come una patella, attaccamento che si esprime in un fantastico e innamorato slang incapace di dieresi, di “ö”e figuriamoci di “ü” (che diventa “ju”). Il pugliastro dei baby boomers, avete presente? Un’intera generazione di figli di barlettesi, tranesi, baresi e brindisini che ha dato volto e voce a vari decenni di Milano: Celentano, Mazzarella, Jannacci, Abatantuono, Teocoli. Più milanesi del panettone.

Tocca a questi altri, adesso, pazzi di Milano: ragazze filippine (“…ma sei fuoori?”), “pinella” peruviani, piscinine del Senegal che ci riempiono di allegria e vitalità. Seconda generazione, ma è già in arrivo una terza. Più o meno un neonato milanese su tre è figlio di gente che viene da lontano. Il 20-30 per cento degli alunni è di etnia extra e di lingua madre italiana. Ma questi ragazzi hanno un problema in più. In base allo ius sanguinis (italiano chi è figlio di italiani) e alla pessima legge Bossi-Fini sull’immigrazione, solo a 18 anni potranno fare domanda per accedere alla cittadinanza, e con una procedura piuttosto complicata. Un’ingiustizia profonda che potrà essere sanata solo cambiando la norma nazionale. Ma l’amica consigliera comunale del Pd Paola Bocci ha proposto di anticipare gli effetti della riforma con un conferimento di cittadinanza onoraria.

E ce l’ha fatta! Ieri il Consiglio Comunale milanese si è impegnato a conferire con una cerimonia pubblica un attestato di riconoscimento simbolico di cittadinanza italiana ai bambini nati a Milano da genitori stranieri. Dice Paola: “Anche se questo non cambia lo status giuridico, afferma con forza la volontà di vedere i bambini e i ragazzi come tutti uguali, riconoscendoli come risorsa preziosa e insostituibile della Milano di adesso e di quella che verrà. C’è urgenza di cambiare una legge anacronistica… questi bambini si sentono italiani, frequentano o hanno frequentato le nostre scuole, conoscono bene la nostra lingua e sentono come loro questa città… Mi auguro che l’impegno preso oggi sia un monito per chi andà a governare il Paese, perché si impegni da subito a cambiare la legislazione vigente”.

Mi metterò un cappellino, andrò alla cerimonia, piangerò come una fontana.

 

p.s. Altre città: copiateci!

 

 

 

economics, Politica, TEMPI MODERNI Gennaio 8, 2013

Ricchi all’inferno

Pierluigi Bersani ha ragione: altro che inferno come dice Nichi, meglio che i ricchi “stiano qua e paghino le tasse”. Più conveniente per tutti. In verità Nichi Vendola, con la sua retorica flamboyant, all’inferno, o per essere più precisi “al diavolo”, ieri a Uno mattina ci ha mandato Depardieu (vedi qui, intorno al minuto 11), neocittadino russo per ragioni fiscali, e con lui tutti quei super-ricchi che in quest’anno disgraziato sono diventati ancora più ricchi, secondo il Bloomberg Billionaire Index, e nel 2013 promettono di cumulare ulteriori profitti mentre il resto del mondo impoverisce e tira la carretta.

Insomma, è il 99 a 1 di Occupy Wall Street, niente di nuovo o sconvolgente. Ma in campagna elettorale cambiano i metri di giudizio, tutto viene soppesato con il bilancino, le frasi estrapolate ad arte e una battuta buonsensista che anche nelle migliori famiglie ci sta (quanti “vaffa” avrà cumulato Depardieu nella Comunità Europea?), che si richiama ortodossamente a quanto è scritto nei Libri, e cioè che il denaro è sterco del diavolo, diventa impronunciabile ed elettoralmente pericolosa.

Ma che i ricchi abbiano troppo e i poveri troppo poco, che la forbice sociale si sia allargata a dismisura e che questo sia un male assoluto che va contrastato con ogni intrapresa politica, che l’avarizia sia un peccato mortale è un pensiero trasversale che va da Sel ad Amartya Sen alla Lega, dal Dalai Lama agli impiegati di banca al prevosto di una parrocchia di campagna.

Pur sempre con la fiducia che gli ultimi saranno i primi. Ma forse meglio secondi e penultimi. E’ una questione di misura. Se devo mandare a scuola il bambino con la sua scorta di carta igienica perché la scuola non la garantisce più, non è difficile che mi irriti un po’ vedendo panzoni abbronzati evasori fiscali sui loro ferri da stiro di cinquanta metri che il primo dell’anno stappano in rada a Barbados.

Ed è già tanto che ci si limiti alle battute. Almeno quelle lasciatecele fare.