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economics

Donne e Uomini, economics, questione maschile, WOMENOMICS Ottobre 26, 2015

Le imprenditrici per una Nuova Economia

Viene da dire: finalmente ci siamo. Finalmente i pensieri sull’economia concepiti nel femminismo, in particolare dal pensiero della differenza (vedi tra le molte altre Ina Praetorius con il suo “Penelope a Davos”, si parva licet, i libri e altre cose che io stessa ho scritto su questo tema) diventano strumenti concreti di riflessione e di lavoro nelle mani di businesswomen come quelle riunite in Aidda (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda).

Proprio oggi alle 14.30 a Expo, padiglione Italia area WE– Cardo Nord Ovest-, per iniziativa di Aidda nasce NOE – Nuovo Orientamento Economico, “laboratorio permanente per la definizione di un nuovo modello di sviluppo che integri con nuove priorità la logica del profitto”. L’obiettivo  è “elaborare e promuovere un nuovo modello economico, che rinnovi il sistema attuale attraverso l’introduzione di una prospettiva di genere che ponga attenzione oltre che al conseguimento del profitto, al benessere degli individui, alla messa in comune delle risorse, al rispetto della natura, alla responsabilità verso le generazioni future… Nella prassi di lavoro delle donne questi valori sono già presenti, il nostro obiettivo è trasformare le buone prassi in metodo”.

Oltre a Franca Audisio, presidente nazionale Aidda, e alla vicepresidente Antonella Giachetti, partecipano all’incontro Antonietta Potente, teologa, suora della Congregazione dell’Unione delle Suore Domenicane di San Tommaso, Maria Luisa Cosso, imprenditrice, e Ami Damba, ambasciatrice culturale del Mali.

Spiega Antonella Giachetti: “La crisi che stiamo attraversando, che non è ciclica ma strutturale, ci impone uno sguardo diverso sulle questioni economiche”.

In effetti anche l’economia è un manufatto umano, in quanto tale smontabile: non si tratta di leggi divine.

“Si moltiplicano le iniziative di riflessione su questi temi e sulla necessità di un cambio di paradigma. Si tratta di uscire dall’estemporaneità e di dare a queste riflessioni una capacità propulsiva”.

In che modo?

“Ci piacerebbe un laboratorio scientifico interdisciplinare, dalle scienze economiche alla teologia, che provi a strutturare questo pensiero. Oggi presenteremo il progetto che speriamo possa partire il prossimo anno”.

Linee guida?

“Una visione sistemica della realtà, che valuti le conseguenze di ogni gesto economico sulle generazioni future e su quella parte di mondo che non partecipa alla nostra ricchezza. Una contabilizzazione di costi che normalmente non vengono contabilizzati ma che poi la società è chiamata a pagare”.

L’iniziativa si rivolge solo alle donne?

“Anche a quegli uomini che riconoscano gli squilibri prodotti dalla prevalenza di valori maschili”.

“Eccesso di maschile”, lo chiamo io. Che fa male a tutti, donne e uomini, e al pianeta.

“E non basta affatto, come pensano ancora in molte, cercare un riequilibrio con le quote: perché la fatica è del tutto inutile se poi le donne che vanno si uniformano ai valori maschili”.

Anzi. Spesso sono anche più zelanti. Da neofite, devono dimostrare di sapersi muovere perfettamente nel mondo degli uomini, assumendo acriticamente regole, modi e tempi. Vale per l’economia come per la politica.

“Il laboratorio procederà delineando i nuovi criteri economici. Quindi dovremo far partire l’osservazione di microrealtà che assumano il fatto di valutare sempre a 360° le conseguenze di una scelta economica e produttiva”.

Si chiama cura.

“Sì, cura. La vita è una, la separazione tra ambiti è solo artificiale, tutti i sistemi sono in stretta relazione fra loro. E una cosa che fai per il bene di altri e non solo per il tuo profitto ti ritorna in bene moltiplicato. Come quando allattando un bambino produci più latte. Si tratta di un guadagno per tutti”.

 

 

Corpo-anima, diritti, economics, questione maschile Ottobre 23, 2015

La lobby dei papponi dietro la proposta di Amnesty International di legalizzare la prostituzione

Ebbene siamo state qui a combattere con clienti di prostitute che si facevano forti della proposta di Amnesty International di legalizzare la prostituzione in nome dei diritti umani–sulla legalizzazione questo blog ha già prodotto molto materiale: vedi qui, e qui, e qui-. La proposta di Amnesty ha sconcertato anche molte e molti fra noi, convinte/i che la legalizzazione e la teoria del libero sex working siano inutili e anzi dannose nella lotta contro la tratta e lo sfruttamento.

In effetti da Amnesty non ce lo aspettavamo. Poi leggi questo articolo del britannico “The Guardian”, e improvvisamente i conti tornano. 

In sostanza: la vice-presidente del Global Network of Sex Work Projects, Alejandra Gil, ascoltatissima da Amnesty come esperta e con ruoli di opinion leading anche presso organismi delle Nazioni Unite, è una sfruttatrice, condannata a 15 anni di carcere per tratta a seguito della denuncia di una vittima.

Come scrive “The Guardian” (qui nella traduzione di Resistenza Femminista) “Gil faceva parte di una rete di sfruttamento che coinvolgeva circa 200 donne. Conosciuta come la Madam di Sullivan era una delle più potenti sfruttatrici di Sullivan Street, area di Città del Messico famosa per la prostituzione. Gil e suo figlio facevano parte di una rete di trafficanti nello stato di Tiaxcala, luogo conosciuto in Messico come l’epicentro della tratta. Madai, una ragazza di 24 anni che è stata trafficata a Città del Messico, è una delle persone che ha fornito le prove contro Gil. Parlando con un giornalista in Messico ha dichiarato: “il lavoro di Gil era di controllarci dalla macchina. Suo figlio ci portava negli hotel e ci prendeva i soldi. Lei teneva i conti. Aveva una lista dove prendeva nota di tutto. Scriveva perfino quanto tempo impiegavamo”.

Oltre ai suoi impegni di sfruttatrice, Alejandra Gil era presidente di Aproase,una NGO che diceva di sostenere i diritti delle persone in prostituzione, ma che in pratica funzionava da copertura utlile per le sue operazioni di sfruttamento. E fino all’arresto Madam di Sullivan era vicepresidente di un’ organizzazione che si chiama Global Network of Sex Work Projects. Nel 2009 la Gil è stata anche eletta co-presidente del “Comitato Consultivo su HIV e Sex Work“ di UNAIDS. UNAIDS è l’associazione internazionale responsabile del contrasto su scala globale alla diffusione del virus HIV. Alejandra Gil è anche personalmente riconosciuta, in un report sul mercato del sesso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità -WHO, 2012- come una degli “esperti” che hanno dedicato il loro “tempo e competenza” per sviluppare le loro raccomandazioni. Amnesty International fa riferimento, nella sua proposta sul sex work, al NSWP e al comitato consultivo che ha diretto. La politica di Amnesty fa riferimento a “organizzazioni per i diritti umani” che appoggiano la loro proposta: “e in modo particolare“, scrivono, a “un vasto numero di organizzazioni e reti per i diritti dei/delle sex workers, incluso il Global Network of Sex Work Projects, che sostengono la depenalizzazione del sex work”.

Come è potuto accadere tutto questo? Come ha potuto una sfruttatrice finire a essere seconda al comando di un’associazione globale che ufficialmente ha il ruolo di consulente per le agenzie delle Nazioni Unite sulle politiche da adottare in tema di prostituzione, e che è citata da Amnesty International nel suo documento sul sex work? 

NSWP ha organizzato una campagna per la depenalizzazione delle “parti terze” nella prostituzione. Di questi fanno parte, secondo le loro dichiarazioni, “i managers, i proprietari di bordello e qualsiasi persona considerata un/a favoreggiatore/trice del sex work”. L’organizzazione insiste nel dire che “i sex workers possono essere lavoratori/lavoratrici o imprenditori o partecipare in una gamma di altri lavori collegati al sex work”. Secondo la politica del NSWP la sfruttatrice Alejandra Gil era una “sex worker” il cui ruolo nel mercato del sesso era la “manager”. L’organizzazione fa pressione politica perché lo sfruttamento e la gestione dei bordelli sia considerata un lavoro legittimo. Per ricoprire il suo ruolo come Vice Presidente del NWSP, Gil non aveva nessun bisogno di nascondere i suoi interessi come pappona, aveva un mandato per perseguirli. Questi interessi sono stati perseguiti con grande successo grazie a una delle organizzazioni per i diritti umani più famose al mondo.

Quello che è successo nel 2007 è fondamentale per capire in che modo il gruppo è riuscito ad imporsi.  Una versione rivista della nota guida di UNAIDS fu pubblicata, questa volta contenente l’appendice preparata dal comitato informativo del gruppo. Questa raccomandava che “gli Stati abbandonassero le politiche di criminalizzazione del sex work e delle attività associate ad esso. La depenalizzazione del sex work dovrebbe comprendere la rimozione di quelle leggi penali contro la vendita e l’acquisto di sesso, della gestione dei sex workers e dei bordelli e delle altre attività legate al sex work”. Quel report è diventato adesso un riferimento fondamentale per i gruppi che fanno pressione sui governi per rendere legale lo sfruttamento e la gestione dei bordelli. È il modello legale sostenuto dal NSWP – la totale depenalizzazione del mercato del sesso- che la Direzione di Amnesty International ha votato ad agosto. Amnesty sostiene che la sua linea politica è stata il risultato di due anni di ricerche e che si tratta della soluzione  migliore per la protezione dei diritti umani di quelle persone che alcuni uomini comprano per il sesso. Amnesty International sostiene la depenalizzazione di una forma di violenza contro le donne, consentendo agli Stati di diventare papponi, rendendo i bordelli leciti e tassando le donne che sono sfruttate là dentro.

Esohe Agathise, Consulente sulla tratta a scopo sessuale di Equality Now, ha detto “È sconvolgente come una persona condannata per tratta a scopo sessuale possa influenzare una politica che, in se stessa, è incompatibile con i diritti umani e la legge internazionale. Abbiamo bisogno di fermare la domanda che alimenta la tratta piuttosto che depenalizzare quelli che lucrano sullo sfruttamento degli altri. Le agenzie delle Nazioni Unite devono immediatamente chiarire la loro posizione sul mercato del sesso, in particolare alla luce di queste nuove prove schiaccianti”.

Senza dubbio, le persone che sono pagate per il sesso dovrebbero essere completamente depenalizzate. Ma non quelli che le sfruttano sessualmente: i papponi, i proprietari di bordello e i compratori. Questi sono criminali e non imprenditori o consumatori. Mia de Faoite, sopravvissuta alla prostituzione, ha detto: “Ho lasciato la prostituzione completamente distrutta come essere umano e non riesco minimamente a immaginare come un tale livello di violenza possa essere sancito e considerato “lavoro””.
La condannata per tratta a scopo sessuale Alejandra Gil e il suo gruppo sono stati così strettamente coinvolti nella costruzione della politica delle agenzie delle Nazioni Unite sulla prostituzione, da autorizzare a parlare di uno scandalo nel campo dei diritti umani. Chiaramente UNAIDS deve urgentemente condurre un’inchiesta trasparente e approfondita su tutte le politiche che sono state condotte dal NSWP e fare indagini su come tutto questo sia potuto accadere. Per quanto riguarda Amnesty International, sarebbe orribile vedere l’organizzazione perseverare nel suo appello per la depenalizzazione totale del mercato del sesso. Non c’è bisogno di una condanna per tratta di chi rappresenta il principale gruppo sostenitore della sua linea politica per capire chi è che in realtà trae i maggiori vantaggi, quando lo Stato legalizza la gestione dei bordelli e lo sfruttamento”.

Ma sulla proposta di Amnesty c’è di più. Non solo una sfruttatrice ha avuto molta influenza sulla sua risoluzione, ma uno sfruttatore ha redatto la bozza originale del documento. Ne dà notizia Resistenza Femminista. Si tratta di Douglas Fox, fondatore e partner commerciale della Christony Companions, una delle più grandi agenzie di escort della Gran Bretagna, un pappone che ha scritto il documento per sostenere la depenalizzazione di persone come lui, proprietari di bordelli, sfruttatori. Lui stesso ha rivendicato di aver scritto questo documento in un’intervista rilasciata a “The Guardian”. Douglas Fox si considera un “sex worker” nonostante non si sia mai prostituito. Nell’intervista afferma: “I think anyone who makes money from selling sex is a sex worker” (“Io credo che chiunque faccia soldi con la vendita di sesso sia un sex worker”). Fox afferma che “quelli che voi (femministe) chiamate papponi noi li chiamiamo managers” (“what you call pimps we call managers”).

Ecco  la trascrizione di un confronto presso la Commissione Giustizia dell’Irlanda del Nord del 30 gennaio 2014 nel quale una rappresentante di Amnesty ammette che Fox faceva parte del gruppo di New Castle che nel 2008 ha proposto la prima versione del documento sul sex work, e che quindi Fox fosse al centro dell’iniziativa.

Che Amnesty ripensi seriamente alla sua proposta.

Noi ne siamo convinte da tempo: dove si parla di legalizzare la prostituzione e lo sfruttamento sessuale c’è sempre odore di business, e le lobby si muovono potentemente.

 

 

ambiente, economics Settembre 25, 2015

60 milioni all’ex-ad Volkswagen: la redditività del Male

E così l’ad di Volkswagen Martin Winterkorn se ne va con una sessantina di milioni più frattaglie.

L’azienda sostiene che Winterkorn non sapeva dell’imbroglio e anzi lo ringrazia «per il suo elevato contributo» al gruppo, i cui ricavi sono quasi raddoppiati durante la sua guida. Lui però si è eroicamente assunto «la responsabilità delle irregolarità emerse riguardanti i motori diesel».

Capita spesso che gli ad vengano salutati con superliquidazioni anche quando hanno fatto danni, e magari un sacco di gente ci ha rimesso il posto di lavoro. Spesso si tratta di un premio per aver fatto diligentemente il lavoro sporco, o di un compenso per tener loro la bocca cucita su qualche, diciamo, irregolarità.

Dal punto di vista pedagogico, il messaggio è devastante. Anzi, demoniaco.

Il Male –nel caso Volkswagen la salute del pianeta e di chi lo abita- viene premiato con abbondante stercus diaboli. E chi prova invece a fare Bene sempre a lottare con il centesimo.

Può essere che questa sia la strada per guadagnarsi il Regno dei Cieli, e che gli ex ad stramilionari se la vedranno con le fiamme dell’inferno. La remuneratività del Male potrebbe avere una sua paradossale forza simbolica.

Ma qui sulla nostra povera Terra è dura da mandare giù.

economics, Politica Luglio 31, 2015

Sud peggio della Grecia: ma anche alla sinistra importa poco o niente

Prima che ne parlassero molte prime pagine, ieri ho postato sui s/n che “il Sud sta peggio della Grecia”, dati Svimez.

Un paio di amiche “di giù” si sono risentite. Una mi ha dato della Salvini: capisco la reazione orgogliosa. E capisco anche chi dice: vivo qui, non c’è bisogno che qualcuno mi dica come sto. Ma i dati Svimez fotografano un dramma perfino superiore a quello percepito: nel periodo 2000-2013  il Sud è cresciuto metà della Grecia; nel 2014 i posti di lavoro in Italia sono cresciuti di 88.400 unità, tutti concentrati nel Centro-Nord (133.000), il Sud ne ha persi 45.000; 1 famiglia su 3 è a rischio povertà (contro 1 su 1o al Centronord); le culle vuote lì sono vuotissime, il che comporta anche uno snaturamento antropologico, culturale e sociale. In breve, il Sud è destinato alla desertificazione e al sottosviluppo permanente.

Dai dati si deduce l’insostenibilità delle due velocità: al Nord, isole di sviluppo -produttività, occupazione, servizi etc- che battono la media tedesca, al Sud quello che vediamo. La non-normalità ma anche la straordinarietà del nostro Paese sta in questa forbice, mai così spalancata.

Straordinarietà perché nel Sud ho sempre visto un’enorme occasione, per il Sud e per tutto il Paese, che i dati Svimez non rilevano. Come dico spesso ai miei amici, da nordica (meticcia) esausta corro “giù” appena posso a ricaricarmi, amo guidare in solitudine per quelle strade che traversano la grande bellezza in lungo e in largo, nella disperazione evidente percepisco un potenziale enorme, un’energia formidabile che mi invade e non sento in nessun altro luogo, un senso di vigilia che dura ormai da troppo tempo e che tuttavia mi riempie di fiducia. E sono certa che se qualcosa di davvero buono capiterà a questo Paese comincerà a capitare lì. Come dice Paul Valery, il Mediterraneo è un dispositivo che produce civiltà: è stato vero più volte, può esserlo ancora.

Il Sud è stato sostanzialmente dimenticato dai governi di centrodestra, che l’hanno utilizzato come mero serbatoio di voti, eventualmente sporchi. Ma anche il governo di centrosinistra ha continuato in modo miope per questa strada, abbandonando il territorio ai califfati locali e contribuendo alla desertificazione con metodici disinvestimenti: es., ottobre 2014: Ferrovie dello Stato destina 4.8 miliardi per il centro-nord e 60 milioni al sud; novembre 2014: vengono sottratti 3.5 miliardi di fondi FAS destinati al Sud per finanziare gli sgravi fiscali.

Si dovrebbe fare esattamente il contrario: una grande politica di investimenti sul Sud, un vero e proprio new deal accompagnato da una stretta vigilanza anticorruzione, una stra-mobilitazione nazionale per favorire la “restanza” e la ripopolazione, perfino un moto migratorio inverso, da Nord a Sud, nella certezza che il “nuovo modello” che si va cercando potrebbe delinearsi proprio lì.

Una sfida politica meravigliosa, la madre di tutte le sfide.

Ma anche alla sinistra, nel Pd, fuori dal Pd, un po’ dappertutto, mi pare che del Sud importi troppo poco. Senz’altro meno della Grecia, investita di attenzione molto maggiore. Quella battaglia è intesa come “meridionalismo” di retroguardia. Strano, dico: perché se non è una battaglia come questa a conferirti senso, baricentro e identità politica, che cosa te li può dare?

domenica 2 agosto: oggi c’è questa interessante novità, il piano del governo per il Sud .

 

economics, Politica Luglio 29, 2015

Se la crescita non cresce

Secondo il Fondo monetario internazionale c’è la possibilità che il tasso di disoccupazione in Italia torni ai livelli pre-crisi solo tra 20 anni. Il problema, dice Christine Lagarde, è sempre quello: un basso livello di crescita. Il Ministero dell’Economia replica che la stima del FMI per l’Italia non tiene conto delle riforme strutturali già introdotte (per esempio la riforma del mercato del lavoro e la riduzione della tassazione sul lavoro) né di quelle in corso (per esempio l’efficientamento della pubblica amministrazione). E ok.

Ma io credo che quasi nessuno di noi ormai capisca più bene che cosa si intenda quando si parla di crescita.

Certo: un po’ di lavoro in più, certo, e magari un po’ di tasse in meno comporterebbero un po’ di consumi in più. Fin qui ci si arriva: se ci danno un po’ di fiato forse finalmente cambieremo la lavatrice.

Ma basta osservare il comportamento dei nostri ragazzi, nati e cresciuti nell’iperconsumo, gelati dalla crisi e impegnati in una lotta individuale di liberazione dai bisogni indotti dall’impero delle merci –clandestini a bordo, li ho chiamati, come Leo Di Caprio-Jack Dawson in “Titanic”- per rendersi conto del fatto che i livelli di consumo e di crescita ritenuti ottimali dal Fmi non li raggiungeremo mai più.

Jeremy Rifkin dirige la Foundation on Economics Trends di Washington ed è consulente di molti governi europei. Che a quanto pare non gli danno troppo retta quando lui dice che siamo a una svolta epocale e che l’era dell’iperconsumo è proprio finita. La gente vuole stare leggera, liberarsi delle cose superflue e dei bisogni indotti perché ha capito che consumare costa molto e rende poco.

Il modello pre-crisi non è in stop tecnico: è proprio esploso. La crisi è questa esplosione.

Perché allora, mi chiedo, si continua a darsi come obiettivo quello di “tornare ai livelli pre-crisi”?

Perché, nel fare e rifare i conti, ci si ostina a non tenere conto di quello che è irreversibilmente cambiato –la produttività del lavoro, la propensione ai consumi, e anche i criteri di sostenibilità ambientale-, e tenendo insieme con realismo questi fattori, non si concepisce un modello più ragionevole, più equo e perfino più felice?

E perché Christine Lagarde non approfitta del fatto di essere donna, e non prova a metterci un po’ di sapienza femminile?

 

 

economics, Politica Luglio 20, 2015

Renzi e le tasse: non mi toccate l’evasore!

Abolirò l’Imu: è la regina delle killer application in Italia, il colpo che classicamente ammazza l’avversario a fine campagna elettorale. Stavolta il colpo è arrivato in anticipo, dati i sondaggi. Una riduzione delle tasse mai vista nell’Italia repubblicana, dice Renzi, il quale ha fatto fare e rifare i conti ai suoi commercialisti, e assicura che ci sta. Tutto un pianto greco -in senso non figurato- sui bilanci, in particolare quelli dei Comuni, che si nutrono di Imu come i vampiri di sangue, ma a quanto pare senza Imu ci possono stare. A occhio andrà così: via l’Imu e vai con l’Ursi, la Trixi, la Lilli, quello che esce dalla porta rientrerà dalla finestra. Gioco delle tre tavolette a cui siamo abituati. Meglio ancora. L’Ursi, la Trixi, la Lilli ci costeranno più dell’Imu. Et voilà.

Noi lavoratori dipendenti, noi pensionati, noi che ogni mese verifichiamo sul cedolino, salvo conguaglio, l’insostenibilità della pressione fiscale, noi che paghiamo ospedali, scuole e pubblici servizi a gente con il posto barca a Montecarlo, in effetti siamo un po’ nervosetti. Perché tutta questa grande rivoluzione che ci prepariamo ad affrontare non prevede la lotta all’evasione. Renzi non ne ha parlato.

Un po’ di numeri, che traggo da un’efficace sintesi di Il Fatto Quotidiano:

evasione fiscale nel 2013 = 180 miliardi (pari a circa 350 miliardi di imponibile)
– 180 miliardi = più del 10% del Pil (1.600 miliardi)
– 180 miliardi = molto più di quanto l’Italia spende per tutto il Servizio Sanitario Nazionale (110/120 miliardi)
– 350 miliardi di imponibile non dichiarato = oltre la metà di quello che lo Stato paga per gli interessi sul debito pubblico (530 miliardi). Se i 180 miliardi di evasione si aggiungessero alle attuali entrate del Fisco sarebbe possibile, a gettito totale invariato, ridurre di almeno il 30% le tasse a tutti i contribuenti.

Detenuti per reati fiscali: Italia 156; Germania 8.601; Stati Uniti 12.000.

Chi evade: – 10 o 11 milioni di contribuenti su un totale di 40. L’evasione è quasi inesistente per lavoratori dipendenti e pensionati (che sono oltre l’80% dei contribuenti) ma raggiunge livelli molto elevati per i redditi da attività professionali (30-40%) e da imprese individuali (50-60%).

Quindi se mi toccasse decidere, senza  stare a scomodare Gutgeld, Padoan e tutti i ragionieri in colonna, io partirei proprio di lì, da una lotta massiccia e senza quartiere, impegnando Guardia di Finanza, Esercito, ausiliari della sosta e volontari della Croce Rossa. Poi l’Imu, vedremo. I sistemi ci sono, è la volontà politica che manca del tutto: le verifiche fiscali, udite udite, negli ultimi mesi sono addirittura crollate, e si rischia un buco da 5 miliardi solo per questo.

O cretina, mi dico: ma non sai che chi parla di lotta all’evasione muore? I giornali perdono copie, su Facebook nemmeno un like, e alle urne la paghi cara. Una lobby enorme e variegata, di destra e di sinistra, amici e nemici, farabutti e brave persone, a essere ottimisti almeno 1/4 degli italiani  ha almeno uno scheletrino nell’armadietto, normale che il premier se li coccoli. Vuole i loro voti.

La riduzione delle imposte c’è già, ma solo per un pezzo del Paese. Perciò continua a pagare scuole, ospedali etc al tuo yachtman e taci.

Sì, lo so. Per oggi niente like.

 

 

 

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/04/evasione-fiscale-robin-hood-rovescia-rubano-poveri-per-dare-ricchi/1565690/

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro Marzo 31, 2015

Gap salariale tra donne e uomini: una proposta di legge

 

Proprio oggi l’Istat diffonde nuovi disastrosi dati sulla disoccupazione, e in particolare sul calo costante dell’occupazione femminile. Nelle settimane scorse abbiamo appreso che uno dei pochi dati positivi che riguarda il lavoro delle donne nel nostro Paese, un gap salariale inferiore alla media europea (7.3 contro 16 per cento), si sta progressivamente ampliando, mentre negli altri Paesi la forbice tende a ridursi.

La trasparenza e la pubblicità delle retribuzioni nelle aziende (fatta salva la privacy: cioè omettendo l’identità dei singoli lavoratori e nominando solo  il genere di appartenenza) è il primo passo necessario per contrastare la disparità salariale: è questo il senso della proposta di legge depositata oggi da Pippo Civati del Pd, a inaugurare un pacchetto di leggi “dedicate” alla cittadinanza femminile (e dati i vantaggi che ne deriverebbero, a tutto il Paese).

Ecco il testo della proposta.

“Onorevoli colleghi! Il divario retributivo di genere è un fenomeno complesso che
riguarda sia la cosiddetta “discriminazione diretta”, cioè a parità di lavoro, sia le
differenziazioni di mansioni e di settori. Si tratta di un divario troppo ampio, che, a
livello di Unione Europea, si attesta in media intorno al 16%.
Colmare questo divario è necessario anzitutto per motivi di giustizia e di uguaglianza.
Ricordiamo che l’articolo 37 della Costituzione afferma che «la donna lavoratrice ha gli
stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». I
destinatari di questo imperativo sono tutti i soggetti, pubblici e privati, da cui dipenda il
rispetto dello stesso, compresi quindi i datori di lavoro, ai quali la presente proposta in
particolare si rivolge.
Peraltro, deve considerarsi come dal superamento del divario si trarrebbero vantaggi
anche per l’economia, un riconoscimento adeguato del lavoro delle donne essendo
generalmente riconosciuto come un importante fattore di crescita.
Al fine di assicurare la piena realizzazione della parità salariale molti sono gli interventi
da porre in essere, anche attraverso la revisione di alcune norme esistenti, intervenendo
su sanzioni e incentivazioni, ma il punto da cui partire in modo semplice e immediato
può essere quello della trasparenza.
Si tratta di un elemento su cui puntano oggi sia l’Unione europea sia Paesi
economicamente forti e sviluppati e che ci sembra il caso di riprendere e – per certi
versi – anticipare.
Infatti, il 7 marzo 2014 la Commissione europea ha adottato una raccomandazione «sul
potenziamento del principio della parità retributiva tra donne e uomini tramite la
trasparenza».
Per questo la Germania, che certamente presenta un divario retributivo molto più ampio
del nostro, si sta dotando di una legge per la parità salariale di grande significato, che
prevede la pubblicizzazione degli stipendi di un’azienda, senza indicare i nominativi dei
lavoratori, ma associando alle cifre il riferimento al gruppo di appartenenza e quindi al
genere.
Una soluzione che si combina perfettamente con la decisione del governo tedesco e
della sua maggioranza di introdurre un salario minimo stabilito per legge, come anche in
Italia sarebbe auspicabile che si facesse.
 
Una soluzione avanzata dal governo di Grosse Koalition guidato da Angela Merkel, e in
particolare dalla ministra Manuela Schwesig, ministra federale alla famiglia.
I dati in Italia ci dicono che, per una volta, il nostro Paese è in testa alle classifiche
europee, perché il gap è solo del 7,3%. Il dato che allarma è però che la differenza
aumenta, mentre negli altri Paesi diminuisce.
Con un testo di legge chiaro e semplice, che rinvii all’intervento del Governo, entro
poche settimane, si può intervenire immediatamente, perché il nostro Paese sia alla pari
con i migliori standard di civiltà e riconosca quell’equilibrio tra uomini e donne che è
un fattore di qualità imprescindibile della nostra democrazia e della nostra Costituzione,
perché ogni ostacolo sia rimosso e superato nella nostra vita sociale.

Articolo 1
1. Al fine di colmare il divario retributivo tra i sessi, le imprese e le organizzazioni sono
tenute a garantire la trasparenza e la pubblicità della composizione e della struttura
salariale della remunerazione dei propri dipendenti, avendo cura di non indicare alcun
elemento identificativo personale, salva la appartenenza di genere, secondo quanto
previsto al successivo articolo 2.
Articolo 2
1. Il Governo, entro tre mesi dall’entrata in vigore della presente legge, adotta uno o più
decreti legislativi con cui definisce:
A) le modalità per assicurare la trasparenza e la pubblicità della composizione e della
struttura salariale della remunerazione dei dipendenti;
B) le sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza e pubblicità di cui
all’articolo 1 e delle modalità per assicurarne il rispetto.
2. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, lettera A), il Governo si attiene ai
seguenti principi e criteri direttivi:
a) assicurare il rispetto della normativa sulla privacy, escludendo in ogni caso la
presenza di qualunque dato anagrafico diverso dalla appartenenza di genere;
b) prevedere la chiara identificazione della appartenenza di genere;
c) prevedere la chiara identificazione della composizione e della struttura salariale;
d) assicurare che ciascun lavoratore conosca, senza dovere presentare richiesta, la
retribuzione e ogni altra forma di remunerazione, compresi i bonus, di tutti i lavoratori
dipendenti della medesima impresa o organizzazione;
e) assicurare che ciascun lavoratore possa consultare, senza dovere presentare richiesta,
per un periodo di almeno sessanta mesi, la retribuzione e ogni altra forma di
remunerazione, compresi i bonus, di tutti i lavoratori dipendenti della medesima
impresa o organizzazione;
f) assicurare che le prerogative di cui alle lettere d) ed e) siano assicurate anche alle
associazioni sindacali;
g) assicurare che le imprese con almeno cinquanta dipendenti informino regolarmente i
dipendenti, i rappresentanti dei lavoratori e le parti sociali sulla retribuzione media per
categoria di dipendente o posizione, ripartita per genere;
h) assicurare che le imprese e le organizzazioni con almeno duecentocinquanta
dipendenti svolgano audit salariali da mettere a disposizione dei rappresentanti dei
lavoratori e delle parti sociali.
3. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, lettera B), il Governo si attiene ai
seguenti principi e criteri direttivi:
a) prevedere sanzioni amministrative adeguate e ragionevoli per il caso di mancato
adempimento all’obbligo di rendere pubbliche le retribuzioni e ogni altra forma di
remunerazione;
b) prevedere sanzioni amministrative adeguate e ragionevoli per i casi di mancato
rispetto delle modalità previste per assicurare le forme di trasparenza e di pubblicità di
cui alla presente legge e ai decreti delegati emanati in base alla stessa;
c) prevedere un progressivo aumento della sanzione per il caso in cui le violazioni di cui
alle lettere a) e b) del presente comma risultino gravi e reiterate.
Art. 3
La presente legge entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale”.

diritti, Donne e Uomini, economics, Politica Gennaio 26, 2015

Il moderato Tsipras. E Simone Weil

Il ragazzo Alexis Tsipras, futuro premier greco

Solo una piccola nota nel gran fiume di parole che oggi troverete a commento del trionfo politico di Alexis Tsipras.

Un piccolo rovesciamento di prospettiva, se si può. Per dire che estremista, forse, è il profitto immateriale finanziario che continua a credere di poter prescindere dall’economia reale e dalle necessità dei viventi, dal fatto che nel nostro continente un numero di cittadini che equivale alla popolazione di un paio di nazioni medie messe insieme sta vivendo sotto la soglia di povertà, mentre pochissimi se la godono -o almeno, così credono- accumulando ricchezze oltre la portata umana.

Non poteva continuare così, era nelle cose che qualcosa capitasse a invertire la rotta, e questo qualcosa potrebbe essere capitato in Grecia: del resto Paul Valery diceva che il Mediterraneo è un dispositivo che fabbrica civiltà, e forse andrà così anche questa volta.

Cosicché questo signore borghese, ingegnere, già giovane no-global con codino, che come primissima dichiarazione d’intenti invoca giustizia sociale e si dichiara “pronto a negoziare con le istituzioni europee”, mi appare un vero moderato, nel senso di considerare l’inaggirabilità e la convenienza dei limiti, con l’intento di provare a rimettere le cose nel loro giusto ordine: l’umanità e i suoi bisogni, prima di tutto.

In “La prima radice. Preludio alla dichiarazione dei doveri verso la creatura umana”, lunga riflessione su come uscire dalle rovine della guerra, Simone Weil indica come punto di partenza della politica le esigenze umane persistenti, esigenze ad un tempo materiali e spirituali.

Chissà se a Tsipras è mai capitato tra le mani quel libro di sapienza femminile -difficile, per un maschio ingegnere…- che qualcuno ha definito “un testo di sopravvivenza e insieme un manuale di cittadinanza per l’alba di una nuova umanità”. Leggiamolo o rileggiamolo noi per capire come lasciarci alle spalle “il cumulo delle rovine che sale… al cielo” (e questo è Walter Benjamin).

Buona giornata, Grecia.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, Politica Dicembre 23, 2014

Podemos (Spagna), Syriza (Grecia) e noi: farsi guidare dall’Angelo

Angelus Novus di Paul Klee

Podemos, organizzazione politica guidata dal professore universitario Pablo Iglesias e cresciuta tumultuosamente in pochi mesi, diretta filiazione degli Indignados, ai sondaggi risulta il primo partito in Spagna: se si votasse oggi si mangerebbe Pp e Psoe. “Sappiamo che sarà difficile, però non abbiamo paura. La paura ce l’ha JP Morgan”: questo per dire che tipetto è il professore con il codino. Intanto se si andrà alle urne in Grecia  Syriza di Alexis Tsipras potrebbe vincere e dare un forte impulso all’idea di un’Europa dei cittadini contro l’Europa della Finanza, per la fine delle poli­ti­che di auste­rità, l’abrogazione del fiscal com­pact, un piano euro­peo per il lavoro e la sal­va­guar­dia dell’ambiente.

Crisi, corruzione, disuguaglianze, disastri causati dalle politiche di austerità e dal neoliberismo hanno prodotto nei Paesi a rischio default un bacino politico a cui in Italia attinge principalmente il M5S. Con la differenza sostanziale che i grillini occhieggiano senza problemi alla destra populista di Farage e si sono incastrati in uno sterile “anticasta” e anti-Europa.

La forza di Syriza e Podemos è l’inevitabilità del progetto politico che rappresentano. L’opportunità è quella di poter significare il vero nuovo, il famoso “cambio di paradigma”, a patto di cambiare anche il paradigma della sinistra, di non lasciarsi frenare e trascinare indietro da slogan consunti, da antiche soluzioni, dall’ambizione di vecchi politici, prevalentemente maschi, ansiosi di ricollocarsi. Lo diceva perfettamente Alex Langer trent’anni fa: “né di destra, né di sinistra, ma avanti”, problematizzando i concetti di conservazione di progresso, e dirlo allora suonava scandaloso e perfino un po’ pericoloso. Il suo pensiero oggi è in buona parte rappresentato dai programmi politici di Iglesias e Tsipras.

Per quanto riguarda l’Italia, l’alternativa “terza” è ancora tutta da costruire, e i principali ma non unici interlocutori potrebbero essere una parte del M5S e una parte del Pd. Aiuterebbe rimettersi a studiare Langer, che diceva cose così:  che una delle “urgenti ragioni per ripensare a fondo la questione dello sviluppo… è la perdita di qualità di vita e di autonomia delle persone e delle comunità, anche nelle fortezze dello sviluppo”.

Che “Il piccolo potere è il potere del “consumatore… Qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare e vivere un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria”.

Che parlava della necessità di una “traversata da una civiltà impregnata della gara per superare i limiti a una civiltà dell’autolimitazione”, invitando a crescere in umanità. Che profetizzava l’inevitabilità del “perdersi per ritrovarsi…”. Ebbene, per perdersi ci siamo persi. Si tratta ora di ritrovarsi.

Qualcuno definì Alex come Angelus Novus: e allora lasciatemi citare anche Walter Benjamin, secondo il quale Angelus Novus è un angelo che “non può resistere alla tempesta che lo spinge irresistibilmente nel futuro, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Quello che chiamiamo progresso è questa tempesta”.

Si tratta di lasciarsi guidare da questo angelo, che non è uomo né donna, ma annuncia l’umanità possibile. Di abbandonare le rovine, anche le proprie: un’idea pavloviana si sinistra, con le sue parole d’ordine inutilizzabili, i suoi rituali consumati, le sue logiche inservibili, i suoi manierismi estremistici, la volgarità dei suoi laicismi, le sue barbe e le sue maschere. Si tratta di mettere al centro la “natura” sacrificata, il femminile del mondo, la mitezza, la pace e la cura di tutto ciò che è piccolo e dipende da noi, e di garantire a ciascuno ciò di cui ha bisogno per una buona vita, che è molto più dell’uguaglianza.

Si tratta, come qualcuno disse di Alex, di provare a “piantare la carità nella politica”.

E Buon Natale.

 

 

economics, lavoro Dicembre 17, 2014

Non ti pago-non ti pago: l’amaro destino del lavoro intellettuale in Italia

Una volta mi chiama l’Ordine dei Commercialisti (ricca categoria) di una città ricchissima. Mi chiedono di coordinargli un convegno: la mia passione per la commercialistica è nota, ma due euri fanno sempre comodo. Faccio presente che la coordinazione di un convegno significa una certa quantità di lavoro preliminare -studio della materia, riunioni e quant’altro- oltre all’impegno per la giornata. Gli dico: a quanto ammonterebbe la mia spettanza? Gelo dall’altra parte del filo: “Ma… veramente… scusi… in che senso”. “Il mio gettone. Il mio cachet”. “Ah! Capisco. Non avevamo pensato che… insomma credevamo…”. Credevano che io, onoratissima per l’incarico, e non avendo nient’altro da fare, mi sarei fiondata pagandomi anche il viaggio. (più sentiti).

Un’altra volta, invece, in cui sono cascata. Università Bocconi, anche qui ente notoriamente poverissimo, gente a cui dei soldi non importa nulla. Convegno sul tema: paternità e top manager, una cosa così. Anche lì: telefonate, riunioni in loco, preparazione delle interviste. € 0,00. Faccio garbatamente presente, mi guardano come un ultracorpo venusiano. Ormai era fatta. Non mi beccano più.

Per cose “militanti”, politiche, femministiche e umanitarie chiedo solo viaggio e alloggio, e spesso nemmeno quello: sono le mie passioni, sono il mio impegno, il mio volontariato, e anche il mio piacere, ci mancherebbe altro. Presento anche libri e film, non sempre volentieri, i più gentili ricambiano con un mazzo di gladioli. E va be’. Ma non mi è chiaro per quale ragione dovrei erogare tempo e lavoro gratuito per ordini professionali con le casse pienissime -l’ho fatto tante volte, sob-, case editrici e cinematografiche, istituzioni, enti locali etc etc.

Anzi, mi è chiarissimo: si pretende, in Italia, che il lavoro intellettuale (o immateriale, o della conoscenza) sia gratuito. Un fatto dello spirito, mai della carne: benché anche certe prestazioni dei sacerdoti, mi pare, abbiano i loro bei tariffari. Se chiami un idraulico gli paghi anche il semplice sguardo alla tubatura. Ma se per esempio ti invitano in tv, a meno che tu non sia un’opinionista di altissimo livello tipo Valeria Marini, puoi dover colluttare perché ti rimborsino almeno il taxi. Con onorevoli eccezioni: superstar borderline tra giornalismo e showbitz, ma anche formatori-formati all’uopo e last minute (vanno fortissimo le formatrici sulla violenza sessista e sulla parità di genere: un business niente male). Ma normalmente il lavoro intellettuale in questo Paese non si paga, o si paga pochissimo. La remunerazione è inversamente proporzionale alla quantità di idee. Quando basta che tu vada in Spagna, come mi è capitato -la Spagna della grande crisi, dico, che mi ha chiamato qualche volta per parlare nelle Università- e per quanto a fatica il tuo impegno viene remunerato.

Insomma, il lavoro intellettuale è come il lavoro di cura: invisibile, gratuito e scontato. Ma senza l’uno come senza l’altro in questo Paese crollerebbe anche quel poco che sta ancora in piedi. Nelle idee di oggi -materia prima del lavoro intellettuale- c’è l’embrione della grande parte del lavoro di domani.

Lavoratori dell’intelletto e casalinghe, unitevi!

p.s: ricordo qui l’insuperata campagna #coglioneno