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diritti, Donne e Uomini, economics, Politica Gennaio 26, 2015

Il moderato Tsipras. E Simone Weil

Il ragazzo Alexis Tsipras, futuro premier greco

Solo una piccola nota nel gran fiume di parole che oggi troverete a commento del trionfo politico di Alexis Tsipras.

Un piccolo rovesciamento di prospettiva, se si può. Per dire che estremista, forse, è il profitto immateriale finanziario che continua a credere di poter prescindere dall’economia reale e dalle necessità dei viventi, dal fatto che nel nostro continente un numero di cittadini che equivale alla popolazione di un paio di nazioni medie messe insieme sta vivendo sotto la soglia di povertà, mentre pochissimi se la godono -o almeno, così credono- accumulando ricchezze oltre la portata umana.

Non poteva continuare così, era nelle cose che qualcosa capitasse a invertire la rotta, e questo qualcosa potrebbe essere capitato in Grecia: del resto Paul Valery diceva che il Mediterraneo è un dispositivo che fabbrica civiltà, e forse andrà così anche questa volta.

Cosicché questo signore borghese, ingegnere, già giovane no-global con codino, che come primissima dichiarazione d’intenti invoca giustizia sociale e si dichiara “pronto a negoziare con le istituzioni europee”, mi appare un vero moderato, nel senso di considerare l’inaggirabilità e la convenienza dei limiti, con l’intento di provare a rimettere le cose nel loro giusto ordine: l’umanità e i suoi bisogni, prima di tutto.

In “La prima radice. Preludio alla dichiarazione dei doveri verso la creatura umana”, lunga riflessione su come uscire dalle rovine della guerra, Simone Weil indica come punto di partenza della politica le esigenze umane persistenti, esigenze ad un tempo materiali e spirituali.

Chissà se a Tsipras è mai capitato tra le mani quel libro di sapienza femminile -difficile, per un maschio ingegnere…- che qualcuno ha definito “un testo di sopravvivenza e insieme un manuale di cittadinanza per l’alba di una nuova umanità”. Leggiamolo o rileggiamolo noi per capire come lasciarci alle spalle “il cumulo delle rovine che sale… al cielo” (e questo è Walter Benjamin).

Buona giornata, Grecia.

diritti, Donne e Uomini, Femminismo, questione maschile Gennaio 6, 2015

Noi donne occidentali e la minaccia islamista alla libertà femminile

Per i “progressisti”, chiamiamoli così, è molto difficile criticare l’Islam: anche solo ammettere che costringere le donne a nascondere il loro corpo, del tutto o in parte, per non eccitare gli uomini è una pratica profondamente misogina. Ci sarà sempre qualcuno e anche qualcuna che ti riconduce all’ordine dicendoti che quelle sono usanze e vanno rispettate. Importa molto meno che quelle “usanze”, e altre anche più violente, come i matrimoni combinati, la poligamia, le spose bambine, o peggio, hanno come comun denominatore una gravissima limitazione della libertà di creature nate libere come tu stessa pretendi di essere.

Un altro argomento è che quegli usi brutali non appartengono all’Islam, ma alla cultura arcaica e tribale di quei popoli, e che usi e costumi simili fanno parte del nostro passato: resta però il fatto che la grande parte dell’Islam non si oppone a quei costumi e anzi, a quanto pare, la cosiddetta islamizzazione va di pari passo con l’imposizione di quegli usi, la maggioranza dei quali ha a che vedere con la limitazione della libertà femminile. Un’esigua minoranza dell’Islam legge e rilegge i testi per trovarvi fondamenti di libertà a vantaggio delle donne e di tutti, ma a giudicare da come stanno andando le cose l’operazione non sta dando i risultati sperati. La morsa dell’Islam fondamentalista è sempre più feroce, sempre più vicina, e forse sarebbe il momento di cambiare strategia.

Altro argomento ricorrente è che quelle donne scelgono liberamente di velarsi, di vivere segregate o altro: qui l’ipocrisia è lampante. Diciamo piuttosto che quelle donne scelgono di vivere, o almeno di sopravvivere. L’unica alternativa alle condizioni imposte sarebbe la fuga –le più ricche spesso riescono a espatriare- oppure la morte, quanto meno la morte civile.

Il nuovo romanzo di Michel Houellebecq, “Sottomissione” (in libreria per Bompiani il prossimo 15 gennaio) parla della Francia del prossimo decennio, con un presidente musulmano, l’Islam che ha trionfato sull’Illuminismo, le donne che rinunciano all’emancipazione, l’introduzione della poligamia: la perdita di libertà delle donne è il perno del cambiamento. Un’Europa debole e sfinita che ha ceduto alla forza di quel credo. La destra, a cui Michel Houellebecq fa riferimento, ha costruito da tempo una narrazione piuttosto dura ma inequivoca contro l’islamizzazione: i musulmani sono nemici che vanno combattuti,  in caso diverso soccomberemo. La narrazione della sinistra è più incerta e di maniera: dialogo con l’Islam moderato, tolleranza, convivenza. Ai confini con l’indifferenza. Il monopolio della critica è ceduto alla destra. Una political correctness che secondo intellettuali femministe musulmane come Irshad Manji e Ayaan Hirsi Ali (tra l’altro cofirmatarie del Manifesto dei dodici che parla dell’islamismo come di un nuovo totalitarismo) l’Islam fondamentalista legge come debolezza. Ma la maggioranza delle femministe occidentali, legate storicamente e culturalmente ai movimenti di sinistra, condivide questa impostazione dialogante e tollerante. E parlando di quelle donne maltrattate, vessate e segregate, osserva che tocca a loro decidere di lottare in prima persona per la propria libertà.

In questo atteggiamento del femminismo occidentale io vedo un notevole grado di ignavia “borghese”, una ritrosia culturale e politica a fronte di problemi di difficilissima soluzione. Vero che io non posso sostituirmi a un’altra nella sua ricerca di libertà, anche quando sento tutta la sua sofferenza, ma in questo silenzio di grande parte del femminismo io vedo un problema per la mia stessa libertà. Non posso più a lungo tacere –in verità non ho mai taciuto- di fronte alla violenza misogina di una cultura con cui mi tocca convivere in modo sempre più stretto. Non posso non constatare che questa “tolleranza”, questo “rispetto” e questo silenzio non stanno impedendo l’islamizzazione di aree sempre più vaste del mondo. Accanto alla sofferenza di quelle donne io ci vivo, nel mio quartiere.

La prima cosa che farei, quindi, è rompere il silenzio “tollerante-indifferente”, guardare in faccia la realtà, nominare la misoginia di quella cultura, riconoscere questa misoginia come costitutiva dell’islamismo e non come un fatto occasionale o collaterale. Vorrei poterlo fare senza che ciò significhi necessariamente ed automaticamente una difesa acritica e compatta dell’Occidente e delle sue magnifiche sorti e progressive: e tuttavia risposte tipo “anche noi abbiamo i nostri problemi” o “è colpa nostra se le cose stanno andando così” mi sembrano solo un modo per poter permanere indisturbate nell’ignavia.

Ho molto bisogno di parlarne con altre. Ho bisogno di capire che cosa sia giusto dire e fare.

Spero ci siano presto le occasioni, che finora sono state davvero poche.

 

ultim’ora: l’attentato a Charlie Hebdo, 11 settembre di Parigi, mi fa sentire Cassandra

 

 

 

Corpo-anima, diritti, Femminismo, salute Novembre 28, 2014

Policlinico Roma: niente più aborti causa obiezione. Ecco una proposta per uscirne. Ma serve la lotta di tutte

Il cartello affisso al Policlinico di Roma

Policlinico Umberto I, Roma. L’ultimo non obiettore è andato in pensione. Il servizio Ivg è sospeso.

Non è il primo caso nè l’unico di “obiezione di struttura” in Italia. Ma il Policlinico è il più grande ospedale di Roma. Ora la direzione sanitaria sta cercando «un giovane ricercatore o associato da destinare all’attività assistenziale». Al netto delle responsabilità sul singolo caso, che devono essere accertate (direttore generale, direttore sanitario e di presidio, fino al ministero per la Salute), il caso del Policlinico è solo la punta di un iceberg: in Lazio l’obiezione di coscienza è al 90 per cento e costringe le utenti a migrare in altre regioni, l’obiezione media in Italia supera ampiamente il 70 per cento, con intere regioni sostanzialmente scoperte.

A quanto pare, e nonostante il Consiglio d’Europa pochi mesi orsono abbia condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne”, il governo Renzi non intende affrontare la questione. La logica -del tutto insensata- è che se la 194 non sarà più applicata, non vi saranno più aborti. La non applicazione della legge garantisce invece solo una crescita esponenziale degli aborti clandestini e fai-da-te (il moderno prezzemolo sono i farmaci antiulcera), con gravissimo rischio per la vita delle donne.

Molte e molti indicano come soluzione la proibizione dell’obiezione. Ma questa strada non è praticabile, e scatenerebbe raffiche di ricorsi. L’obiezione di coscienza -che si spieghi con effettive ragioni di coscienza o che sia solo opportunistica- è un diritto sancito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale, oltre che dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”.
Ma la Corte di Strasburgo afferma che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

La soluzione, quindi, non può essere il divieto di obiezione. C’è un’altra strada che merita di essere considerata, e sostenuta con la lotta: che ogni reparto di ostetricia preveda il 50 per cento di medici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico, e consenta così la rotazione del personale medico e paramedico.

Questa soluzione si fonderebbe su almeno due sentenze: una sentenza del TAR PUGLIA (14/09/2010, n. 3477, sez. II) afferma infatti che “ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50% per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50% per medici specialisti obiettori”; un’altra sentenza del TAR dell’Emilia Romagna  (sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss), sostiene “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

L’alternativa è solo la depenalizzazione dell’aborto, ipotesi che negli anni Settanta fu sostenuta solo da una minoranza del movimento delle donne. In sostanza: non sia lo Stato a occuparsi della questione, si consenta al privato di praticare interruzioni di gravidanza (con le indispensabili garanzie igienico-sanitarie) senza che questo costituisca reato. La 194 invece stabilì che l’aborto non è perseguibile come reato unicamente se praticato nelle strutture pubbliche.

Una cosa è certa: qualunque sia la soluzione individuata contro la non applicazione della 194, senza una lotta massiccia e diffusa delle donne di questo Paese non si arriverà da nessuna parte.

 

diritti, esperienze, Politica, scuola Novembre 16, 2014

Omosessualità: la Chiesa cominci da se stessa

Dopo il caso della lettera della Diocesi di Milano che, nei fatti, sembrava invitare i prof di religione a collaborare alla “schedatura” delle scuole troppo liberal in tema di omosessualità, l’arcivescovo Angelo Scola corregge il tiro, ribadendo le scuse della Curia«per l’inappropriatezza del linguaggio» e sottolineando che l’intento era solo quello di conoscere la situazione: «Una posizione non omofoba, ma da cui non intendiamo recedere di un millimetro, come giusto in una società democratica. Noi abbiamo qualcosa da dire circa le conseguenze sociali e la questione dei diritti connessi a questo orientamento sessuale“. Scola ha ammesso che «La Chiesa è stata lenta sulla questione omosessuale“, e che si tratta oggi di aiutare “i 6 mila professori di religione della Diocesi a proporre la nostra visione di problemi come quello dell’educazione sessuale” nel rispetto del Concordato.

Non sono affatto tra coloro che chiedono alla Chiesa di ritirarsi da questo territorio, dalla politica e dal mondo. Su svariati temi, come la fecondazione assistita, sono più grata ai dubbi della Chiesa che alle certezze del laicismo liberistico (laicismo, non laicità).

Mi piacerebbe semmai che si osasse di più. Perché è vero che la Chiesa ha molto da dire in tema di omosessualità, ed è vero anche per il fatto che nella Chiesa ci sono molti omosessuali. Non si tratta, quindi, di guardare fuori da sé. Si tratta semmai di intraprendere una riflessione efficace proprio a partire da sé -come insegna il pensiero femminile della differenza-, assumendo la posizione autocosciente dell’osservatore che si osserva.

Non è provocazione, né gossip: dico solo che la percentuale di persone omosessuali all’interno della Chiesa è notevole, con ogni probabilità superiore a quella del “mondo fuori”. Sono molti i religiosi omosessuali, e chiunque frequenti la Chiesa ne ha esperienza. Ci si potrebbe forse spingere a dire che la Chiesa è la più omosessuale tra le nostre istituzioni, verosimilmente seguita dall’esercito. La Chiesa, quindi, non dovrebbe “saltarsi”, nel suo processo di conoscenza. Non può tenersi fuori dal campo di osservazione. Semmai, dovrebbe porre se stessa al centro di ogni indagine e interrogazione, conferendo in questo modo il massimo di verità al proprio intento conoscitivo ed educativo.

Diversamente sarà buon gioco dei suoi critici e dei suoi nemici stigmatizzare come ipocrite e negazionistiche le sue iniziative a riguardo.

 

 

 

AMARE GLI ALTRI, bambini, Corpo-anima, diritti Ottobre 7, 2014

Perché ho dato i miei ovociti: parla una donatrice

Anna ha 32 anni, vive in Sicilia, è laureata in Scienze Politiche e lavora in una società finanziaria. Soffre di policistosi ovarica, e ha messo al mondo due gemellini con fecondazione assistita. Dalla stimolazione ovarica a cui si è sottoposta sono “avanzati” 11 ovociti congelati. Dopo averne parlato con suo marito, Anna ha deciso di donare i suoi ovociti: 6  a coppie con problemi di infertilità, 5 alla ricerca.

La interrogo sulla sua esperienza. Il tono di Anna è piuttosto infervorato:

 

“E’ stata una scelta di civiltà. L’ho fatto per il mio Paese, non sopporto che si debba andare all’estero per una donazione di ovociti o di seme. Un giorno potrebbe capitare anche ai miei figli. Bisogna passarci per capire che cos’è”.

Come è arrivata alla decisione?

“Avevo questi ovociti congelati, ne ho discusso con mio marito. Abbiamo deciso di donarli e mi sono rivolta a un centro per la fecondazione assistita”.

Gli ovociti sono già stati utilizzati?

“Ancora no”.

Come la sta vivendo?

“In modo del tutto sereno. Solo chi conosce il problema può comprendere. Gli altri magari lo capiscono di testa, ma è un’altra cosa, mi creda”.

Il resto della famiglia è a conoscenza del suo dono?

“I miei sì, e sono d’accordo. Poi magari ci sono zie e cugini che restano perplessi”.

Non è semplice come donare il sangue…

“Ovvio che ci sia qualche difficoltà, ma è solo questione di mentalità. Se posso aiutare una coppia perché non dovrei farlo? Avendo una policistosi ovarica la stimolazione mi ha fatto produrre molti ovociti. Non ho dimenticato nulla del mio percorso. Lì sì che è stata dura, non la donazione”.

Ha sofferto molto?

“15 giorni ricoverata con flebo di albumina. Non potevo camminare. Avevo liquido nell’addome che arrivava fino ai polmoni. Un calvario. Non capita sempre così con le stimolazioni ovariche. A me è successo per la mia patologia. Non voglio che altre soffrano come ho sofferto io”.

Secondo lei è possibile che qualcuna decida di sottoporsi a stimolazione ovarica all’unico scopo di donare i suoi ovociti?

“Molto difficile, credo. Ci saranno anche donne che lo fanno, ma ci vuole una grande motivazione, una grande consapevolezza. Più facile che le donazioni avvengano quando ci sono ovociti in più, come nel mio caso”.

Che effetto le fa l’idea di avere al mondo figli genetici che non incontrerà mai?

“Nessun effetto. Non ci penso affatto. L’unica speranza è che chi utilizzerà i miei ovociti lo faccia in piena consapevolezza, e voglia bene a quel bambino. La genetica non ha niente a che vedere con i sentimenti“.

Mi pare un’affermazione categorica. Per altri non è così.

Non penso a quei bambini come a miei figli e come a fratelli dei miei gemellini. Sono figli di chi li chiamerà al mondo”.

La sua donazione è anonima, la legge italiana dispone così. Ma se un giorno uno di quei bambini manifestasse il desiderio di conoscerla?

“Non so. Da un lato potrei essere incuriosita. Ma dall’altro non vedo la necessità di questo incontro”.

A quanto pare la vedono molti nati da eterologa. Proprio in seguito ai loro ricorsi le legislazioni di molti paesi sono passate dall’anonimato al non anonimato.

“Sinceramente non mi sono posta il problema. Ho pensato ai bisogni della coppia, non ai bambini“.

Il fatto è proprio qui. Le leggi e le convenzioni internazionali convergono sul superiore diritto del minore. Al centro dovrebbero stare i suoi bisogni, non quelli della coppia.

“Bisogna passarci per sapere cos’è, non riuscire ad avere un figlio”.

Immagino sia una grande frustrazione e un grande dolore. Ma i diritti di chi viene chiamato al mondo vengono prima di tutto.

“Ma se si può fare qualcosa per aiutare queste coppie perché non si dovrebbe?”.

Glielo diranno, quando utilizzeranno i suoi ovociti?

“Sì. Ho chiesto anche di essere informata sul decorso dell’eventuale gravidanza, e di sapere quando il bambino nasce“.

Perché?

“Per curiosità. Mi interesserebbe saperlo”.

Pensa che proverà qualche emozione?

“Felicità per la donna, per il fatto di essere riuscita ad aiutarla”.

E per il bambino?

“No, non credo. L’unica cosa che conta è che sia amato“.

 

(grazie ad Aidagg, associazione di donatori di gameti, per il contatto con Anna)

 

 

bambini, diritti, Donne e Uomini, Politica, scuola Settembre 12, 2014

Una-dieci-cento eterologhe: ogni regione a modo suo

Non sarà il Far West, ma in tema di fecondazione eterologa la confusione è totale.

Se in Toscana per essere sottoposti a un ciclo di trattamento (raramente ne basta uno) si pagherà un ticket di 500 euro, in Emilia la prestazione sarà gratuita, mentre in Lombardia sarà la coppia a dover sostenere interamente la spesa, intorno ai 3 mila euro.

Inoltre le coppie lombarde (eterosessuali) che richiederanno la prestazione dovranno dimostrare con certificazione medica che almeno uno dei due è affetto da “sterilità irreversibile” (perfettamente dimostrabile solo per una minoranza dei richiedenti).

Ergo: una coppia lombarda non avrà gli stessi diritti di una coppia emiliana o toscana. Si sta riproponendo quindi a livello regionale quell’ “ingiustificato, diverso trattamento delle coppie affette dalla più grave patologia, in base alla capacità economica” stigmatizzato dall’ultima sentenza della Consulta sulla legge 40, che aveva giudicato inammissibile il divieto di fecondazione eterologa anche in base alla discriminazione tra coppie che potevano permettersi il turismo procreativo fuori Italia e coppie che non avevano questa possibilità. Sulla base di ciò, non si possono escludere nuovi ricorsi (il legislatore lombardo non ci ha pensato?).

Il tutto reso ancora più surreale dal fatto che donatori di gameti non ce ne sono, quindi la discussione al momento resta quasi solo teorica.

Insomma, un caos assoluto. Che prelude a una ripresa del turismo procreativo (anche solo interregionale) e a nuove battaglie legali, in attesa di una normativa nazionale unica.

bambini, diritti, Politica, Senza categoria Agosto 31, 2014

La giustizia è lenta. Ma sui diritti corre più della politica

Giusto, una riforma della giustizia. Con l’alto costo dell’energia e l’orrore della burocrazia, le lungaggini giudiziarie sono uno tra i principali disincentivi agli investimenti nel nostro Paese.

Ma se  la lentezza dei tribunali ci blocca, sul fronte dei diritti civili le aule di giustizia oggi fanno da locomotiva: fecondazione eterologa, trascrizione – in alcuni comuni- dei matrimoni omosessuali celebrati all’estero. E ora stepchild adoption, ovvero l’adozione del figlio del partner, anche per le coppie omosessuali: in una coppia in cui uno dei due abbia un figlio naturale, l’altro può adottarlo, diventandone genitore a tutti gli effetti. Il Tribunale per i Minorenni di Roma ha riconosciuto questo diritto a una coppia di donne: la compagna della madre biologica di una bimba di 5 anni, che vive insieme a entrambe, potrà adottarla e diventare a sua volta genitore della piccola.

Il Tribunale ha sentenziato sulla base dell’articolo 44 della legge sull’adozione del 4 maggio 1983, n. 184, modificata dalla legge 149 del 2001, che prevede l’adozione in casi particolari nel superiore interesse del minore a mantenere anche formalmente con il genitore “sociale” il rapporto affettivo e di convivenza già positivamente consolidatosi nel tempo. L’eventuale separazione delle due donne, quindi, o la scomparsa della madre biologica, non pregiudirebbe il rapporto tra la bambina e la madre adottiva, garantendo la potestà genitoriale e la continuità affettiva.

Mentre i Tribunali corrono, Governo e Parlamento sembrano aver messo nel cassetto il tema dei diritti, dalle coppie di fatto alla legge 194 al testamento biologico, fino alla frenata sull’eterologa. Riforme che non avrebbero necessità di investimenti, o quanto meno non prioritariamente, ma non vengono mai calendarizzate. I Tribunali -compresi quelli europei- suppliscono con le loro sentenze, venendo incontro a bisogni reali che la politica sembra non voler considerare.

Ma la strada non può essere questa: quella di una giustizia che in materia di diritti va più veloce della politica, procedendo a colpi di sentenze. Questo non è il mestiere dei tribunali. Questo sarebbe il mestiere del Parlamento e del governo.

Corrispettivamente, la latitanza del legislatore e del governo sui diritti rende imperfetto quel cammino di rinnovamento del Paese che il nostro giovane premier intende rappresentare.

diritti, Donne e Uomini, salute Agosto 28, 2014

Aborto: il Governo non può fare obiezione di coscienza

La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta sul caso di alcune ragazze ecuadoriane tra i 17 e 29 anni che hanno abortito assumendo Cytotec, un farmaco antiulcera.
Il farmaco, che provoca forti contrazioni uterine e può causare gravissime emorragie, è stato spacciato loro da due connazionali “guaritori”. Un altro filone di inchiesta riguarda alcune prostitute costrette dai protettori ad abortire con Cytotec. Le donne coinvolte potrebbero ricevere un avviso di garanzia per violazione della legge 194.
Le indagini della Procura sono scattate in seguito a segnalazione dell’ospedale di Lavagna: una giovane donna che in poco più di un anno si è presentata 14 volte al pronto soccorso con emorragie, subendo 4 aborti “spontanei” accertati. A quanto pare la ragazza ha assunto il farmaco come contraccettivo-abortivo. Insomma, “random”, in modo del tutto casuale, sia che fosse effettivamente incinta sia che non lo fosse.

Il Misoprostolo (commercializzato come Cytotec, Artrotec, Misodex, Misofenac) si acquista facilmente online, da farmacisti compiacenti, nei luoghi di spaccio. Esistono siti che spiegano le modalità d’uso. Il Ministero della Sanità stima intorno ai 40.000 casi le interruzioni clandestine, ma si tratta di stima in difetto: come dimostrano i casi genovesi, è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei” e sono quasi 200 i procedimenti penali aperti per violazione della legge 194. Dei 150 mila aborti spontanei verificatisi nel 2011 almeno un terzo –secondo lo stesso Ministero per la Salute- è attribuibile al “fai da te”.

Paradossalmente, l’aborto chimico “fai da te” con Misoprostolo può costituire un’alternativa meno rischiosa di altre -aborto con uso di ferri e altri mezzi, con pericolo di perforazione uterina, o praticato da terzi senza le necessarie garanzie igienico-sanitarie- in quei Paesi in cui l’interruzione di gravidanza non è legale. E’ invece senz’altro un pericolosissimo passo indietro in Paesi, come l’Italia, in cui la legge garantisce -o dovrebbe garantire- l’Ivg gratuita e assistita. Ma a causa della massiccia obiezione di coscienza del personale medico e paramedico (una media del 70 per cento, con punte fino al 90 per cento in Campania e oltre l’80 per cento in Lazio, Molise, Sicilia, Veneto e Puglia, e interi ospedali che non garantiscono il servizio: obiezione di struttura), la legge 194 è larghissimamente inapplicata. Violazione che nel marzo scorso ci è costata una condanna del Consiglio d’Europa.

Chi può si rivolge al privato: per esempio,delle 3776 IVG effettuate nell’ASL di Bari nel 2011, il 70 per cento è stato praticato in case di cura convenzionate, 3.000.0000 di euro nelle casse del privato in cui l’obiezione è poco significativa. Per chi non può c’è il fai da te. In tutti i casi, impedire a una donna di accedere ad aborto sicuro non le impedisce di abortire, pone soltanto a rischio la sua salute. Non poter abortire in ospedale non fa diminuire il numero degli aborti.

L’obiezione di coscienza non salva i bambini, ma rischia di far morire le donne.

Non è più rinviabile un intervento del Ministero per la Salute, che risponda al Consiglio d’Europa e garantisca l’applicazione di questa legge dello Stato. Al Governo non è consentita obiezione di coscienza, fatte salve le legittime convinzioni personali dei suoi membri. La legge 194 c’è e va applicata.

Una possibile soluzione l’abbiamo già indicata, ed è prospettata da una sentenza del Tar Puglia (14/09/2010, n. 3477, sez. II) secondo la quale “è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50 per cento per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50 per cento per medici specialisti obiettori”.
Opzione equa, ragionevole e praticabile che non violerebbe il diritto all’obiezione -garantito dalla Costituzione e dall’Europa- ma consentirebbe la piena applicazione della legge 194. E alle donne di non crepare di aborto.

 

diritti, italia, salute Luglio 31, 2014

#save194: come farla funzionare (nonostante l’obiezione di coscienza)

Come saprete il Consiglio d’Europa ha recentemente condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla 194 del 1978 intendono interrompere la gravidanza”. Al momento nessuno sembra occuparsene, ma la sentenza ci obbliga a trovare una soluzione.

La legge 194 è una buona legge, che ha consentito dagli anni Ottanta una riduzione del 54 per cento delle Ivg. Ma oggi
è sostanzialmente inapplicata a causa delle altissime percentuali di obiezione di coscienza del personale medico e paramedico: 70 per cento con punte fino al 90 in Campania e oltre l’80 in Lazio, Molise, Sicilia, Veneto e Puglia, e interi ospedali che non garantiscono il servizio (obiezione di struttura). Anche l’attività dei Consultori si è fortemente ridotta: diminuisce il numero (per esempio, in Lombardia si è passati dai 335 Consultori del 1997 agli attuali 216) e viene depotenziata la loro azione.

A ciò si accompagna una vivace ripresa di iniziativa del Movimento per la Vita, in Italia e in Europa, oltre al proliferare dei cimiteri dei non-nati, con cerimonie di sepoltura dei prodotti abortivi (è bene ricordare che il diritto di seppellire i feti di qualunque età gestazionale è già garantito da un decreto presidenziale del 1990. Non vi è quindi alcuna necessità, se non ideologica, di istituire cimiteri dedicati).

La massiccia obiezione è causa di un ritorno all’aborto clandestino (il Ministero della Salute stima 40.000 interruzioni clandestine, numero in difetto perché nelle ostetricie è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei”: dei 150 mila aborti spontanei verificatisi nel 2011, almeno un terzo, secondo lo stesso Ministero è attribuibile al “fai da te”, aborti non completi eseguiti in cliniche fuorilegge o provocati con farmaci reperibili sul Web o in farmacie compiacenti).
Altra conseguenza, il turismo abortivo: migrazioni interne, dal Veneto in Emilia Romagna dove la legge funziona meglio, dal Lazio in Toscana, e così via. Cresce anche il business dell’aborto: per esempio, delle 3776 IVG effettuate nell’ASL di Bari nel 2011,  il 70 per cento è stato praticate in case di cura convenzionate. Il DRG per IVG ammonta a una cifra tra i 1100 e 1600 Euro. Questo significa 3.000.0000 di euro nelle casse del privato (dove l’obiezione è poco significativa).

Perché si obietta tanto? Per ragioni di carriera. Per evitare carichi di lavoro economicamente e professionalmente non remunerativi. Per sindrome da burnout: da non obiettore si diventa obiettore per stanchezza e per le difficoltà connesse a un lavoro che ti pone costantemente di fronte a questioni etiche. Per motivazioni religiose, anche se gli obiettori di coscienza poi sono disponibili a effettuare villocentesi e l’amniocentesi, anche in strutture private convenzionate confessionali dove si pratica l’obiezione di struttura. E tutti sappiamo che amniocentesi e villocentesi sono la “conditio sine qua non” dell’aborto terapeutico.

L’obiezione di coscienza è un diritto garantito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale. E’ garantito anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”.
Ma se il diritto alla obiezione deve essere garantito, la Corte di Strasburgo chiarisce che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

Il diritto all’obiezione di coscienza non può quindi essere negato. Questo diritto è garantito dall’art 3 della nostra Costituzione, dall’articolo 9 della 194 e dall’Europa.
Come si fa, allora, a far funzionare la legge? Nemmeno la mobilità del personale è una soluzione. I medici non obiettori sono pochissimi. Costringerli alla mobilità su più strutture significherebbe “condannarli” a eseguire esclusivamente aborti, negando il resto della loro professionalità.
Molte regioni italiane risolvono il problema chiamando medici non obiettori “a gettone” per garantire la 194, retribuendoli in modo cospicuo: ma non si possono fare soldi sulla pelle delle donne.

Che cosa si può fare, allora?
Ogni reparto di ostetricia dovrebbe prevedere il 50 per cento di medici e paramedici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico,consentendo così la rotazione del personale medico e paramedico.

Come si può garantire il 50 per cento di non obiettori?

La strada è tracciata da una sentenza del TAR Puglia (14/09/2010, n. 3477, sez. II) nella quale si afferma che:
“ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50 per cento per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50 per cento per medici specialisti obiettori”.
Opzione equa, ragionevole e praticabile che non si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e consentirebbe la piena applicazione della legge 194.

Il TAR dell’Emilia Romagna ((sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss) chiarisce inoltre che “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

(proposta congegnata insieme a Mercedes Lanzilotta)

bambini, Corpo-anima, diritti, Politica Luglio 29, 2014

#Legge40: no all’anonimato del donatore

1978: i quotidiani britannici annunciano la nascita di Louise Brown, la prima bambina nata “in provetta”

Oggi la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin presenterà in Commissione Affari Sociali della Camera i contenuti di un imminente decreto legge sulla fecondazione medicalmente assistita.

Come saprete c’è un certo caos dopo la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile la fecondazione eterologa, ovvero con donazione di gameti: la stessa Consulta ha chiarito che la sentenza non apre alcun vuoto normativo e che l’eterologa è immediatamente praticabile, ma il Ministero per la Salute frena; sono già in corso gravidanze ottenute con donazioni, Regione Toscana ha già dato autonomamente il via libera. Prima si chiarisce il quadro con linee guida nazionali e meglio sarà.

Sembra certa la conferma dell’anonimato assoluto del donatore, la cui identità deve rimanere segreta. Perfino sulla tracciabilità genetica, ovvero sulla possibilità di accedere ai dati genetici del donatore per ragioni di salute, a quanto pare sarà prevista solo nel caso in cui per il nascituro si ponesse la necessità di un trapianto di midollo. Ma attendiamo di conoscere le proposte.

Sull’anonimato, tuttavia, non dovrebbero esserci sorprese.

Molti fra voi sapranno che su questo punto le legislazioni si dividono. In Svezia e in Gran Bretagna, nazioni pioniere in materia di fecondazione assistita (Louise Brown, la prima “figlia della provetta”, è nata nel 1978 a Oldham, Regno Unito) l’identità del donatore o della donatrice deve essere nota.

L’Human Fertilisation and Embriology Act, stilato nel 1990 nel Regno Unito, è uno dei documenti fondamentali in materia. Il testo originario, che stabiliva l’anonimato del donatore/trice, nel 2005 è stato così implementato:

…any donor who donated sperm, eggs or embryos from that date onwards is, by law, identifiable. Since that date, any person born as a result of donation is entitled to request and receive the donor’s name and last known address, once they reach the age of 18”.

Il diritto del figlio-a essere informato sulle sue origini  è ritenuto quindi prevalente rispetto al diritto del donatore a restare anonimo, nonché della coppia a “cancellare” il donatore. Il superiore diritto del minore è peraltro sancito dall’art. 7.1 della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza che riconosce, appunto, il “diritto […] nella misura possibile, a conoscere i suoi [del bambino] genitori”. Con il termine “genitore” si indicano qui sia il genitore genetico, sia il genitore biologico che partorisce (madre surrogata: attualmente vietata in Italia), sia il genitore psicologico, ossia colei/colui che cresce e si prende cura del minore per un periodo significativo della sua vita.

Il non-anonimato non è “comodo” per nessuno. Né per il donatore, che deve accettare il “rischio” di una relazione con la creatura nata dai suoi gameti (e infatti in Gran Bretagna e in Svezia il numero di donazioni è significativamente basso), né per i genitori, a cui tocca invece il rischio dell’irruzione di un minaccioso “terzo” nella vita del figlio o della figlia a scompaginare il quadro familiare. Ma questo “terzo” esiste, sia che venga nominato, sia che venga “cancellato”, ed esiste in primis nella vita del nascituro. Contro il cui superiore diritto non valgono né gli argomenti di “mercato” (con la notorietà del donatore si ridurrebbe il numero delle donazioni), né il diritto del donatore e dei genitori a non essere “disturbati”, né la salvaguardia dello statuto familiare, che prevede un solo padre e una sola madre.

Tutti i diritti sono secondari a fronte di quello della creatura che chiamiamo al mondo. Per questo sono fermamente a favore del non-anonimato del donatore/trice.

p.s. Detto a latere: sono molto stupita del fatto che si consideri progressista battersi per i diritti di una coppia infertile, anche di età avanzata, che intenda accedere a fecondazione assistita per avere un figlio; mentre battersi perché ragazze e ragazzi non infertili possano dare corso per via naturale al loro desiderio di bambini, riducendo gli ostacoli (la mancanza di lavoro e di servizi, la difficoltà di accesso ai mutui casa, etc.) che impediscono loro di realizzare il progetto genitoriale, e contribuendo a un aumento dei bassissimi livelli di natalità nel nostro Paese, è ritenuta una battaglia conservatrice, genere “figli alla patria”, quando non in odore di reazione.

 

Ultim’ora: sul tema dell’anonimato del donatore Lorenzin rinvia al dibattito parlamentare.