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Archivio Settembre 6, 2008

CELEBRAZIONI

Nella vita, mi scrive Giovanni -buddisticamente- “tutto è impermanente”. E se provassimo viceversa a pensare che “tutto è permanente”? Ovvero che niente va perduto, nessun istante, per ciò che è, nel suo bene e nel suo male. E quindi non deve essere perduto, quindi ogni momento va vissuto e celebrato nel suo potenziale di unicità e di eternità, e mai sprecato? E per celebrarlo intendo dire, etimologicamente, proprio abitarlo, starci dentro. E quindi permanerci.

Certo, ci sono momenti in cui è più facile abitare. L’altro giorno, a Mantova, il bianco splendore di Palazzo Te, o quel magnifico affresco trecentesco che raffigura la città circondata dai suoi laghi. In qui momenti si resta volentieri, ed essi ricambiano restando a lungo con noi a irradiarci. Ci sono momenti invece da cui si vorrebbe solo fuggire, e anzi si può dire che siano molta parte dei momenti, dato come sono messe le nostre vite. E allora lì, sì, non si può che attaccarsi all’impermanenza, alla fiducia che prima o poi passino. E forse invece, con un po’ di allenamento, si può stare anche lì, celebrare anche quelli, cercare il bene che stenta se noi non gli andiamo incontro, se non gli diamo una mano a essere.

O Signore, io predico tanto bene e poi razzolo così male, con tutta l’inquietudine che ho addosso. Ma per esempio scrivere, e poi camminare, camminare, camminare, queste per me sono le palestre in cui mi esercito a celebrare, e ognuno ha certo le sue.

Voglio dire che quest’idea dell’impermanenza mi è sempre sembrata un po’ disumana, e animata da una sostanziale sfiducia. Si può stare fiduciosamente, invece, e celebrare la permanenza e l’eternità di ogni cosa che è, con un po’ di allenamento. E qualcuno a cui poter raccontare quello che viviamo e vediamo.

Archivio Settembre 5, 2008

SI RICOMINCIA!

E così, con la riapertura delle scuole, si ricomincia davvero. La ruota riparte, e noi sopra, tenendoci il cappello con la mano, a tutta velocità. Ricominciamo, più squattrinati di prima, i mutui al loro apice, l’ansia che ci annoda lo stomaco, come diavolo si farà? Quel poco di vacanza già archiviato nella cartella “ricordi”, uno spaesante sentimento di deriva, la montagna del nuovo anno da scalare: ce la faremo?

Facciamoci una promessa, tutti quanti, io e voi: che proveremo ogni giorno a scovare il buono che c’è, certi che ce n’è sempre, e gli staremo attaccati, con determinazione e fiducia, come alla veste di un angelo, per volare insieme a lui. Che al bene apriremo la strada ogni mattina, anzitutto dentro di noi, che gli daremo semore un’opportunità, e lo faremo fiorire, liberandoci dei cattivi sentimenti divoratori di energie.

Facciamoci questa promessa, e poi raccontiamoci come va.

Archivio Agosto 30, 2008

UN FILO DI LUCE

Più che il caldo, l’estate per me è luce. Datemi un raggio di sole e io mi ci piazzerò sotto perpendicolarmente. Al mare, in città, nevrotizzata da ogni nube di passaggio che ne smorzi momentaneamente lo splendore, fuggendo l’ombra come uno spreco inammissibile. Patisco molto agosto, le giornate che si accorciano nonostante la mia strenua resistenza, i nidi lasciati vuoti dalle rondini, la mancanza del loro garrito gioioso, luce impazzita che canta.
Be’, sei depressa, mi direte. Soffri di SAD, Seasonal Affective Disorder. Curati. Comprati una di quelle lampade terapeutiche e piazzatici sotto. Ingurgita un po’ di melatonina, trasferisciti all’Equatore. E finiamola lì.
Come si fa a guadagnare un po’ di luce anche per la lunga teoria di mesi oscuri che ci si prepara davanti? Il crudele colpo di coda del caldo settembrino. L’illusione di certe splendenti giornate di ottobre. Quei tre giorni striminziti a San Martino, o Indian Summer -chiamatela come volete- e poi giù a precipizio nel lungo e tetro mese dei morti, giorno dopo giorno, verso le interminabili notti del solstizio. Io dico che il momento più duro è lì, tra metà novembre e Santa Lucia. E a questo punto non c’è che accettare. E possibilmente dormire, dopo l’ebbrezza della veglia estiva.
Ma c’è modo, mi domando, di tenere vivo e teso quel filo di luce che ci ricondurrà allo sfolgorio di giugno? Come si fa a tenere viva la vita –le domande si equivalgono- pur sapendo che si muore?
Si deve essere un poco visionari, io credo. Sentire l’estate anche in certe luminose mattinate di dicembre, quando favonio o tramontana spazzano il pulviscolo cittadino. Condividere l’ostinata fiducia del sempreverde, dispensato dalla spoliazione stagionale. Seminare fin d’ora certe pianticine –il Cedrino, per esempio, o Capsicum annuum- che con qualche accortezza daranno fiori a Capodanno, piccoli commoventi corolle bianche. Prepararsi quotidianamente al nuovo giro della luce, quei luminosi tramonti di gennaio. Salutare il sole ogni giorno, dargli una mano, specialmente quando non riesce a spuntarla sulla copertura nuvolosa.
E’ cercare la luce che illumina. Il viaggio è la meta.

(pubblicato su “Io donna” – “Corriere della Sera”  il 30 agosto 2008)

Archivio Agosto 25, 2008

SENTIRE L’ALTRO

“Credo di avere sempre avuto qualche difficoltà nelle relazioni. Sono una persona solitaria, individualista, anarchica. Ho sempre voluto essere autosufficiente. Ma nel tempo il bisogno degli altri si è fatto sentire di più. I rapporti sono diventati via via più importanti per la mia vita. Bella contraddizione…”.
E’ a partire da sé e dalle sue relazioni, dai fallimenti e dai guadagni, esperienze comuni a molte e a molti, che Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano e studiosa della maggiori pensatrici del Novecento, da Hannah Arendt a Edith Stein, ha cominciato a pensare filosoficamente all’empatia, misteriosa  capacità di “sentire l’altro”, precondizione di ogni legame affettivo e sociale. Ne è nato un libro, “Sentire l’altro”, a cui è seguito recentemente “Neuroetica – La morale prima della morale” (entrambi Raffaello Cortina Editore).
“Scoperta dell’altro: empatia e immaginazione” è il titolo della conferenza che Laura Boella terrà a Sarzana il prossimo sabato 30 agosto (ore 18.30, Chiostro di San Francesco) nell’ambito del Festival della Mente.
L’altro come limite. Come estraneo. Non-io. Qualcuno di cui avere paura, da tollerare e da cui “smarcarsi”. Ma anche oggetto di un bisogno irriducibile e disperato, sempre più difficile da dire. Quasi un tabù. Com’è che oggi ha tanta fortuna l’idea dell’assoluta indipendenza? Perché l’individuo autonomo è diventato la perfezione dell’essere umano?

“Perché abbiamo voluto dimenticare che veniamo al mondo dipendenti, bisognosi e già in relazione” dice Boella. “C’è una relazionalità originaria, quella tra il nostro corpo e quello della madre. Il soggetto non può pensarsi fuori dalla relazione. La nostra unicità e singolarità ne sono segnate, partono da lì. Ma nella cultura occidentale interdipendenza vuole dire fragilità, vulnerabilità”.

Questa idea di individuo assoluto, sciolto dalle relazioni, è diventata il modello anche per le donne. L’attuale crisi dei rapporti forse dipende anche dal fatto che nemmeno loro testimoniano più a favore di un individuo “relazionale”.

“Le donne hanno imitato l’autonomia maschile pensando che fosse la via maestra per la libertà. Il prezzo che hanno pagato è stato molto alto”.

Che cos’è l’empatia? E’ compassione?

“Viene prima, è la precondizione della compassione. Non posso partecipare alla gioia o al dolore di un altro se prima non ho stabilito un contatto con lui. Ci vuole prima questa capacità di sentirlo, di mettersi al suo posto. Di immaginarsi nel luogo dell’altro. Poi semmai nasce la compassione, ma non obbligatoriamente”.

L’empatia è “fredda”, mentre la compassione è “calda”?

“Non direi. Nell’empatia ci sono momenti sia affettivi sia cognitivi. Al principio di tutto c’è l’incontro tra i corpi. Il mio corpo entra in risonanza immediata con quello dell’altro. Ne leggo i segnali, vedo il suo sguardo cupo o gioioso, ed entro istantaneamente in contatto. Quasi un automatismo, che le neuroscienze hanno spiegato con la recente scoperta dei neuroni-specchio”.

Un meccanismo automatico, animale, probabilmente legato alla sopravvivenza.

“Poi però, a partire da questa prima risonanza, la cosa si complica. Per sentire l’altro mi devo spostare nel luogo in cui lui sta, un luogo che non conosco e che mi può essere estraneo. Qui si mette al lavoro l’immaginazione, che è un’attività della mente. Il che però non significa che sia un’attività astratta e freddamente razionale. Anche l’immaginazione è intrisa di emozione, di passione e di desiderio”.

E come si fa a essere sicuri che l’altro che io immagino empaticamente sia davvero l’altro? Che non si tratti solo una mia proiezione, di una mia idea di lui?

“Se empatia è provare ad andare dove l’altro sta, allora devi fare continuamente i conti con l’estraneità di questo luogo. Non puoi mai smettere di renderti conto del fatto che l’altro ha una pelle e uno sguardo diversi dai tuoi”.

Lei auspica che ci si eserciti all’empatia: come? E soprattutto:  perché dovremmo fare questa fatica?

“Perché siamo perennemente in relazione, ed è bene averlo presente. Anche quando stiamo scrivendo una legge, o svolgendo una ricerca, o progettando qualcosa, siamo in relazione con qualcuno. Queste mirabili attività di oggettivazione dello spirito sono intrecciate e segnate dalle relazioni che le hanno nutrite. Gran parte delle nostre azioni sono relazionali, anche quando crediamo di andare autonomamente per la nostra strada. E’ meglio esserne consapevoli. Nell’amore, per esempio. Tendiamo a vedere tutto bianco o nero: stiamo insieme o no, viviamo insieme o ci lasciamo, funziona o è il fallimento, vinciamo o perdiamo. E invece è tra questi estremi che capita tutto, il territorio della relazione è questo, sta in questo mezzo che a noi appare vuoto”.

Riflettendo sull’empatia lei è approdata alle neuroscienze.

“Il tema dell’empatia oggi è studiato anche dal punto di vista neurobiologico. Si parla di una morale prima della morale, delle basi biologiche dei nostri comportamenti verso l’altro. La neuroetica, disciplina nata da poco, si occupa delle implicazioni morali e sociali delle recenti scoperte sul cervello umano. Scoperte che, io credo, dovrebbero entrare a far parte del complesso di  domande che ci poniamo sul “come vivere”. E’ anche una questione di cittadinanza democratica: non si può delegare agli scienziati di professione la soluzione delle ansie e la costruzione delle speranze collegate a queste scoperte. Si deve trovare un linguaggio corrente per parlarne”.

Si pensava che la bioetica potesse contribuire ad aprire la discussione pubblica. E invece in un certo senso l’ha irrigidita. Si è rapidamente istituzionalizzata.

“Sembra che il problema etico si ponga solo quando è questione di vita o di morte: gli embrioni, Eluana… Ma anche le nuove tecniche di neuroimaging sono eticamente rilevanti. Se, per esempio, studiando i meccanismi della decisione vedo che non si tratta di razionalità pura ma di un dosaggio di conscio e inconscio; se mi rendo conto del fatto che per tre quarti è frutto di un meccanismo automatico e involontario, allora il mio concetto di decisione lo devo riconsiderare. Non per rassegnarmi al fatto che non decido nulla. Anzi. Sapere come decido mi serve a farlo con sempre maggiore consapevolezza”.

Archivio Agosto 25, 2008

GOOD NEWS

Sfoglio rapidamente le pagine di un quotidiano qualsiasi, in un giorno qualunque. Rapido colpo d’occhio ai titoli: “basta”, “uccisa”, “nemico”, “irresponsabili”, “senza freni”, “problema”, “rischia”, “fucili”, “manipolati”, “smembrare”, “odio”, “agguato”, “rivalità”, “addio”, “killer”, “morti”, “muore”, “coltello”, “guai”, “insoddisfatti”… Provate a rovesciare i termini nei loro contrari: “ancora”, “viva”, “amico”, “responsabili”, “moderati”, “opportunità”. E ancora “amore”, “nasce”, “soddisfatti”.
L’effetto che fa è addirittura fisico. Prima serie: diaframma contratto, respiro corto, irrigidimento muscolare, spalle alzate in difensiva. Seconda serie: pupille che si dilatano, pressione che scende, respirazione addominale, rilassamento, fiducia.
Leggo qualche settimana fa in “Est/Ovest”, rubrica firmata su queste pagine da Franco Venturini, che il Senato romeno ha approvato all’unanimità una norma che impone a tg una quota di buone notizie. Provvedimento assurdo, certo, e per almeno due ragioni: non si deve imporre mai nulla, in particolare quando si tratta di informazione; non è sensato guardare al mondo come divisibile tra bene e male. In realtà, e il collega Venturini lo sa molto meglio di me, l’applicazione di una quota di “buone notizie” –in gergo “colore”, “costume”, “rosa”, “gossip”- è pratica corrente nei mezzi di informazione. Compito di alleggerimento che spesso viene affidato alle cose di donne, o più semplicemente all’esibizione del corpo femminile, intero o in quarti.
Nei giornali pensati da-e-per uomini ma sempre più letti e-ahimè- ancora troppo poco scritti da donne, che il femminile venga individuato come correttivo ha una sua plausibilità. Ma ci si deve intendere: non è che le donne vogliano o portino solo “buone notizie”. Le donne –e penso ormai anche un gran numero di uomini- vogliono semmai poter vedere il bene che c’è in ogni cosa che capita, buona o cattiva che sia. Per dirla in modo un po’ più complicato, vogliono vedere le cose dal punto di vista di ciò che nasce. Dalla parte della  nascita, come diceva Hanna Arendt. Non c’è mai una notizia solo e assolutamente cattiva. Bene e male sono inestricabili. Si tratta di torcere la notizia verso il bene che inevitabilmente contiene, di spremerne tutto il bene e la speranza. Di portarla via alla morte. Di saper resistere al male, e al suo fascino.
(puublicato su “Io donna”-“Corriere della Sera” il 23 agosto 2008)

Archivio Agosto 25, 2008

SCUSATE

Scusate se mi intrometto.

Intanto, sulla “separatezza” della discussione: io credo che siano necessari dei momenti di raccoglimento con il proprio sesso, sia per gli uomini sia per le donne, momenti di rigenerazione e riconnessione -io li chiamerei anche pratica della propria differenza- in cui rimettere al mondo il mondo, per come lo si vede con sguardo bisessuato.

Sulle cose che dite, invece, e che seguo con attenzione e rispetto: mi pare che la maggiore violenza imputata alle donne sia quella dell’abbandono. Esiste anche l’abbandono maschile, ma è sempre stato considerato in qualche misura naturale, come si vede dall’istituto del ripudio unilaterale. Mentre l’abbandono femminile, oggi consentito dalla legge, è intimamente inaccettato  da molti uomini. I tempi della nostra psiche sono molto più lenti di quelli della legge,  nel nostro inconscio passeggiano i dinosauri, diceva Freud. Un uomo va è viene, è nella sua natura, mentre la donna, come una casa, sta lì ferma, con la porta sempre aperta, pronta ad accogliere. Quella della simmetria è un’ideologia pericolosa, perchè non ci fa vedere la realtà delle nostre vite vere.

Pare che la ragione principale della violenza maschile corrente -meglio non perdere tempo a negarne l’esistenza- sia la sensazione di essere “tagliati fuori” dalle donne, da una forza femminile che ricorda l’insostenibilità dell’onnipotenza materna e l’inermità del piccolo bisognoso -e anche capace di odio, per quanto incapace di esercitarlo-.

Ancora una cosa: sul fatto che, per dirla alla buona, tante donne sembrano preferire il “bastardo” a quello che invece le supporta e le comprende. Casi estremi di masochismo a parte (ci sono anche quelli) forse è anche perché una donna  va in cerca di un’alterità radicale, di qualcuno che le opponga una irriducibile differenza (il famoso vero uomo). E nella sofferenza che patisce le pare di intravedere una prova di questa differenza. Può esserci anche questo.

Spero che il dibattito fra voi continui liberamente, e che quello che ho scritto qui possa tornarvi utile. Intanto io vado avanti con altro.

Archivio Agosto 18, 2008

VORREI

Vorrei che continuasse qui il dibattito tra uomini sulla violenza maschile. Consentendo a me e alle altre donne che leggono di “origliare” in silenzio, senza intromissioni. E di capire.

Archivio Agosto 18, 2008

ESTATE METROPOLITANA

Di recente ho visto un film bello e poco conosciuto, “Guida per riconoscere i tuoi santi”, opera prima di Dito Montiel, premiata al Sundance Film Festival. Non fatevelo scappare, se vi capita. Lì tra l’altro si vede bene cos’è un’estate metropolitana. Asfalto bollente per i ragazzi di Queens. Spazzatura. Pelle sudata, birra, profumi dozzinali rubacchiati al drugstore. Le notti sotto il ponte, un bagno a mezzanotte con i jeans, il muro della piscina scavalcato. Una fetta di pizza fredda, il gelato che cola sugli avambracci. Sesso appiccicoso negli androni. Pianto di bambini che non prendono sonno. La violenza di un amore che sta finendo. Moto smarmittate nei tunnel. Il metrò che ruggisce. Qualcosa che sembra mare in fondo un prato bruciacchiato.
Non sa che cos’è l’estate, chi non ha mai vissuto la ferocia di un’estate metropolitana. I piedi a bagno nelle fontanelle. Il giorno che non muore mai. Un morso disperato d’anguria. Ventagli di plastica. Le gambe gonfie delle donne. Sedativi. Uomini in canotta che fumano sui balconi. Condomini. Finestre illuminate di notte. Tv accese. Treni. Domeniche deserte. L’aria condizionata di un cinema. Dentista d’urgenza. Strane amicizie in ufficio. Parlarsi da una scrivania all’altra. I parchi. Formiche che ti salgono per le gambe. Rimmel che cola. Schiene nude. Rimpianti. Supermarket deserti. Vecchi che camminano al braccio di floride ragazze ucraine. Alberi senza vento. Sole. Piazze metafisiche da traversare in fretta. Ombra soffocante sotto i portici. Cose immobili dietro le serrande chiuse. Rondini acquattate. Gatti senza niente da bere. Immigrati nelle laundrette. Musiche da lontano. Cassonetti colmi, cocci di bottiglia. Silenzio senza pace. Cieli di latte. Un turista che si è perso. Le fermate dei bus. Zanzare. Acqua che cola da un balcone. Assenze. Sedie vuote di plastica nei bar. Fiori che seccano nei cimiteri. Velate che camminano solennemente. Le braccia bianche delle portiere che spazzano.
Non sa cos’è l’estate, chi non ne ha mai passate in città.

(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”, il 9 agosto 2008)

Archivio Agosto 14, 2008

MI PIACEREBBE

Mi piacerebbe che gli uomini che intervengono in questo blog per parlare di violenza maschile e di volontà di dominio, più o meno frustrata dalle donne, lo facessero parlando a partire da sé. Non teorizzando, cioè, ma riconoscendo in se stessi tracce di questo impulso, o di questa costruzione simbolica, e spiegando come loro ci fanno i conti. Anche quelli, e saranno molti, che non esercitano la violenza e si sentono immuni dalla tentazione del dominio. Avranno pure un collega, un amico, un parente violento e dominatore: Ecco: come fanno i conti con lui? Come vivono questa vicinanza?

Archivio Agosto 13, 2008

ORA DICO LA MIA

Ho riportato quel brano dalle “Confessioni” -in cui mi sono imbattuta per puro caso- per la semplice ragione che, pur essendo passato dal tempo di quei fatti oltre un millennio e mezzo, vi si racconta qualcosa che ci è molto familiare. La freschezza di quella narrazione non è solo nel limpido stile di Agostino, ma anche nella sostanza dei fatti: uomini traditori, irascibili e violenti, donne pazienti o riottose ma comunque costrette a subire, una dinamica tra i sessi a cui il tempo ha apportato solo modesti correttivi.

Perché è vero, oggi il tradimento è “consentito” anche alle donne,  e il marito violento può essere denunciato e lasciato. Ma resta il mistero, per me insondabile, del dominio come spina dorsale dell’essere uomo, questa ira funesta raccontata come naturale e nell’ordine delle cose, questo subire femminile come condizione ineliminabile, e Agostino che narra senza un solo cenno di disapprovazione o di sconcerto, da uomo del suo tempo. Ma prima di quel tempo c’era pure stato Gesù, molto tenero con le donne, pronto a perdonare la peccatrice, a fermare le pietre sull’adultera, e ad amare e rispettare sua madre. Oggi che il patriarcato è crollato, questa tentazione di dominio resta ancora viva nel fondo del cuore di molti uomini, che sembrano non sapere che cosa sia essere uomo se e quando non lo possono esercitare. Perché, mi chiedo, questa intima e radicata necessità? Era su questo che mi aspettavo il contributo degli uomini che hanno scritto.

Quanto invece alla forza, alla pazienza e alla capacità di mediazione della madre di Agostino, non posso che apprezzarla e ammirarla e prenderla a modello: non che accettasse e subisse, intendo, quanto piuttosto il fatto che, date le condizioni dei rapporti tra i sessi, sapesse comunque trovare intelligentemente la via migliore per minimizzare il danno, per sè e per tutti. Talento femminile che oggi scarseggia, e di cui avremmo tutti, come di tante altre qualità femminili, un grande bisogno.