Browsing Category

Archivio

Archivio Ottobre 7, 2008

QUESTA VOLTA

Questa volta inviterei le donne, se lo vogliono, a parlare liberamente di politica come lo sanno fare loro (noi), nel modo a loro più congeniale, con le parole che sentono più loro, senza dover fare fuori il buon senso.  E inviterei gli uomini ad ascoltare. Una donna che parla, restando fedele a se stessa, e un uomo in ascolto: è una postura molto istruttiva.

Archivio Ottobre 6, 2008

POCHE DONNE

Questo dibattito si è svolto tra uomini perché questa politica è fatta da uomini e per uomini: e non sto recriminando, vi assicuro. Anzi. Oggi sento questo essere fuori come un’opportunità da saper cogliere. Secondo Jürgen Habermas, filosofo e sociologo tedesco, “l’esclusione delle donne è stata costitutiva per la sfera politica pubblica… Diversamente dall’esclusione di uomini emarginati, l’esclusione delle donne ha esercitato una funzione strutturale”. Vuole dire che la politica è stata inventata come un posto di uomini che tenesse fuori -o meglio dentro: ai maschi l’agorà, alle femmine le case- le donne: di conseguenza linguaggi, modi di organizzazione, forme, tempo della politica sono sempre stati solo ed esclusivamente quelli degli uomini. Questo sistema è giunto a un punto di crisi irreversibile. C’è bisogno di una politica che tenga conto nella sua fondazione dell’uscita delle donne dalle case e della loro partecipazione allo spazio pubblico. Si tratta, credo, di un immane lavoro di invenzione, che ha bisogno di molta ricerca e di molta attività femminile e di molta disposizione all’ascolto da parte maschile. Per il maggior bene di tutti, donne e uomini.

P.S: La lunghezza di certi interventi è scoraggiante e assolutamente inadatta a questo spazio di discussione, più “orale” che scritto. Se volete essere letti, vi prego di attenervi a  misure di buon senso e di usare un linguaggio piano e colloquiale, senza esibizionismi professorali.

Archivio Settembre 26, 2008

PER FAVORE, CONTINUATE

Il vostro dibattito sulla politica (chi fa la società, e qual è allora il compito della politica) è di estremo interesse. Per favore, Federica, Graziano e chiunque altro voglia,  continuate, e andateci dentro, senza inibizioni, rompendo anche il tabù di non poter criticare la democrazia rappresentativa. Parlate creativamente della politica. Fate partecipare anche i vostri cari e amici, e riportate qui quello che vi dicono. Grazie.

Archivio Settembre 24, 2008

NOI RAZZISTI

Sulla morte del giovane Abdul, sepolto ieri.  Da subito il dibattito è stato: é razzismo o non lo è? Se fosse stato bianco, le cose sarebbero andate in questo modo? Un fronte che ha premuto per il sì, un altro, probabilmente maggioritario, che ha tenuto duro: non si tratta di razzismo, è stata una tragica fatalità.

Ci sono probabilmente buone ragioni, oltre a quella di volere evitare le aggravanti di legge, per non ammettere che probabilmente la bravata di un ragazzo bianco non si sarebbe conclusa allo stesso modo, che chi ha deciso di farsi selvaggiamente giustizia sarebbe stato meno accanito. Forse violare il tabù e nominare il razzismo in qualche modo lo farebbe esistere, ci costringerebbe a guardare in faccia la questione, ad affrontarla, a dirimerla.

Mi pare però che il problema sia malposto. Si tratta di guardare in faccia il nostro inner racist, di riconoscerlo, accettarlo, di farci amicizia, di discuterci, perfino di riconoscergli qualche ragione, e di comprendere la sua posizione. Si tratta di vedere se riusciamo a convincerlo con le buone che ci sono altre strade, migliori della sua. E di incamminarcisi insieme.

Archivio Settembre 22, 2008

SINCERAMENTE….

Sinceramente: ma a voi interessa che ci siano poche donne in politica? Pensate che sia un guaio, per il nostro paese e più in generale, che le donne non partecipino alla formazione delle pubbliche decisioni? O credete che riescano a partecipare ugualmente, nonostante la scarsissima rappresentanza e le poche donne nelle stanze dei bottoni?

Scrivetemi solo la verità di quello che pensate (se non diciamo la verità, non vale la pena di sprecare tempo e spazio). E ditemi quello che pensate VOI. Niente sociologia, per favore.

Archivio Settembre 22, 2008

TI CHIUDO FUORI

Nel paesello dove passo l’estate una volta, mi dicono, di recinzioni non ce n’erano. Un ameno continuum di verde, campi e boschi, senza reti né grate. Forse è stato con l’arrivo di noi orribili “milanesi” che le cose sono cambiate. Muriccioli, siepi, una proprietà separata dall’altra, come sintomi di un diffuso disturbo. Un giorno sto passeggiando con il mio vecchio cane lungo il sentiero che conduce a una torre saracena, che oggi è un’abitazione privata. Una giovane signora, elegante nel suo caftano, si affaccia da un cancello: “Lei dove va?”. “Di là” dico, e indico i campi che si affacciano su una dolce vallata. “Di là non c’è nulla. Solo case private”. “Però non mi risulta” rispondo “che il sentiero sia privato”. La bella signora ci pensa un po’ su. Vuole fermarmi, ma non sa come diavolo fare. “E i sacchettini? Ce li ha i sacchettini?”. Estraggo dalla tasca quattro o cinque contenitori igienici. Il mio vecchio Tom è un ragazzo pulito. La signora è costretta alla resa. Indietreggia, senza più argomenti.
Peccato. Avrebbe potuto regalarmi un bel sorriso, fare due chiacchiere con me, offrirmi un tè o qualcosa del genere. Stare chiusi e da soli, ancorché in un eremo principesco, prati all’inglese, piscina e ogni genere di comfort, non dev’essere poi così divertente. Dopo un po’ che sto chiusa io soffoco. Sento il bisogno di altri esseri viventi e comunicanti.
Sono decisamente in minoranza. I più –almeno all’apparenza-intendono chiudere, recintare, costruirsi il loro microcosmo autarchico, privatizzare sentieri, impedire l’accesso, sottrarsi alla scocciatura dell’interazione e della relazione. Il lavoro da fare, invece, sarebbe un altro. Aprire, spalancare, e darsi da fare per costruire il senso di ciò che è comune. Amarlo tutti insieme, investirlo delle energie di tutti, impregnarlo dei nostri migliori sentimenti, renderlo sacro.
Non per fare Totò: ma ne avremo di tempo per starcene chiusi, soli e “privati”, con quattro mesti fiori secchi a ricordarci, se qualcuno avrà il garbo di portarcene. Il più del tempo è solitudine. La vita è soprattutto gioia e fatica delle relazioni. Ma la sprechiamo a dimostrare in tutti i modi di non averne bisogno. Dire il desiderio dell’altro è diventata la vergogna numero uno.

Archivio Settembre 13, 2008

GIRO DI BOA

aCibo e bellezza a parte, noi europei del Sud il “complesso del Nord” l’abbiamo sempre patito. Che politica, che welfare, e che parità! Noi, invece, con tutte le nostre magagne… In fatto di emancipazione e di uguaglianza tra i sessi gli anglosassoni sono stati i primi: donne=uomini, nessuna differenza. Ma adesso stanno cambiando idea. Noi al Sud, in ritardo di almeno vent’anni, tutti presi a dotare ogni ente pubblico, dai municipi alle assemblee di condominio, di organismi pari-opportunitari. Lassù invece si cambia rotta. Storico giro di boa. E se il modello parità-emancipazione entra in crisi proprio lì, dove è stato inventato, allora è solo questione di tempo, è fregato all over the world.
Una recente ricerca della Cambridge University rivela un deciso cambio di umore degli inglesi verso l’uguaglianza di genere: se nel 1994 il 50 per cento delle donne e il 51 per cento degli uomini ritenevano che la vita familiare non soffrisse del fatto che le donne lavoravano fuori casa, nel 2002 lo crede solo il 46 per cento delle donne e il 42 per cento degli uomini.
Tra allora e oggi un decennio di spaventose fatiche femminili, di azzardi ed equilibrismi: il famoso doppio ruolo. Figli tirati su in qualche modo, uomini che in casa non muovono un dito, ménage familiari a dura prova: ne valeva la pena? Davvero donne e uomini sono intercambiabili? Cala anche il numero di cittadini convinti del fatto che per le donne l’unica strada di realizzazione sia la carriera. Il tipo career woman-super mom è sotto attacco.
Negli Stati Uniti, dove l’emancipazione è stata una fede, il cambiamento è anche più vistoso: la percentuale di americani convinti che le donne possano lavorare 8 ore senza che la famiglia vada a rotoli precipita dal 51 al 38 per cento. In controtendenza la Germania, dove la simpatia per le politiche ugualitarie invece è in ascesa: nel ’94 solo il 24 per cento dei tedeschi pensava che la moglie-mamma al lavoro non avrebbe sfasciato la famiglia, nel 2002 la percentuale sale al 37 per cento. E con ogni probabilità in tutto il Sud-Europa il trend è questo.
Spiega la sociologa Jacqueline Scott, che ha coordinato la ricerca di Cambridge: “I tre paesi stanno probabilmente vivendo stadi diversi del ‘ciclo di simpatia’ per l’uguaglianza di genere. I tedeschi hanno abbandonato i ruoli tradizionali più tardi (come noi italiani, ndr), di conseguenza non si sono ancora imbattuti nella reazione anti-working mother. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, invece, dove le politiche pari-opportunitarie sono più antiche, la gente comincia a cambiare idea”.
Tendenze e controtendenze rilevabili anche nel nostro “piccolo” italiano: se la spinta maggioritaria è per la parità, per la piena occupazione femminile e per un welfare di impostazione tradizionalmente “fordista” (servizi rigidi per mamme che lavorano 8 ore), cresce il numero di quelle che hanno sempre tenuto duro sulla differenza di genere, o che l’hanno riscoperta; che promuovono una diversa concezione del lavoro, all’insegna della flessibilità, della creatività e dell’invenzione di spazi e tempi più congeniali; che hanno un’idea più complessa e articolata di welfare e mettono al centro il lavoro di cura e d’amore. Un “ritardo”, il nostro, che oggi potrebbe diventare una risorsa.
Quel che è certo, dalla ricerca di Cambridge non si può dedurre opportunisticamente che le donne vogliano “tornare a casa”. L’ideologia del “coming back home” non parla dei desideri delle donne, ma solo degli auspici dei tradizionalisti. Lo confermano altri passaggi della ricerca, in apparente contraddizione con l’insofferenza anti-paritaria rilevata prima. Solo il 41 per cento degli intervistati e il 31 per cento delle intervistate, infatti, è d’accordo con l’affermazione “tocca all’uomo portare a casa lo stipendio, mentre la donna sta a casa a guardare i bambini”. Nel 1987 i favorevoli erano rispettivamente il 72 e il 63 per cento.
Le donne vogliono lavorare. E’ impensabile che rinuncino al lavoro. Ma vogliono potersi organizzare a modo loro: è più facile rispedirle in cucina che assecondare la loro volontà di cambiamento. Quello che vogliono riportare a casa è l’enorme quantità di energie spese ogni giorno nell’adeguarsi a modelli maschili di organizzazione dello spazio e del tempo, della vita e del lavoro.
Nessuna economia nazionale, del resto, potrebbe fare a meno di loro. In Italia +100 mila donne al lavoro, come ha valutato Maurizio Ferrera, autore di “Il fattore D”, farebbero un + 0.28 di Pil. Dice Jo Causon del Chartered Management Institute, associazione dei manager britannici: “Per la nostra economia è impensabile non avere donne al lavoro. Oggi sono il 45 per cento degli occupati. In un momento di crisi come questo non possiamo permetterci di rinunciare alle loro capacità. Il 79 per cento delle aziende ha il problema di reclutare talenti e il 75 per cento si danna per riuscire a trattenerli. Si deve trovare il modo per corrispondere alla richiesta di flessibilità che proviene dalle donne. E anche dagli uomini”.
Nel cassetto del governo inglese tre nuovi provvedimenti: orario flessibile per chi ha figli fino ai 16 anni, prolungamento del congedo di maternità da 9 a 12 mesi e possibilità per la madre di trasferire al padre gli ultimi 6 mesi di congedo. “Flessibilità” sembra essere la chiave universale, per quanto in ritardo. Ma quello che ci vorrebbe è una vera rivoluzione nel modo di pensare e organizzare il lavoro e la vita. Kat Banyard, a capo della Fawcett Society, antico istituto delle suffragette inglesi, parla di necessità di una “trasformazione radicale”, contro la cultura del “tempo pieno”.
Il lavoro è senza dubbio il pensiero che la politica del prossimo decennio ha da pensare. E’ lì, nel punto di snodo tra lavoro e vita, che vedremo i cambiamenti più straordinari, promossi in primis dalle donne. E forse per una volta saremo noi europee del Sud, che per circostanze sfavorevoli e anche per cultura non ci siamo mai fatte prendere del tutto dall’emancipazione, dalla parità e dalla carriera, tenendo duro sulla differenza femminile, ad avere qualcosa da insegnare, qualche spunto e qualche ricetta (anche di cucina, why not?) da offrire alle amareggiate sorelle del Nord.

CASALINGHE FORSENNATE

Ragazze vestite come casalinghe anni Cinquanta che preparano torte per strada; tè delle cinque in stile burlesque, happening a metà tra l’artistico e il politico: in tutto il Regno Unito, da Londra a Brigthton, fiorisce il movimento delle giovani “domestic artist”. Le virtù femminili tradizionali brandite come strumenti di ribellione. Spiega Jazz D Holly, 24 anni, presidente delle Shoreditch Sisters: “Detesto l’idea di essere la copia di un uomo. E’ una cosa che sta gravemente danneggiando l’autostima di noi donne”. Figlia di Joe Strummer dei Clash, il mitico gruppo punk, Holly spiega  di avere avuto un’infanzia molto caotica. Per lei trasgressione non è bere e drogarsi, ma fare la maglia e cucinare, attività sovversive ed  “empowering”.

(pubblicato su “io donna” – “Corriere della Sera” il 13 settembre 2008)

Archivio Settembre 13, 2008

URLATORI

Un accogliente albergo del Sud, la piscina incastonata in un uliveto. Le cicale, e il blu del mare all’orizzonte. La quiete è perfetta. Ed ecco due famigliole, quattro o cinque bambini –dall’accento, emiliani: ma è irrilevante- che rotolano come un ciclone dalla scalinatella verso lo specchio d’acqua. Una delle signore acchiappa il lettino che ho di fianco e comincia a trascinarlo nell’erba. “Le spiace?” le dico “E’ per mio marito…”. Lei lo lascia cadere stizzita.
E’ estate, sono giovani, felici di essere in vacanza. I bambini, poi: felicissimi. Una successione di “bombe” in acqua, urlando e schizzando ovunque. Le mamme li richiamano da un capo all’altro della piscina. “Gaiaa!”, “Ginevraaa!” (sono i nomi che vanno ora). E poi, fra loro: “Tu cosa ti metti staseraaa? Quello nero o quello bluu?”. E al marito: “Giorgio! Giorgiooo!” (Giorgio è preso a schizzarsi con Alberto). “Vuoi la bananaa?” “Dopoo!” fa Giorgio. “Prima faccio il bagnoo!”, e scaglia uno dei bambini in mezzo alla piscina, mentre gli altri si rincorrono con mastodontici mitra ad acqua.
Le loro cose –asciugamani, borse, giocattoli, ciabatte- sono sparse ovunque: territorio animalmente “segnato”. Ci vuole uno slalom, per andare a rinfrescarsi. Ma spruzzi e ondate arrivano a domicilio. Gli altri ospiti sciamano via mesti. Resistiamo in due coppie. La più piccola delle bambine, Domiziana, Jennifer o non so cosa, piange disperata: il sole dell’una non è l’ideale per un umano con il sistema di termoregolazione ancora in rodaggio. Giorgio urla che adesso ha fame –finalmente- e fa per accendere un radiolone: che cosa hanno in mente di fare, ora? ballano? Mi avvicino a Giorgio e glielo dico con massimo garbo: “Mi scusi. A noi non spiacerebbe riposare”. “Siiì! Riposare!” esplode uno degli altri “ostaggi”.
Il gruppo ammutolisce. Le cicale tornano a frinire. Percepisco un brontolio a mezza voce: “E allora perché non va in una bella baita?”.
Fare chiasso non è semplice maleducazione. E’ arrogante occupazione dello spazio comune. Si potrebbe condividere con gentilezza. Coltivare la preziosità del bene comune. E invece lo si vuole “possedere”: questo posto è mio, lo dissemino di cose mie. E anche dei miei urli.
Avere, il più possibile, imperfetto surrogato dell’essere.

(pubblicato su “Io donna” – “Corriere della Sera” il 13 settemre 2008)

Archivio Settembre 13, 2008

COSE

A me capita soprattutto, scusate, con i prodotti per il trucco. Cerco tra gli scaffali dei blush, trovo con fatica un colore che va bene –ho un incarnato difficile-, dico alla commessa: “Mi dà quello?”. Lei si china a frugare nel cassettone. Niente. “Mi spiace. Il 543 l’abbiamo finito”. La roba che vorrei comprare io –e la vostra?- manca sempre. Succede anche per acquisti più impegnativi. Stavolta, negozio successivo, è una lavatrice: “Al momento quel modello non l’abbiamo”. “E allora” dico “perché lo esponete?”. “Perché esiste”. “E quando arriva?”. “Provi  lunedì”.
Esco dal negozio un po’ arrabbiata. Mi accoglie la vampata rovente della strada. Ho perso una mattina. Il mio cuore –o la mia testa, o tutti e due- parte alla ricerca del buono che c’è.
Ho imparato da una signorina di nome Etty Hillesum: cercare sempre il buono che c’è, in tutte le circostanze. Mi spiace scomodare quella santa ragazza per una sciocchezza del genere, ma il suo insegnamento è talmente pervasivo e convincente che in me è diventato un riflesso automatico.
Mi capita qualcosa di tremendo, o semplicemente fastidioso, e io penso: “Anche qui, da qualche parte, del buono ci sarà”.
Sono diventata una specie di detective del bene. In questo caso il bene è: che mi sono fatta una camminata di un’ora, andata e ritorno, quasi di corsa e sudando, e il cuore ringrazia, e anche le articolazioni, e il metabolismo, l’umore, tutto quanto il corpo e quindi anche l’anima; che ho visto la frenetica allegria di una mattinata in città; e poi c’è qualcosa di più sottile, che vorrei provare a spiegarvi. La metodica non-corrispondenza tra scaffali belli pieni (trecento tipi di fard, trenta modelli di lavatrici) e l’effettiva disponibilità della merce, che manca sempre, sembra volermi avvertire dell’illusorietà delle cose. Che pare che ci siano, e invece non ci sono. E noi stiamo al mondo lo stesso.
Le cose, quindi, non sono poi così necessarie. E ogni volta che diminuisce la necessità, per noi esseri umani cresce la libertà. Questo il bene che ho portato a casa stamattina. Mi sono sentita più leggera. Non è poco.

(pubblicato su  “Io donna”-“Corriere della Sera” il 6 settembre 2008)

Archivio Settembre 12, 2008

PIOVE!

Finalmente piove! Un magnifico temporale. Sento la gioia dei campi che si dissetano. Buona giornata.