La sicurezza è destinata a diventare un tema cardine in tutte le prossime scadenze elettorali. Nessuna forza politica potrà eludere la questione, che si tratti di fare fronte a un rischio realmente aumentato (in verità nel 2014 l’indice di delittuosità in Italia è diminuito del 14 per cento) o percepito come tale a causa una più generale insicurezza sociale, ovvero dalla mancanza di lavoro, dai tagli ai servizi, dal senso di abbandono, dalle difficoltà che si generano nella convivenza con lo “straniero” e così via.
Con il suo securitarismo storico la destra si presenta una narrazione già ben consolidata, proponendo soluzioni drastiche e spesso semplificatorie che danno tuttavia l’idea di prendere il toro per le corna, senza sfumature “buonistiche”. Più complessa la questione a sinistra: nei suoi programmi il tema della sicurezza compare normalmente a latere, come non qualificante, e la propensione a problematizzare evitando scorciatoie populistiche rischia di essere letta come disattenzione, lassismo, sottovalutazione o indifferenza ai “problemi della gente”. A ciò si aggiunga la scelta di accoglienza nei confronti dei migranti, visti come “invasori” nonostante i numeri raccontino una realtà molto diversa: colpisce molto che perfino il democratico Felice Casson, in questi giorni al ballottaggio come candidato sindaco a Venezia, debba concedere agli umori popolari assicurando che la città non accoglierà altri profughi.
Gli enormi buchi di bilancio negli enti locali, causati da una gestione dissennata quando non truffaldina, si sono spesso tradotti in abbandono delle periferie: sporcizia, trascuratezza, le famose buche nell’asfalto, la latitanza delle forze dell’ordine, il fatto di dover reggere in esclusiva il peso innegabile dell’accoglienza e della convivenza con i poveri del mondo, quasi sempre concentrati nelle aree periferiche.
Trovare la strada è molto difficile. Potrebbe essere interessante valutare le esperienze di “controllo di vicinato” già attive in svariati comuni italiani e mutuate dal modello anglosassone del neighborhood watch: qui sono le stesse comunità a farsi carico della prevenzione e, più in generale, della qualità di vita nei propri quartieri, vigilando sia sui problemi ambientali, sia sui rischi per la sicurezza. Ben lontano dalla logica forcaiola delle “ronde” e del farsi giustizia da sé, il controllo di vicinato opera in stretto collegamento con le polizie locali con cui conferisce regolarmente, polizie a cui tocca in via esclusiva il compito della repressione: non si insegue né si arresta il ladro, ma si vigila con molti occhi sui movimenti sospetti che vengono prontamente segnalati alle forze dell’ordine. Periodicamente ci si incontra per fare il punto della situazione. Soprattutto -il buono è qui- si stringono relazioni di vicinato che rendono possibile un intervento positivo sul proprio territorio. Il tema della sicurezza e della difesa dal crimine può “secondarizzarsi”, diventando solo uno dei molti temi di intervento. Il “controllo di vicinato” può occuparsi di un albero pericolante, ma anche di piantarne di nuovi. Può richiedere la chiusura del campo rom, ma anche prendere iniziative per l’integrazione dei bambini che ci vivono. Più femminile, meno maschile.
Uno spirito edificante che fa la differenza. Pensiamoci.
p.s: mi fanno giustamente notare che il concetto di “controllo” è bruttino, che si dovrebbe parlare di condivisione e mutuo aiuto. Giusto. Pensiamo pure a questo.