Browsing Tag

roberta tatafiore

Corpo-anima, Donne e Uomini, Femminismo, Libri Maggio 21, 2014

Il corpo non è (solo) mio

Ecco un post di Ida Dominijanni che potrebbe esservi sfuggito e che ragiona con molta intelligenza sulla questione che io avevo posto qui  (nota come diatriba tra femministe moraliste e immoraliste).

Ida cita la femminista americana Judith Butler, il cui percorso andrebbe osservato con grande attenzione. In particolare si riferisce a quel passaggio in cui Butler problematizza “il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”.

Alcuni giorni fa, commentando il libro di Annalisa Chirico “Siamo tutti puttane”, un’amica scriveva amaramente Cara Marina, in giro c’è molto impazzimento e ci sono anche molte “figlie degeneri” del femminismo, inconsapevoli e consapevoli. Il libro della Chirico è il frutto impazzito del mito dell’autodeterminazione, anche per come la nostra generazione l’ha  elaborato e risputato“.

Mi pare che la mia amica e Dominijanni-Butler stiano dicendo qualcosa di molto simile.

Affermare “il corpo è mio” è stato necessario per dire che finalmente non era (più) proprietà di altri, e segnatamente del patriarca che ne disponeva. Voleva dire “il mio corpo non è tuo”, ed era la libertà di significare il proprio destino e la felicità del proprio desiderio (festosamente praticato, assicuro). Ma, più a fondo, significava che il corpo non poteva essere più pensato come oggetto né strumento per nessuno, nemmeno per noi stesse che lo “gestivamo”.

Dicendo ”il corpo è mio e non è mio”, Butler esplora questo fondo e rompe con l’inganno dell’individuo assoluto, ovvero sciolto da ogni legame e titolare di bellicosi diritti, fra cui quello di pensare il proprio corpo come strumento di una volontà immateriale che ne dispone. E assumendo che ciò che chiamiamo io è immediatamente in relazione, non esiste un solo momento in cui non lo sia. Che fuori dalla rete di relazioni che lo definiscono e lo contengono, nel bene e nel male, l’io non è. E che quello che faccio del mio corpo non riguarda solo me.

(forse oggi diremmo “il corpo sono io”, pur maneggiando con cautela sia il concetto di corpo sia quello di io).

A partire da queste considerazioni potrebbe forse riaprirsi il discorso sulla prostituzione, come fenomeno e anche come paradigma: in questo modo ci viene proposto da Chirico che, scrive Dominijanni, “associa il mito femminista dell’assoluta proprietà del corpo alla precettistica neoliberale dell’autoimprenditorialità e dell’autosfruttamento del proprio capitale umano, corporeo e sessuale. Siamo infatti precisamente a questo punto… al rischio della completa sussunzione della libertà femminile nella libertà di mercato“.

Per dirla alla buona: il corpo è mio e lo gestisco secondo le leggi di mercato.

Un nuovo discorso sulla prostituzione in effetti sembra piuttosto urgente: girano svariate proposte di legge accomunate dall’insofferenza alla legge Merlin, e che tendono non solo a normare e regolamentare, ma anche a “normalizzare” il sesso a pagamento come modello naturale delle relazioni tra i sessi.

Fra le tante cose scritte da Chirico -molte delle quali ibrido di furbizia e disinformazia: anche la propria intelligenza può essere gestita secondo le leggi di mercato- il vero colpo al cuore me l’ha dato vedere nominata Roberta Tatafiore. Che del suo corpo e della sua sessualità ha fatto, come direbbe Etty Hillesum, campo di battaglia. E non per partecipare a buchmesse o a talkshow, non per le leggi di mercato o per fare carriera, ma per amore dell’umano. E fino al suo ultimo respiro.

 

Corpo-anima, esperienze, Politica Novembre 30, 2011

VITE POLITICHE

Io faccio fatica a parlare dei suicidi. Sono sempre trattenuta dal pudore, e dal rispetto.

Sulla morte assistita di Lucio Magri mi viene una domanda stupida: se prima di arrendersi -la lotta è stata strenua, dura, era andato altre volte in Svizzera per morire, la vita non voleva mollare– non avesse almeno provato con quelle stramaledette pillole.

Lucio Magri non lo conoscevo. Conoscevo Roberta Tatafiore, e Alex Langer. Tutti e tre hanno scelto di morire, e in modi molto diversi. Tutti e tre facevano o avevano fatto intensissimamente politica. Mi domando se una passione politica divorante, un amore per gli altri e per il mondo troppo grande, costituiscano  un fattore di rischio. Quando lo slancio è troppo ardito, lo sguardo troppo acuto,  forse le delusioni sono troppo cocenti, le disillusioni troppo feroci per poter essere sopportate.

Ad Alex, in particolare, penso ogni giorno. Lo sento. Vorrei che fosse qui a vedere che molto di quello lui aveva saputo vedere e indicare con il suo impegno ambientalista -un lavoro terribile, senza risparmio- ora lo stanno vedendo in tanti. E’ pane comune.

La sua stessa vita è stata pane, ha nutrito così tanti. E anche la vita di Roberta, e quella di Magri.

Non ho voglia di parlare di eutanasia e di diritto a morire, di scagliarmi in uno di quei furiosi dibattiti da cui non si porta mai via niente più di quello che già sappiamo e crediamo. Mi viene da fare ombra, su questo passaggio ultimo, per accendere la luce su tutto quello che è stato prima.

Vite così ricche, così generose da non finire mai.

 

Senza categoria, TEMPI MODERNI Aprile 27, 2009

L'INVENZIONE DELLA SOLITUDINE

Mi domando se Roberta Tatafiore non abbia deciso di andarsene “semplicemente” perché stava diventando vecchia, come lo diventiamo tutti, e non sopportava l’idea di se stessa bisognosa e dipendente, senza nemmeno una figlia -o almeno un figlio- a cui appoggiarsi. Mia madre e io abbiamo sempre molto litigato, ma credo che oggi, pur dichiarando a ogni pie’ sospinto la sua orgogliosa autosufficienza, lei si senta molto rassicurata dalla mia presenza e dalla mia costante attenzione. Una figlia femmina, capace di cure, è una grande risorsa. Con i maschi in genere è tutto più complicato.

Risparmiamo e investiamo molte risorse in pensioni integrative e altri congegni di sicurezza, ma la gran parte di noi, se tutto andrà bene, potrà contare solo sulla pazienza di una ragazza ucraina o sudamericana che magari avrà dovuto lasciare i suoi figli per venire a occuparsi di noi. Figuriamoci che felicità.

Questo modo di condurci è scellerato, e alle generazioni che seguiranno andrà probabilmente peggio. Abbiano disfatto la famiglia, e non siamo riusciti a inventarci nient’altro che solitudine, noi, animali naturalmente sociali. Ma a tutto questo non poniamo mai attenzione.

Politica, TEMPI MODERNI Aprile 17, 2009

UN SUICIDIO POLITICO

Se potessi intervistare Roberta Tatafiore sul suo suicidio sono certa che avrebbe da dirmi qualcosa di sorprendente. Dico “intervistare” perché il mio rapporto con lei, da quasi trent’anni, era di attenzione e di scambio di pensiero: stavamo in due città diverse e non ero tra le sue amiche strette, e oggi grande parte del loro dolore mi è risparmiato. Quando le parlavo ero sempre sicura di non trovarla là dove mi sarei aspettata, ma sempre un passo oltre, a forzare il limite di una libertà che lei concepiva come estrema e lancinante.
Non l’ho conosciuta abbastanza a fondo, come dicevo, per potermi fare un’idea sull’imprinting di questo suo impulso a cercare e rovistare senza protezioni ideologiche, senza fare caso ai rovi, ai graffi, al male che inevitabilmente si faceva – e di certo sarà stato lì, come per tutti, all’origine, nello spazio sconfinato tra il corpo della madre e quello del padre-, ma mi sento di dire che questo lavoro doloroso lei l’ha fatto per tutti. E che con la sua clamorosa uscita, in qualunque modo lei abbia voluto motivarla, l’ha portato a compimento.
Posso dire di lei solo dicendo di me, partendo da me -come faceva sempre anche lei- per capire quello che è accaduto, raccontando il definitivo mutamento del mio paesaggio interiore per dire quello che è capitato fuori. E anzi opponendole me stessa e il mio senso delle cose, come tante volte mi è capitato di fare con lei viva.
Mi sono fatta l’idea che Roberta sia voluta andare a frugare anche oltre quel limite, il limite dei limiti, e dato che farlo con la testa non bastava l’ha fatto anche con il corpo: faceva parecchie cose con il corpo, credeva alla sua sapienza insostituibile. E la sua meticolosa e impietosa esplorazione di eros forse è leggibile anche come una lunghissima preparazione, lunga quanto tutta la sua vita, all’incontro con la morte, con cui ha voluto giocare alla pari, senza lasciarsi sorprendere, e anzi sorprendendola lei con un ultimo gesto di ricerca e di libertà, stoico e politico.
Dico politico per almeno due ragioni: perché il suo suicidio, come quello di Alexander Langer –hanno, o avrebbero avuto, più o meno la stessa età- è la resa di un Hoffnungsträger, di un portatore di speranza schiacciato dall’enormità del peso che sta portando, e tuttavia condannato a portarlo anche da morto, perché chi pensa a lei-lui continua a pensarlo per quello che è stato e ad aggrapparsi alle sue spalle. Anche Roberta la penso come una Hoffnungsträger, probabilmente suo malgrado, perché per me e per tante lo è stata. Io speravo sempre che avesse trovato qualcosa di luminoso, quando la interpellavo. E forse non avrebbe cercato così tanto se non fosse stato per la speranza, e anzi la certezza di poter trovare qualcosa di decisivo in un altrove che vedeva spostarsi sempre più in là.
Penso al suo suicidio come politico anche perché oggi non c’è niente di più politico del discorso sui fondamentali, sulla vita e sulla morte: la cosiddetta biopolitica. La vicenda Englaro l’aveva evidentemente presa anima e corpo, anche nel corpo nel senso che dicevo prima. E se non per la sua morte, per il suo post mortem –la gestione del suo memoriale- Roberta ha voluto dimostrativamente affidarsi a quella relazione, “a quella “zona grigia sottratta al controllo statale” che le era parsa, come pare anche a me, la sola alternativa alla burocratizzazione delle morte e all’impossibilità di morire in pace. Lo dice nel suo ultimo articolo, pubblicato a metà febbraio sul sito Donnealtri, che si conclude così: “Mi chiedo come fare, qui e ora nel mio paese, a mettere la sordina a quel “dispiegamento di potenza”… che ha fatto il bello e il cattivo tempo nella politica e sui media intorno alla umana troppo umana vicenda di Eluana Englaro. Non trovo risposta, ma so che dare una risposta è essenziale”.
Ecco, la risposta è arrivata. Il paradosso è questo, e Roberta mi perdoni, se ancora è, e dovunque sia, ma io sto cercando di fare una critica della sua vita, morte compresa: che per dire la sua irriducibile e dolente libertà –è strano come tante si siano affrettate a dire che non c’era un dolore: il dolore c’è sempre, e capita che sia soverchiante- le sia toccato usare la lingua di chi ha voluto dire l’irriducibile legame. Che è stato, anzi, il legame, è questo il senso vero dell’attributo di Logos, o Verbo. E cioè: prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo. Per onorare Roberta, la libera, io mi prendo la scandalosa libertà di dire questa cosa che penso con tutto il cuore. E mi domando se non è sempre lì, alla fine, in questo darsi da mangiare agli altri, in questo sacrificio per gli altri, che va a parare l’umanità più bella.

(pubblicato su Il Foglio, 17 aprile 2009)

esperienze, OSPITI Aprile 15, 2009

ROBERTA, LA LIBERA

E’ morta suicida ieri a Roma Roberta Tatafiore. Era una femminista, e una delle creature più libere che io abbia mai conosciuto. Sul Foglio di stamattina è scritto che “era fatta per la libertà. E’ stata questa, in fondo, la sua unica, vera e convinta militanza”, ed è proprio così. L’ho conosciuta che ero una ragazzina, e lei già una donna, generosissima nel mettere a disposizione quello che della vita aveva capito. E il suo modo di capire e di affrontare la vita mi era parso da subito diverso da quello di quasi tutti.

Il suo è stato un suicidio programmato, a lungo e meticolosamente preparato, a quanto pare all’insaputa di tutti. E’ attesa una sua lettera-memoriale, in cui Roberta verosimilmente dirà di sé e della sua scelta quello che avrà ritenuto essenziale dire. Ma il suo gesto -in un albergo della capitale, non lontano dalla sua casa- si presenta da subito e ancora in una prospettiva di libertà, declinata all’estremo.

Roberta ha lavorato a lungo per Noi donne, ha scritto per Il Manifesto e ultimamente per svariati quotidiani tra cui Il Giornale e Il Foglio, ha diretto Lucciola, mensile del comitato per i diritti civili delle prostitute, e ha lasciato vari saggi, tra cui Sesso al lavoro. Collaborava anche per il sito Donnealtri, e questo sul caso Englaro, intitolato La morte libera tra anarchia e diritto e pubblicato in febbraio -ve ne proponiamo alcuni stralci- è probabilmente l’ultimo tra i suoi interventi.

A corpo freddo (di Eluana) e a mente raggelata (la mia) mi interrogo sulle ragioni dell’esito paradossale del cosiddetto Caso Englaro : il padre di Eluana è riuscito sì a liberare sua figlia da una vita-non vita (e in questo gli va tutta la mia solidarietà), ma a un prezzo molto alto: avremo la legge peggiore che esista al mondo sulle volontà di fine vita, malgrado la grande mobilitazione di tante teste competenti e intelligenti e dei sempre generosi Radicali per far sì che ciò non avvenga. A meno di clamorosi cambiamenti durante l‘iter accelerato della legge, dopo la legge la libertà di donne e uomini farà un passo indietro altrettanto clamoroso. La vittoria del padre di Eluana per sua figlia, sancita dai tribunali, si rovescerà in una sconfitta per tutti – sancita dal parlamento. Una vittoria di Pirro, politicamente parlando.
Anche in altri paesi, quelli ai quali dovremmo somigliare, è aumentata la presa del potere religioso (segnatamente cattolico) che pretende di azzerare il pluralismo etico, insito in qualsiasi società, e di imporre erga omnes una morale confessionale. Ma da noi la Chiesa si incontra con la maggioranza del ceto politico, tanto di governo quanto di opposizione, e riesce a far sì che la sua visione morale venga sussunta nelle leggi emanate da governo e parlamento.
E’ il trionfo della “religione civile”, lanciata dal duo Ratzinger-Pera anni fa che ha inaugurato un nuovo tipo di statalismo: lo statalismo chiesastico. Di conseguenza, nei suddetti altri paesi, il conflitto inevitabile tra i diversi modi di intendere a chi appartiene la propria vita – dalla nascita alla morte – non è così violento e sgangherato come in Italia…

Il fatto è che nelle società in cui viviamo, non ci sono che due modi di morire di propria volontà: ricorrere al suicidio (che, non a caso, in tedesco si chiama Freitod, libera morte) oppure affidarsi alla legge che stabilisce i confini entro i quali uno, alcuni o alcuni altri, possono accelerare la nostra dipartita. La legge ci mette a disposizione il testamento biologico (e chiamiamolo così, per piacere, visto che i parlamentari, tanto di maggioranza quanto di opposizione, hanno cassato la parola testamento perché alluderebbe al fatto che la vita sarebbe “bene disponibile”) in caso diventiamo incoscienti e impossibilitati a decidere, il suicidio assistito e l’eutanasia in caso siamo capaci di decidere.
Ma poiché il morire è cosa spiritualmente e esistenzialmente pregnante, nonché materialmente complicata, se non possiamo o non vogliamo morire di nostra mano, se non possiamo o non vogliamo aspettare che il nostro destino si compia in base alla legge naturale (che di naturale ha ormai ben poco visto che le nuove tecnologie della cura possono prolungare la vita ad libitum) altra scelta non abbiamo che sperare, sperare che pietà umana e perizia medica ci accompagnino nel trapasso in un luogo necessariamente pubblico (una clinica, un ospedale, un hospice) perché regolato da norme pubbliche.
Nella nostra solitudine di morenti saremo comunque creature dolenti e bisognose, aggrappate alla vita e timorose della morte, e – coscienti o non coscienti – delegheremo allo stato la nostra esecuzione. Non è una prospettiva esaltante…