Ecco un post di Ida Dominijanni che potrebbe esservi sfuggito e che ragiona con molta intelligenza sulla questione che io avevo posto qui (nota come diatriba tra femministe moraliste e immoraliste).
Ida cita la femminista americana Judith Butler, il cui percorso andrebbe osservato con grande attenzione. In particolare si riferisce a quel passaggio in cui Butler problematizza “il principio femminista della assoluta e intangibile sovranità individuale sul proprio corpo – ”il corpo è mio e lo gestisco io” – scrivendo che ”il corpo è mio e non è mio”.
Alcuni giorni fa, commentando il libro di Annalisa Chirico “Siamo tutti puttane”, un’amica scriveva amaramente “Cara Marina, in giro c’è molto impazzimento e ci sono anche molte “figlie degeneri” del femminismo, inconsapevoli e consapevoli. Il libro della Chirico è il frutto impazzito del mito dell’autodeterminazione, anche per come la nostra generazione l’ha elaborato e risputato“.
Mi pare che la mia amica e Dominijanni-Butler stiano dicendo qualcosa di molto simile.
Affermare “il corpo è mio” è stato necessario per dire che finalmente non era (più) proprietà di altri, e segnatamente del patriarca che ne disponeva. Voleva dire “il mio corpo non è tuo”, ed era la libertà di significare il proprio destino e la felicità del proprio desiderio (festosamente praticato, assicuro). Ma, più a fondo, significava che il corpo non poteva essere più pensato come oggetto né strumento per nessuno, nemmeno per noi stesse che lo “gestivamo”.
Dicendo ”il corpo è mio e non è mio”, Butler esplora questo fondo e rompe con l’inganno dell’individuo assoluto, ovvero sciolto da ogni legame e titolare di bellicosi diritti, fra cui quello di pensare il proprio corpo come strumento di una volontà immateriale che ne dispone. E assumendo che ciò che chiamiamo io è immediatamente in relazione, non esiste un solo momento in cui non lo sia. Che fuori dalla rete di relazioni che lo definiscono e lo contengono, nel bene e nel male, l’io non è. E che quello che faccio del mio corpo non riguarda solo me.
(forse oggi diremmo “il corpo sono io”, pur maneggiando con cautela sia il concetto di corpo sia quello di io).
A partire da queste considerazioni potrebbe forse riaprirsi il discorso sulla prostituzione, come fenomeno e anche come paradigma: in questo modo ci viene proposto da Chirico che, scrive Dominijanni, “associa il mito femminista dell’assoluta proprietà del corpo alla precettistica neoliberale dell’autoimprenditorialità e dell’autosfruttamento del proprio capitale umano, corporeo e sessuale. Siamo infatti precisamente a questo punto… al rischio della completa sussunzione della libertà femminile nella libertà di mercato“.
Per dirla alla buona: il corpo è mio e lo gestisco secondo le leggi di mercato.
Un nuovo discorso sulla prostituzione in effetti sembra piuttosto urgente: girano svariate proposte di legge accomunate dall’insofferenza alla legge Merlin, e che tendono non solo a normare e regolamentare, ma anche a “normalizzare” il sesso a pagamento come modello naturale delle relazioni tra i sessi.
Fra le tante cose scritte da Chirico -molte delle quali ibrido di furbizia e disinformazia: anche la propria intelligenza può essere gestita secondo le leggi di mercato- il vero colpo al cuore me l’ha dato vedere nominata Roberta Tatafiore. Che del suo corpo e della sua sessualità ha fatto, come direbbe Etty Hillesum, campo di battaglia. E non per partecipare a buchmesse o a talkshow, non per le leggi di mercato o per fare carriera, ma per amore dell’umano. E fino al suo ultimo respiro.