E’ morta suicida ieri a Roma Roberta Tatafiore. Era una femminista, e una delle creature più libere che io abbia mai conosciuto. Sul Foglio di stamattina è scritto che “era fatta per la libertà. E’ stata questa, in fondo, la sua unica, vera e convinta militanza”, ed è proprio così. L’ho conosciuta che ero una ragazzina, e lei già una donna, generosissima nel mettere a disposizione quello che della vita aveva capito. E il suo modo di capire e di affrontare la vita mi era parso da subito diverso da quello di quasi tutti.

Il suo è stato un suicidio programmato, a lungo e meticolosamente preparato, a quanto pare all’insaputa di tutti. E’ attesa una sua lettera-memoriale, in cui Roberta verosimilmente dirà di sé e della sua scelta quello che avrà ritenuto essenziale dire. Ma il suo gesto -in un albergo della capitale, non lontano dalla sua casa- si presenta da subito e ancora in una prospettiva di libertà, declinata all’estremo.

Roberta ha lavorato a lungo per Noi donne, ha scritto per Il Manifesto e ultimamente per svariati quotidiani tra cui Il Giornale e Il Foglio, ha diretto Lucciola, mensile del comitato per i diritti civili delle prostitute, e ha lasciato vari saggi, tra cui Sesso al lavoro. Collaborava anche per il sito Donnealtri, e questo sul caso Englaro, intitolato La morte libera tra anarchia e diritto e pubblicato in febbraio -ve ne proponiamo alcuni stralci- è probabilmente l’ultimo tra i suoi interventi.

A corpo freddo (di Eluana) e a mente raggelata (la mia) mi interrogo sulle ragioni dell’esito paradossale del cosiddetto Caso Englaro : il padre di Eluana è riuscito sì a liberare sua figlia da una vita-non vita (e in questo gli va tutta la mia solidarietà), ma a un prezzo molto alto: avremo la legge peggiore che esista al mondo sulle volontà di fine vita, malgrado la grande mobilitazione di tante teste competenti e intelligenti e dei sempre generosi Radicali per far sì che ciò non avvenga. A meno di clamorosi cambiamenti durante l‘iter accelerato della legge, dopo la legge la libertà di donne e uomini farà un passo indietro altrettanto clamoroso. La vittoria del padre di Eluana per sua figlia, sancita dai tribunali, si rovescerà in una sconfitta per tutti – sancita dal parlamento. Una vittoria di Pirro, politicamente parlando.
Anche in altri paesi, quelli ai quali dovremmo somigliare, è aumentata la presa del potere religioso (segnatamente cattolico) che pretende di azzerare il pluralismo etico, insito in qualsiasi società, e di imporre erga omnes una morale confessionale. Ma da noi la Chiesa si incontra con la maggioranza del ceto politico, tanto di governo quanto di opposizione, e riesce a far sì che la sua visione morale venga sussunta nelle leggi emanate da governo e parlamento.
E’ il trionfo della “religione civile”, lanciata dal duo Ratzinger-Pera anni fa che ha inaugurato un nuovo tipo di statalismo: lo statalismo chiesastico. Di conseguenza, nei suddetti altri paesi, il conflitto inevitabile tra i diversi modi di intendere a chi appartiene la propria vita – dalla nascita alla morte – non è così violento e sgangherato come in Italia…

Il fatto è che nelle società in cui viviamo, non ci sono che due modi di morire di propria volontà: ricorrere al suicidio (che, non a caso, in tedesco si chiama Freitod, libera morte) oppure affidarsi alla legge che stabilisce i confini entro i quali uno, alcuni o alcuni altri, possono accelerare la nostra dipartita. La legge ci mette a disposizione il testamento biologico (e chiamiamolo così, per piacere, visto che i parlamentari, tanto di maggioranza quanto di opposizione, hanno cassato la parola testamento perché alluderebbe al fatto che la vita sarebbe “bene disponibile”) in caso diventiamo incoscienti e impossibilitati a decidere, il suicidio assistito e l’eutanasia in caso siamo capaci di decidere.
Ma poiché il morire è cosa spiritualmente e esistenzialmente pregnante, nonché materialmente complicata, se non possiamo o non vogliamo morire di nostra mano, se non possiamo o non vogliamo aspettare che il nostro destino si compia in base alla legge naturale (che di naturale ha ormai ben poco visto che le nuove tecnologie della cura possono prolungare la vita ad libitum) altra scelta non abbiamo che sperare, sperare che pietà umana e perizia medica ci accompagnino nel trapasso in un luogo necessariamente pubblico (una clinica, un ospedale, un hospice) perché regolato da norme pubbliche.
Nella nostra solitudine di morenti saremo comunque creature dolenti e bisognose, aggrappate alla vita e timorose della morte, e – coscienti o non coscienti – delegheremo allo stato la nostra esecuzione. Non è una prospettiva esaltante…

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