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economics, Politica Giugno 20, 2013

Meritocrazia? Io non ne vedo

Pensavo stamattina che, crisi o non crisi, una delle principali ragioni per cui tante cose vanno male è che vengono condotte male.

Tutti noi abbiamo fatto esperienza di insegnanti incapaci di insegnare, dirigenti incapaci di dirigere, capi incapaci di capeggiare, rappresentanti incapaci di rappresentare. E, corrispettivamente di veri talenti in tutti i settori tenuti fuori dalle linee di decisione e di comando in quanto “incontrollabili” e perciò “inaffidabili”.

Ne ho parlato anche con Vandana Shiva, quando l’ho incontrata: possibile che i sapienti e gli illuminati che ci sono stati dati in dono siano buoni solo per scrivere livre de chevet o per animare dibattiti, e mai per decidere ciò che va deciso, mai per fare politica? Questo vale in particolar modo per il nostro Paese, patria del familismo e della raccomandazione. Ho sempre pensato che una quota fisiologica di raccomandati va messa nel conto, ma negli anni ho visto ingigantirsi questa quota fino a diventare maggioritaria e sempre più arrogante: i mediocri fanno blocco tra loro e sbarrano la strada ai più capaci.

Il termine “meritocrazia” è bruttino, ma da qualche tempo non si fa più nemmeno la fatica di pronunciarlo, nemmeno per fare un po’ di scena. Sembra che non si prenda più in considerazione l’ipotesi di affidarsi, per uscire dai guai, a chi avrebbe capacità e idee per tirarcene fuori. Anzi: nella penuria, la situazione si aggrava, e i non-capaci serrano le fila. Dice Roger Abravanel, autore del saggio “Meritocrazia” che “negli USA, patria della meritocrazia, le “recommendations” portano a riempire un posto di lavoro su due. Si tratta però di “raccomandazioni” molto diverse dalle nostre. Chi segnala qualcuno particolarmente bravo e adatto per un posto di lavoro lo fa con grande cautela, perché mette in gioco la propria stessa reputazione e risponderà moralmente della performance della persona segnalata; da noi, invece, si raccomandano con leggerezza persone che non si conoscono (dal punto di vista delle capacità professionali) per posti di lavoro che non si conoscono“.

Una delle ragioni per cui il merito viene osteggiato è l‘idea egualitaristica che pensa alla meritocrazia come a un’ingiusta aristocrazia, in cui solo i migliori avrebbero opportunità e tutti gli altri rimarrebbero indietro. E invece alla nostra non-meritocrazia corrisponde una delle società più ineguali dell’Occidente, con ridottissime chance di mobilità sociale. La valorizzazione del merito è una chance, non un ostacolo alla democrazia.

Parlo anche per il mio settore, l’editoria, in questo momento nell’occhio del ciclone. Tra le molte ragioni della crisi c’è anche l’abbassamento della qualità dei prodotti editoriali, e proprio il fatto che sono stati sempre più spesso trattati come semplici “prodotti”. La marcia va invertita. Si deve avere il minimo coraggio di affidare i giornali, i libri e i siti web a chi sa fare i giornali, i libri e i siti web.

Mi racconta un collega di aver dovuto spiegare a un superiore che quello che per lui era un refuso da correggere, era in realtà un semplice hashtag: la produzione web doveva rispondere a qualcuno che non disponeva nemmeno dei minimi.

Ovvio che così non si va da nessuna parte.

Raccontateci un po’ di storie, se ne avete.

p.s.: devo dire che a me le parole “merito” e “meritocrazia” non piacciono affatto. Preferisco “autorità” (rimando alla lettura dell’ultimo saggio di Luisa Muraro, intitolato per l’appunto “Autorità”). Ma usandolo ci metteremmo in un ginepraio simbolico, e quindi al momento faccio riferimento a quei due termini, più comunemente usati.

esperienze, TEMPI MODERNI, tv Dicembre 10, 2012

L’X Factor di X Factor

Hey, ma cosa fai, con i casini che abbiamo ti metti a parlare di X Factor? Be’, è proprio perché abbiamo questi casini, e una da qualche parte deve tirare fuori l’energia, e la musica è uno dei modi più perfetti in cui l’energia che noi tutti siamo si manifesta.

Mi sono goduta immensamente X Factor 2012, puntata dopo puntata. Grandissimo show, visivamente e musicalmente parlando. Ma l’X Factor di X Factor è questo, secondo me: poter scoprire il talento sorgivo nella sua nudità e nella sua forza intatta, osservare come può essere forgiato, valorizzato, perfezionato dall’esperienza dei maestri -lì li chiamano vocal coach-. Essere pressoché certi che, a differenza dallla gran parte delle gare canore, con i discografici che manovrano e pilotano, lì c’è poco da “raccomandare”: e allora ti senti come un loggionista del Regio o della Scala, non sei tenuto ad avere riguardo per nessuno, se uno è bravo è bravo, se non lo è non lo è e va a casa.

Essendo grandicella sono ben consapevole del fatto che qualche particella impura non manca mai: magari qualche raccomandatello/a c’è pure lì, qualcuno che spinge non manca di sicuro. Ma la quota è fisiologica, siamo nella media occidentale, non è quel 99 a 1 del nostro Paese familista amorale, dove la domanda non è “che cosa sai fare?”, ma “come nasci?” e “a chi appartieni?”. E vale per tutte, dico tutte le categorie.

X Factor mi piace soprattutto per questo -forse perché il format è americano, e lì gli amici degli amici non possono superare una certa soglia-. Mi piace perché è uno show anomalo, con uno spirito anomalo, la famosa “meritocrazia” (Dio che termine orribile per dire la volontà di Dio).  Perché passano i più bravi e i meno bravi cadono, puntata dopo puntata. Una ragazzotta di Saonara, che sembra un posto del Giappone e invece è in provincia di Padova –Chiara Galiazzo, una di quelle voci che nascono ogni cent’anni, che ha vinto senza discussioni, sta già sbancando le classifiche e se finirà in buone mani potrebbe diventare una stella internazionale, sentitela qui e qui-, un fiol di Marostica bello come il sole che faceva il caldaista e canta come l’Arcangelo Gabriele, pulito e sincero, e che nelle mani giuste potrebbe diventare un ottimo crooner (Davide Merlin, 20 anni).

E tra i 4 giudici, Morgan a viso scoperto, il contrario di tutte le ipocrisie, una strepitosa cultura musicale da mettere in comune, una tenera e pudica ma anche esigente vena paterna con i suoi “cuccioli”.

Insomma, un gran bello show. Che dice, come sempre l’arte quando è arte, da che parte si dovrebbe andare, e come dovrebbe diventare questo Paese disperato e pieno di talenti.

Politica Dicembre 20, 2008

LA BELLA CATASTROFE

“Oggi non bastano il merito, l’impegno e neanche la fortuna per trovare lavoro” scrive Roberto Saviano su Repubblica. “Condizione necessaria, anche per la persona di talento, è rientrare in uno scambio di favori”. E’ proprio così. Non si “spreca” una posizione, specie se è buona, dandola semplicemente a una o a uno capace e giusta/o per quel posto; gliela si dà solo se l’offerta va a nutrire anche la logica dello scambio -nei casi migliori-, o solo la logica dello scambio (eventualmente anche sessuale). Se offrendo a una/o questa posizione, insomma, si fa un favore a qualcuno, che a sua volta sarà tenuto a ricambiare.

I buoni risultati -perfino il profitto, in un’azienda- contano molto meno dei risultati che si ottengono nel mondo duplex dello scambio. Capita dappertutto in questo paese, al Sud e anche al Nord. Una persona di valore, che dal Sud è fuggita per sottrarsi a questa logica imperante, dice che l’ha ritrovata al Nord: più sottile, sofisticata, intermittente. Ma c’era cresciuto in mezzo, aveva naso per riconoscerla, e l’ha riconosciuta. A Palermo, precisamente in via Maqueda, ho visto un manifestino scritto a mano attaccato a un muro: “Cerco lavoro, ma non ho raccomandazione”. Non è detto che fosse una trovata, tra sarcasmo e disperazione. Qui la cosa è meno esplicita, ma altrettanto corrente. Una volta le cose non andavano così. Ma la mutazione è avvenuta. Naturalmente, più ci si avvicina alla politica politicante, e più le maglie si stringono. I lavori contigui alla politica non sfuggono mai a questa logica. Se si sa di una/o a cui è stata offerta una certa posizione, la domanda è sempre: perché lui? (chi lo protegge? di chi è parente, o amico?) o perché lei? (con chi va a letto? di chi è moglie?). Be’, nove su dieci ci si imbrocca. Il paradosso è che la democrazia rappresentativa sarebbe lì a garantirci contro questa logica, o almeno ad arginarla, e invece ne è stata quasi del tutto divorata, e come si è visto ormai senza significative differenze tra destra e sinistra. Mio figlio, che ha vent’anni, si stupisce dello stupore di noi adulti: “Perché ti aspetti più moralità dalla sinistra?”. E come glielo spiego, io? A mio marito dicevo, a proposito di Napoli e di certi politici coinvolti, di cui non si sarebbe mai detto: “Probabilmente hanno pensato: tanto, se non lo faccio io, lo farà qualcun altro”. Fine delle scenette familiari.

E’ molto generoso da parte di Veltroni cercare di traghettare il Pd verso il nuovo. La sua generosità dovrebbe spingersi fino a comprendere che questo nuovo non potrà essere lui a rappresentarlo (e nemmeno D’Alema, intendiamoci). Ha giocato la sua partita e l’ha persa. Non si tratta di cercarlo, questo nuovo. Si tratta semplicemente di non sbarrargli più la strada. Come ho già detto tante volte, le donne -e non quelle maschilizzate del partito, ma le altre-, i giovani, i meritevoli. Non dovremmo più sbarrare la strada al nuovo che c’è già. Si tratta per tutti noi, individualmente, di vivere come se questo mondo ci fosse già, se questo altrove fosse già qui: pratica femminile, quella di stare vicino a ciò che ancora non c’è, e nutrirlo, e anche gandhiana. Non si tratta di chiedersi come si fa a fare questo. E’ mentre lo fai, che trovi la risposta. Ho già scritto in un commento stanotte, e ve o ripropongo qui, più in vista: il mutamento potrebbe capitare all’improvviso, così come le catastrofi -nel senso di riuscita, scioglimento del dramma- che sembrano inaspettate e invece sono lungamente preparate. Quello che conta è spasimare il cambiamento, e aspettarcelo tutti. Allora arriverà, e lo sapremo riconoscere. Quello che conta è comportarsi come se il cambiamento fosse già avvenuto -quello che sta capitando all’economia fa parte dei prodromi-in tutte le cose che facciamo. Vivere come delle premonizioni viventi, in un mondo in cui la catastrofe c’è già stata. E allora il mondo dovrà adeguarsi allo sguardo con cui lo guardiamo.