Pensavo stamattina che, crisi o non crisi, una delle principali ragioni per cui tante cose vanno male è che vengono condotte male.

Tutti noi abbiamo fatto esperienza di insegnanti incapaci di insegnare, dirigenti incapaci di dirigere, capi incapaci di capeggiare, rappresentanti incapaci di rappresentare. E, corrispettivamente di veri talenti in tutti i settori tenuti fuori dalle linee di decisione e di comando in quanto “incontrollabili” e perciò “inaffidabili”.

Ne ho parlato anche con Vandana Shiva, quando l’ho incontrata: possibile che i sapienti e gli illuminati che ci sono stati dati in dono siano buoni solo per scrivere livre de chevet o per animare dibattiti, e mai per decidere ciò che va deciso, mai per fare politica? Questo vale in particolar modo per il nostro Paese, patria del familismo e della raccomandazione. Ho sempre pensato che una quota fisiologica di raccomandati va messa nel conto, ma negli anni ho visto ingigantirsi questa quota fino a diventare maggioritaria e sempre più arrogante: i mediocri fanno blocco tra loro e sbarrano la strada ai più capaci.

Il termine “meritocrazia” è bruttino, ma da qualche tempo non si fa più nemmeno la fatica di pronunciarlo, nemmeno per fare un po’ di scena. Sembra che non si prenda più in considerazione l’ipotesi di affidarsi, per uscire dai guai, a chi avrebbe capacità e idee per tirarcene fuori. Anzi: nella penuria, la situazione si aggrava, e i non-capaci serrano le fila. Dice Roger Abravanel, autore del saggio “Meritocrazia” che “negli USA, patria della meritocrazia, le “recommendations” portano a riempire un posto di lavoro su due. Si tratta però di “raccomandazioni” molto diverse dalle nostre. Chi segnala qualcuno particolarmente bravo e adatto per un posto di lavoro lo fa con grande cautela, perché mette in gioco la propria stessa reputazione e risponderà moralmente della performance della persona segnalata; da noi, invece, si raccomandano con leggerezza persone che non si conoscono (dal punto di vista delle capacità professionali) per posti di lavoro che non si conoscono“.

Una delle ragioni per cui il merito viene osteggiato è l‘idea egualitaristica che pensa alla meritocrazia come a un’ingiusta aristocrazia, in cui solo i migliori avrebbero opportunità e tutti gli altri rimarrebbero indietro. E invece alla nostra non-meritocrazia corrisponde una delle società più ineguali dell’Occidente, con ridottissime chance di mobilità sociale. La valorizzazione del merito è una chance, non un ostacolo alla democrazia.

Parlo anche per il mio settore, l’editoria, in questo momento nell’occhio del ciclone. Tra le molte ragioni della crisi c’è anche l’abbassamento della qualità dei prodotti editoriali, e proprio il fatto che sono stati sempre più spesso trattati come semplici “prodotti”. La marcia va invertita. Si deve avere il minimo coraggio di affidare i giornali, i libri e i siti web a chi sa fare i giornali, i libri e i siti web.

Mi racconta un collega di aver dovuto spiegare a un superiore che quello che per lui era un refuso da correggere, era in realtà un semplice hashtag: la produzione web doveva rispondere a qualcuno che non disponeva nemmeno dei minimi.

Ovvio che così non si va da nessuna parte.

Raccontateci un po’ di storie, se ne avete.

p.s.: devo dire che a me le parole “merito” e “meritocrazia” non piacciono affatto. Preferisco “autorità” (rimando alla lettura dell’ultimo saggio di Luisa Muraro, intitolato per l’appunto “Autorità”). Ma usandolo ci metteremmo in un ginepraio simbolico, e quindi al momento faccio riferimento a quei due termini, più comunemente usati.

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