La battaglia di Hillary Clinton suscita scarso entusiasmo tra le donne. Ma una donna nella Sala Ovale costituirebbe un enorme salto simbolico. Oltre che un formidabile argine politico al backlash patriarcale che stiamo attraversando
Ormai posso dirlo senza spoilerare: mollando quel mostro del marito Francis giusto nel pieno della sua campagna per la rielezione alla Presidenza Usa, Claire Underwood è stata tutte noi. “Ti lascio” ( “I’m not going to New Hampshire. I’m leaving you”). Il terrore di lui: senza Claire è politicamente e umanamente dimezzato. Lo charme overcontrolled di lei che esce dalla Casa Bianca con valigia.
Il momentaccio è personale: Claire non può più nascondersi il fallimento del suo matrimonio, l’immoralità assoluta del marito, la sua sostanziale inconsistenza: “Sei tu che non sei abbastanza“. Ma soprattutto politico: accompagnando Mr President nella campagna in giro per gli States, la First Lady ha avuto modo di misurare il proprio appeal sugli elettori e il proprio potenziale. Ancora una volta, non sto spoilerando: non so niente della quarta stagione di “House of Cards”, in onda solo nel febbraio 2016. Ma le premesse per uno scambio di posizioni, Claire in prima linea e Frank “first husband” o suo addirittura suo competitor, ci sono tutte.
La questione spinge fin dall’era Clinton: che Mr President fosse Mrs President era quasi luogo comune. Hillary ambiziosissima ma realista: i tempi non erano maturi per una donna alla Casa Bianca, e se non posso andarci io, vacci tu. Lesson number one per le ambiziose: assicurarsi di non andare a sbattere, mai prestarsi a fare carne da macello. Ma la quarta stagione di “House of Cards” potrebbe fare da coro-fiction alla realtà della più alta sfida mai lanciata da una donna al potere temporale: una signora nella Stanza Ovale. Più di così solo il Soglio petrino. I tempi sono maturati (sportivamente Frank Underwood si è congratulato via Twitter con Hillary, precisando tuttavia che tanto vincerà lui).
I tempi sono maturissimi, come dimostra plasticamente l’immagine qui sopra, dibattito in tv in Gran Bretagna: spaesamento assoluto del laburista Ed Milliband di fronte all’inaspettato abbraccio che lo taglia fuori tra tre donne leader dell’opposizione, Natalie Bennett dei Verdi, Nicola Sturgeon del Snp, Leanne Wood del Plaid Cymru. Stesso sguardo del presidente Underwood mentre Claire lo molla.
E ce n’è anche per noi, amiche. La battaglia per un’equa rappresentanza (ci ho scritto un libro, me ne intendo) è stata vinta con il 50/50 della giunta di Milano -quasi tutto comincia politicamente a Milano- e quindi del governo nazionale. Fase 1 completata: anche se in moltissime situazioni siamo ancora all’anno zero e non ci si deve distrarre un attimo. La fase 2 è ben altro, e comporta una battaglia dentro-e-fuori, e quell’abbraccio la illustra benissimo.
Si tratta, in poche parole, di aspirare a governare le cose del mondo non nonostante che siamo donne, ma proprio per il fatto di esserlo. Di districare questa aspirazione dalle logiche del potere maschile e dai rapporti di forza. Di stabilire nuove priorità e quindi nuove agende politiche. Di liberarsi da ogni zelo e da ogni travestitismo. Di non cancellare, ma anzi di dare visibilità alla propria differenza in qualunque posizione di responsabilità, realizzandola pienamente in quelle posizioni, quando si desidera occuparle. Di condurre fino in fondo la critica alla rappresentanza. Di sperimentare e consolidare un nuovo linguaggio politico, nuovi strumenti, nuove figure, nuove forme e nuovi paradigmi. Di pensare all’autorità femminile come pratica di governo.
Ottima lettura propedeutica: “Sovrane” di Annarosa Buttarelli (Il Saggiatore). Qui potete vedere di che cosa si tratta.