Giorgia Meloni a Verona ha detto alcune cose condivisibili (non tutte). Ma nelle sue analisi si ferma a metà del guado. E non arriva mai ad attaccare l’origine dei mali che denuncia: il patriarcato
Fontana, omogenitorialità, utero in affitto: quello che si DEVE sapere
Le dichiarazioni del ministro Fontana aprono il conflitto nel governo su omogenitorialità e utero in affitto. Rivelando una confusione e una disinformazione inaccettabili, la necessità di un ampio dibattito pubblico e la misoginia della sinistra italiana, unica pro-Gpa in Europa
Fecondazione assistita anche per le single, no all’utero in affitto: la Francia riconosce la differenza sessuale
La logica dispari riconosce asimmetria riproduttiva tra uomo e donna, al cuore della differenza sessuale. Sì alle tecnologie riproduttive per tutte le donne, anche single. No all’utero in affitto per tutti, anche per quegli uomini che vogliono cancellare la madre. Se un uomo vuole un figlio lo chieda a una donna, e non pretenda con i suoi soldi di farla scomparire.
Teniamoci il “Fertility Day”. Ma facciamolo diverso
Il Fertility Day lo terrei in piedi, anche se il nome è orribile. Risignificandolo totalmente e offrendo strumenti efficaci, alle donne prima di tutto – sono loro a decidere se mettere al mondo un figlio- perché possano liberamente decidere quando, tenendo conto di limiti naturali inaggirabili
Sempre più mamme “saltano” il congedo di maternità. Una pessima notizia: per le madri, per i bambini e per il mondo
Leggo su La 27ora l’ottimo report su maternità e lavoro: in stretta sintesi, il vecchio congedo di maternità si va estinguendo. Sempre più neo-mamme rinunciano alla “pausa-bambino” e rientrano al lavoro prima possibile. Il web è pieno di testimonial offerte come modello da seguire –ad, politiche, business women- che staccano giusto il tempo del parto per tornare alla scrivania dopo pochi giorni.
Non riesco a leggerla come una buona notizia. Per tante si tratta di fare di necessità virtù: meno ti assenti, meno rischi il posto (o per le più fortunate, la carriera). Più interessanti invece le forme di flessibilità in sostituzione del congedo: riduzione d’orario, part time.
Resto convinta che un bambino appena nato ha bisogno di stare con la mamma, e la mamma con il bambino. Si tratta di un unico organismo vivente che gradualmente diventa un due. Il momento del parto non interrompe la simbiosi –natura non facit saltus-, ne cambia semplicemente la forma. Spiega la psicologia che il processo di individuazione del nuovo nato –cioè il tempo che serve alla creatura per percepirsi come uno/a distinto dalla madre- dura ben 3 anni: i cuccioli della nostra specie sono i più lenti nell’acquisizione di autonomia. Per una lunga fase il bambino/a sente di essere la madre, com’è stato per i 9 mesi di gestazione (e in parte anche la madre “si sente” il bambino/a).
I tempi della riproduzione non cambiano in base alle esigenze della produzione: se potessero ci imporrebbero gestazioni di due mesi, o meglio ancora gravidanze extracorporee -non manca tanto-, asettiche e inodori.
Come la gran parte delle mamme sono tornata al lavoro dopo 3 mesi. Mi è mancato molto, con il senno di poi, non poter assecondare la gradualità del processo che dicevo: l’allattamento, un unico ritmo di sonno-veglia e così via. Ho perso qualcosa di importante per la mia identità, e ho fatto perdere ben di più a mio figlio.
Permettetemi di essere brutale: quando comprate un cucciolo di cane potete portarlo a casa solo dopo due mesi, quando sarà pronto ad affrontare il distacco dalla madre. Gli allevamenti più seri allungano il periodo a tre mesi. Perché non dovrebbe valere per gli esseri umani quello che vale per i cuccioli di altre specie?
Non intendo colpevolizzare le neomamme –non più di quanto colpevolizzi me stessa-, ma penso che quel tempo speciale, diverso da tutti gli altri tempi della vita, non mi sarà più restituito, e percepisco la cosa come una perdita. Soprattutto sento di aver tolto qualcosa di importante al mio bambino. A maggior ragione non posso salutare con felicità il fatto che le giovani mamme rinuncino perfino a quelle poche settimane di tempo “differente” (nel senso di occasione irripetibile per sperimentare la propria differenza femminile).
Per andare meglio, il mondo avrebbe bisogno di somigliare di più al mondo delle donne e alla coppia madre-figlio, assumendo come fondamentale e non più aggirabile il valore della cura che nella maternità trova il suo imprinting. E invece ci vogliono sempre più uguali agli uomini. L’eccesso di maschile si perpetua.
La maternità è sempre più un fastidio, un ingombro da far fuori con una guerra simbolica e reale.
Si tratta di una sconfitta radicale.
Se avessi il numero di Papa Francesco, al quale voglio bene, gli telefonerei per dirgli che la sua battuta sui cani e sui gatti non mi è piaciuta affatto.
Può anche essere che ci sia qualche coppia Dink (double income no kids) che a un bambino preferisce un soriano o un bulldog francese. Ma io conosco soprattutto un sacco ragazze che appuntano sulle loro bacheche di impiegate precarie foto di nipotini o di bimbi della pubblicità. Che osservano con angoscia il ticchettare del loro orologio biologico. E che alla fine prendono un cucciolo per riempire il vuoto, anche perché un cane o un gatto non fa scattare il licenziamento.
Da Papa Francesco, sempre così attento alle sofferenze umane, più che un’esortazione a fare bambini –suppongo che si sia spaventato di fronte ai numeri che illustrano la nostra natalità quasi-zero- mi sarei aspettata un severo monito a tutti coloro, a qualunque titolo, contribuiscono a dare vita a una società antimaterna. E il più delle volte per ragioni di profitto.
“Il demonio che attacca la famiglia”, come lui ha voluto dirlo, si chiama profitto.
Da Papa Francesco mi sarei aspettato una dura reprimenda contro i datori di lavoro che costringono le giovani donne alla sterilità, facendo loro firmare lettere di dimissioni in bianco, e contro quelli che le condannano, loro e i loro mariti o compagni, al precariato permanente, condizione che disincentiva ogni progetto genitoriale. Contro le banche che non concedono mutui. Contro uno Stato che, a differenza di quasi tutti gli altri Stati europei, non dà alcuna mano alle giovani madri e ai giovani padri, lasciandoli soli a godersi il “lusso” del figlio forzatamente unico.
Nessuna vera politica sulla famiglia, scarsissimo welfare, aiuti quasi-zero, sostegno economico idem.
La spesa media dei Paesi Ocse per la famiglia è del 2,2 per cento, con notevoli differenze. Francia, Gran Bretagna e Svezia sono i Paesi nei quali la spesa per le famiglie è più elevata (3,7 per cento in Francia, 3,5 in Gran Bretagna, oltre il 3 anche in Svezia). Tutti questi Paesi sono vicino ai 2 figli per donna. L’Italia spende per le sue famiglie l’1,4 per cento del Pil.
Leggo che il Sinodo del prossimo autunno sarà dedicato proprio al tema della famiglia. Mi auguro che Francesco colga l’occasione per aprire un vero e proprio conflitto con lo Stato Italiano e con la sua cultura anti-materna.
Cara Ministra Lorenzin, sono gli uomini a dover essere “educati alla maternità”
L’espressione, “grande piano nazionale di fertilità”, non è sicuramente delle più felici, e nemmeno l’idea di “educare alla maternità”. Specialmente in bocca a una donna, la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin, che come capita spesso alle ministre e alle donne politiche sembra dimenticare di esserlo anche lei. Parole, le sue, che ricordano fatalmente i tempi bui dei figli alla patria e fanno pensare alle donne come mansuete fattrici.
In un’intervista ad “Avvenire” la ministra ha infatti affermato che
“i bambini devono tornare a nascere e serve educare alla maternità. Ho in testa una nuova sfida, un grande piano nazionale di fertilità. Il crollo demografico è un crollo non solo economico, ma anche sociale. È una decadenza che va frenata con politiche di comunicazione, di educazione e di scelte sanitarie. Bisogna dire con chiarezza che avere un figlio a trentacinque anni può essere un problema, bisogna prendere decisioni per aiutare la fertilità in questo Paese e io ci sto lavorando. Sia chiaro: nessun retropensiero e nessuno schema ideologico, ma dobbiamo affrontare il tema di un Paese dove non nascono i bambini“.
La denatalità è senz’altro un problema: siamo il Paese più vecchio d’Europa, e tanti di quei pochi giovani sono costretti ad andarsene per campare. Quindi anche i loro figli non saranno “nostri”, se è possibile dirla in questo modo. Nei panni della ministra, però, le cose le avrei messe così:
è necessaria, certo, un'”educazione alla maternità”, rivolta al mondo dell’impresa che -vedi dimissioni in bianco e tutto il resto- pensa la gravidanza come un lusso o una peste, e le giovani madri come una iattura. Ma anche alla politica, che perpetua l’idea dell’alternativa secca tra lavoratrici e madri (o sei una cosa, o sei l’altra: e se sei l’altra te ne stai tranquilla a casa) ignorando il dato statistico che dimostra la correlazione positiva tra tasso di occupazione femminile e natalità.
Per rieducare la politica è necessario rompere con questo pregiudizio, radicato nel desiderio maschile, che la donna resti a casa a fare la madre, a completa disposizione. Questo è uno degli aspetti della nostra tenace questione maschile. Sono gli uomini a dover essere educati alla maternità.
Educazione alla maternità significa mettere al centro delle politiche questa coppia madre-bambino, le cui raffigurazioni abbondano nelle chiese del nostro Paese, mariano e prima ancora di Grandi Madri, ma nemico delle piccole madri e antimaterno. Significa l’adozione di misure a favore dell’occupazione femminile, sostegno alle imprese di donne, accesso agevolato al credito: più le donne lavoreranno, più bambini nasceranno. Significa offrire un reddito di esistenza e garantire la maternità universale, anche in assenza di contratti a tempo indeterminato, sempre più assenti. Significa costruire una società mummy-and-baby friendly. Significa garantire i servizi indispensabili alle famiglie e ai caregiver, donne o uomini che siano. Significa offrire possibilità abitative e accesso ai mutui per le giovani coppie.
(il governo danese, molto creativo, spinge addirittura le coppie a viaggi romantici per concepire più bambini, offrendo bonus economici a chi dimostrerà un concepimento a Parigi o a Venezia: ma non si pretende tanto).
Questo sì, sarebbe un grandissimo piano di “educazione alla maternità”. Che consentirebbe alle donne nella loro piena autodeterminazione di decidere sulla propria maternità: libere di scegliere non soltanto di poter interrompere la gravidanza in sicurezza, con la piena applicazione della 194 azzerata dall’obiezione, ma anche e soprattutto di non dover congelare la loro fecondità fino al limite estremo dell’età fertile e di non dover ricorrere alla fecondazione assistita.
Se per piano nazionale di fertilità la ministra Lorenzin intende tutto questo, be’, si tratta di un’idea grandiosa. Siamo tutte qui per darle una mano.
Il dibattito seguito al mio ultimo post -post che si limitava a dare una notizia sulla giunta di Firenze, verificata e verificabile, e di riportare il commento di uno dei candidati alla segreteria del Pd, Giuseppe Civati: ho interpellato personalmente anche Gianni Cuperlo, che però evidentemente non ha nulla da dire- è diventato uno scontro feroce tra “pro-life” e pro-choice, con punte truculente, alla Santorum.
Tra le molte contumelie, mi sono beccata anche della “abortista”. E allora consentitemi di dire quello che penso sulla questione.
Penso che:
1. quando un uomo parla di aborto, di feti e così via c’è sempre da stare all’erta. Addetti ai lavori a parte, gli uomini capiscono poco di aborto, tendono a disinteressarsene, e spesso lo ritengono, “da utilizzatori finali”, una comoda soluzione. Quando l’interesse di un uomo si accende, specie se si tratta di un politico, quasi certamente ci sono voti da raccattare.
2. “Donna abortista” è un ossimoro, perché nessuna donna vorrebbe mai abortire. A molte è capitato, e quando è capitato è sempre stata un’esperienza vissuta con sentimenti che vanno dalla tristezza, al dolore, al trauma e al dramma, secondo la sensibilità e secondo le circostanze. Non ci sono donne abortiste: ci sono donne che hanno abortito, e altre che hanno dato loro una mano perché ciò avvenisse in condizioni di sicurezza. La grande maggioranza delle donne di questo Paese, militanti pro-life comprese, condivide l’auspicio che nessuna debba mai più morire d’aborto. Sperare che le donne muoiano d’aborto -per esempio auspicando l’abrogazione della 194- non è una buona strategia pro-life.
3. La legge 194 ha ottenuto il risultato di ridurre a quasi-zero la mortalità per aborto. E’ una buona legge, apprezzata dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine. Anche in forza di questa legge, il numero degli aborti è diminuito. Purtroppo oggi la 194 è una legge di carta: non essendo riusciti ad abrogarla, la stanno svuotando dall’interno. La legge è sostanzialmente inapplicata* in buona parte del territorio nazionale a causa di un’adesione massiccia all‘obiezione di coscienza da parte di ginecologi e anestesisti. Fare aborti non piace e non conviene a nessuno in termini di carriera, e molte direzioni sanitarie apprezzano e premiano chi obietta. Il diritto all’obiezione non può non essere riconosciuto, ma la legge 194 va applicata come qualunque altra legge dello stato: ormai stiamo tornando al “turismo abortivo” e alla clandestinità. Se ne esce soltanto con l’obbligo da parte delle direzioni sanitarie ospedaliere di assumere una quota garantita di non obiettori che consenta di espletare il servizio imposto dalla legge. Un’altra strada, più complessa, sarebbe la depenalizzazione dell’aborto -è la strada che io preferirei- ma non ci sono oggi le condizioni politiche per riaprire il dibattito. Non basta, perciò, che un politico dica retoricamente e a costo zero: io sono a favore della 194: questo impegno non significa nulla. Bisogna che dica: farò tutto ciò che serve perché la legge venga applicata.
4. I veri abortisti sono tutti coloro contribuiscano a qualunque titolo alla creazione di condizioni sfavorevoli alla maternità. A cominciare da quei datori di lavoro che costringono le giovani donne a firmare all’atto dell’assunzione dimissioni in bianco, da utilizzarsi in caso di gravidanza, o che le condannano al precariato permanente. Per arrivare alle banche che non concedono mutui per l’acquisto della prima casa, impedendo a molte giovani coppie di costruire un proprio nido. E alla politica che non investe nel welfare e nei servizi, abbandonando le giovani madri al loro destino, che non mette in atto vere politiche per il sostegno familiare -altro che Paese della famiglia: siamo il fanalino di coda in Europa-. Che non ragiona su una dis-organizzazione del lavoro che consenta di avvicinare tempi di lavoro e tempi di vita. Nella gran parte dei casi, le donne abortiscono perché costrette da condizioni materiali inaggirabili. I veri abortisti sono anche quegli uomini che non condividono i pesi della vita familiare o, peggio, che non si assumono la loro responsabilità contraccettiva e lasciano la donna sola con la sua gravidanza, “tanto c’è l’aborto”. E’ su questi temi, e non manifestando davanti alle cliniche ostetriche o inneggiando ai cimiteri degli aborti, che i “pro-life” devono esercitare la loro volontà politica. Il programma è questo, condivisibile anche dai pro choice.
5. L’aborto non è un tema politicamente marginale. Non lo è mai stato. E non può essere terreno di esercizio del “ma anche”. Non puoi accarezzare il pelo dell’oltranzismo cattolico,”ma anche” sperare nel consenso dell’elettorato femminile. Questo consenso forse l’avrai se le elettrici non saranno state debitamente informate. Ma su un tema così sensibile le posizioni -tutte legittime, s’intende- devono essere chiare e nette. Il presidente Barack Obama sta affrontando il suo secondo mandato anche grazie al sostegno dell’elettorato femminile. E se le donne hanno deciso in maggioranza per Obama, è stato anche per la sua posizione sul tema del’aborto: tema dirimente, come hanno dimostrato le analisi del voto Usa. La questione numero 1 per il 39 per cento delle americane, anche per il suo forte portato simbolico.Perfino più importante del lavoro.
* In Lombardia sceglie l’obiezione di coscienza il 67,8 per cento dei ginecologi. Un dato poco al di sotto della media nazionale, pari al 69,3 per cento di obiezione nel 2010, secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute. La Lombardia, insomma, non è la regione messa peggio, considerando le punte toccate da Basilicata (85,2 per cento), Campania (83,9), Molise (85,7) e Sicilia (80,6).
Una delle convinzioni da eradicare, a questo giro di boa, insieme a quella che ci sia una “generazione perduta” (vedi qui), è quella che tutte e tutti debbano perseguire il successo, e ovviamente esibirlo.
Ieri leggo un titolo malcelatamente trionfale su Repubblica: “Contrordine ragazze. E’ meglio la famiglia”. Dove si racconta che le giovani millennials britanniche, ovvero le ragazze nate tra l’85 e il 94, lavorano meno delle loro sorelle maggiori dieci anni fa, e se possono fanno i figli presto e se li curano personalmente. Non solo crisi, ma anche il crescente convincimento, rilevato dai sondaggi, che è meglio che un figlio te lo tiri su, anziché mollarlo al nido o a una sequela di baby sitter.
Il fatto è 1. che queste ragazze sono state bambine cresciute nei nidi e con le nanny, e nessuno ha maggiore competenza in materia: vogliono dare ai figli quello che loro non hanno avuto. 2. la pena e la fatica delle loro madri, sbattute tra sogni di carriera e sensi di colpa nei riguardi della famiglia l’hanno vista da vicino, e non hanno alcuna intenzione di ridursi pure loro come stracci. 3. la loro identità, come del resto quella dei loro coetanei maschi, non è più affidata in via esclusiva al lavoro, che viene fortemente smitizzato -e del resto non è facile mitizzare un lavoro precario e volatile- torna a essere, molto semplicemente, un modo per campare, possibilmente con qualche significato. La vita è altrove e il successo -più su, sempre più su- non è un obbligo. E per fare i figli è meglio non aspettare i 45 anni.
Queste piccole e dispettose post-emancipate non stanno dicendo affatto che “è meglio la famiglia” (e il maritino da baciare sulla porta alle 8 del mattino, e il twin-set con le perle, e tutti felici per il ritorno ai bei vecchi tempi). Stanno dicendo: primum vivere (deinde laborare). Stanno cioè indicando non un rassicurante coming back home, ma il pericoloso desiderio di un lavoro più prossimo e più simile alla vita: quindi la necessità di disorganizzarlo e riorganizzarlo secondo tempi e modi più femminili.
Il movimento storico è stato questo: accesso delle donne al lavoro retribuito (di quello non retribuito siamo campionesse da sempre); sogni di gloria, di carriera e di successo secondo i modi degli uomini (e teste sfondate sui glass ceiling, e vite sfracellate); desiderio di un lavoro finalmente bio-compatibile, che comprenda anche il fatto di non dover sbattere fordisticamente il tuo mocciosetto urlante di pochi mesi in mezzo ad altre decine di mocciosetti urlanti di pochi mesi in un’aula con i pupazzoni disegnati sui muri dalle sette del mattino alle sei del pomeriggio.
Tenerne conto quando -e se mai- si ripenseranno i servizi per le giovani madri: la vecchia e usurata idea di conciliazione è da buttare alle ortiche. Va messo in piedi qualcosa di meglio.
Ricevo e pubblico la lettera di una collega, C.M.
Decine di migliaia di giovani donne sono in questa situazione, e anche peggio. Se questa genrazione è perduta, la prossima non verrà nemmeno al mondo.
“Trentesima settimana di gravidanza: giunge il tempo anche per me, trentatreenne libera professionista nel campo della comunicazione e iscritta alla gestione separata INPS dal 2006, di fare domanda di maternità. Dopo una settimana dedicata a raccogliere documenti, tentare di caricarli sul sito inps.it e quattro ore di interminabile fila in due giorni per entrare nell’ufficio del mio municipio a Roma, scopro che il mio congedo di maternità non ha i requisiti per essere riscattato.
Verso i contributi alla gestione separata da quando avevo 27 anni e lavoro dall’età di 18. Come mai, ora che per legge non posso lavorare, non ho diritto alla maternità? I versamenti da libera professione per l’anno 2012 – mi spiegano- si effettuano dal mese di settembre del 2013, quindi l’istituto di previdenza non può pagarmi la maternità (la data del parto è agosto). Certo potevano dirmelo prima, che non dovevo concepire mia figlia a novembre 2012.
Il meglio deve ancora arrivare. Chiedo spiegazioni all’operatrice Inps che si occupa della mia pratica e la signora, con estremo candore, mi risponde: “Anche solo un contratto a tempo determinato rende le cose più facili, in questi casi”. “SOLO?! Grazie!”. Non soddisfatta continua: “La libera professione è una scelta. I liberi professionisti sanno che si devono accollare dei rischi”.
Quindi è giusto non ricevere la maternità, dopo anni di contributi versati, solo perchè in Italia dobbiamo sottostare a contratti precari o aprire posizioni a partita IVA per poter lavorare. Ed io sono tra i più fortunati, perché svolgo una professione che amo e che ogni giorno mi dà grandi soddisfazioni.
Mi sono sentita presa in giro. Sono uscita da quell’ufficio ridendo, ma con un groppo in gola.
Inutile spiegare all’impiegata inps, che dall’ultimo “Rapporto UIL sulla cassa integrazione” del 2012, sono oltre 520.000 i lavoratori in cassa integrazione, per un totale di 8.000 euro a testa persi e i disoccupati italiani, a febbraio 2013, sfioravano quota 3 milioni. Che stupida sono, perché mi dovrei lamentare? Io che sono libero professionista e lavoro dai tempi della maturità.
Non ho mai deriso il mio Paese e a chiunque mi abbia detto che ero pazza a volermi costruire una famiglia in Italia ho sempre risposto che dobbiamo cambiare le cose dall’interno, se vogliamo che davvero la situazione si evolva.
Oggi, però, avrei tanta voglia di deporre le armi”.