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Donne e Uomini, Politica, questione maschile Dicembre 3, 2012

+Asili nido = +27% di Pil. Parla Ohlsson

Brigitta Ohlsson, 37 anni, ministra svedese per i rapporti con la Ue

La nostra misoginia costa cara molto cara all’Europa.

Perché “se in Europa le donne lavorassero quanto gli uomini, il Pil della Ue farebbe registrare un incremento del 27%“. Lo dice Birgitta Ohlsson, ministro svedese per i rapporti con la Ue, in un discorso pubblicato da “Il Fatto” (che ringrazio) di una linearità e di una chiarezza quasi commovente. Se la nostra politica non farà capitare qualcosa su questo fronte, e se le donne di questo Paese non lo faranno saltare in aria, possiamo sempre sperare di essere invasi dalla Svezia.

Riproduco qui il discorso di Ohlsson senza aggiungere una parola (salvo una precisazione sull’Italia) a cominciare dal suo folgorante attacco. Ascoltatela.

Oggi sono qui come ministro svedese, ma anche come femminista e come madre. Se in Svezia non esistesse un sistema di assistenza all’infanzia di elevatissima qualità, probabilmente oggi non potrei fare il ministro. La rivoluzione ha avuto inizio nel mio Paese con la generazione di mia madre: le donne nate negli anni ’40 riempirono le aule universitarie e fecero della Svezia il primo Paese al mondo nel campo della parità tra i sessi nel lavoro e nella società.

Mi preme sottolineare che la Svezia non avrebbe mai potuto diventare il Paese guida come numero di parlamentari donne, come presenza femminile ai vertici del mondo, delle aziende, dei Consigli di amministrazione e delle università senza un sistema di assistenza all’infanzia finanziato dal welfare e aperto a tutti i cittadini.

Il 26 agosto 1971 la femminista e giornalista americana Gloria Steinem scrisse sul “New York Times”: “Moltissimi bambini americani soffrono per una eccessiva presenza della madre e una insufficiente presenza del padre”: Ancora oggi per la maggior parte dei politici europei genitorialità è sinonimo di maternità. Il dramma è che molte donne non possono lavorare perché completamente assorbite dalla cura dei figli. In Europa le donne sono mediamente più istruite degli uomini, eppure solo il 60 per cento lavora (le darò una notizia sconvolgente, signora Ohlsson: in Italia siamo al 47,2 per cento, nella fascia 20-25 anni siamo al 29 per cento, e nessuno fa una piega! ndr). Da noi in Svezia lavora il 77 per cento circa delle donne.

Il fatto è che bisogna capire che la diseguaglianza di genere ha un prezzo economico per i singoli Paesi e per l’Unione Europea nel suo complesso. Certo, la discriminazione sessuale è un fatto culturale, ma sarebbe un grave errore sottovalutare l’impatto che su questa realtà possono avere misure legislative studiate per mettere le donne in condizione di occupare il posto che meritano nella società.

Se in Europa le donne lavorassero quanto gli uomini, il Pil della Ue farebbe registrare un incremento del 27 per cento, stando a una ricerca condotta dall”Università svedese di Umea. A mio giudizio non bisogna intervenire con provvedimenti adottati dalle istituzioni della Ue, ma ciascun Paese deve compiere un proprio percorso partendo dal riconoscimento del rapporto esistente tra assistenza all’infanzia e crescita economica.

In Svezia, già da molto tempo, il congedo parentale viene concesso tanto ai papà quanto alle mamme e le conseguenze sono state positive sotto tutti i punti di vista: è diminuito il divario tra uomini e donne, è migliorata l’armonia all’interno della coppia, è diventato più solido il rapporto affettivo dei padri con i loro figli.

Le pari opportunità tra uomini e donne sono una delle grandi sfide dell’Unione Europea. La Svezia in questo campo è un Paese all’avanguardia. Il modello di assistenza all’infanzia esistente in Svezia è un modello esportabile in tutta Europa. Sono convinta che il giorno in cui questa sfida sarà stata vinta in tutta Europa il nostro continente conoscerà una stagione di prosperità e benessere senza precedenti”.

Corpo-anima, Donne e Uomini Giugno 22, 2012

Cattiva mamma Aung

Una lettrice, Luisella, mi scrive questo

“Ho appena letto l’articolo: Aung San Suu Kyi  torna a Oxford e il figlio maggiore non è andato a vederla.
Io ritengo che la scelta che ha fatto questa signora sia certamente encomiabile, però condivido l’atteggiamento del figlio.
Non credo ci siano ragioni ideali superiori alle responsabilità che si hanno verso i propri figli. Abbandonare un figlio adolescente e un altro ancora piu piccolo con la prospettiva di non incontrarli per anni penso sia una scelta devastante e aberrante.
La stessa scelta venne fatta anni orsono da una signora madre di non so quanti figli che colpita da tumore in gravidanza decise di non
curarsi per far nascere il bambino e quindi  morì e venne proclamata beata!!
Ma che scelta è?  e i figli che rimangono senza mamma come potranno accettare serenamente questa scelta? A me pare   soprattutto egoismo. Mi pare che millantando ideali altissimi si voglia in fondo privilegiare il proprio ideale, la propria convinzione religiosa e quindi il proprio individualismo  a scapito del benessere dei figli“.

Anch’io, come tutte le donne, credo, leggendo la biografia di Aung sono rimasta colpita da questo aspetto della vicenda: che cosa avrei fatto al suo posto? mi sono chiesta. Non so. E non so giudicarla. Posso solo dire che di fronte a una madre che in nome di ideali superiori “tradisce” l’ideale materno proviamo tutti il freddo dell’abbandono, risentiamo la paura che deve averci attanagliato quando eravamo inermi nelle braccia della madre, totalmente dipendenti da lei. Ci identifichiamo con i figli di quella Grande Madre, che per se stessi non l’hanno avuta. Ma da donne possiamo anche identificarci con lei che “abbandona”, che risponde a una chiamata ben più grande di quella dei figli che chiedono accudimento.

Tutte e tutti abbiamo preteso, a volte perfino da adulti, di stare saldamente al centro della vita della madre. Al padre abbiamo concesso margini di manovra ben più ampi. Conosco molti comunissimi uomini in carriera che sono padri molto mediocri, indifferenti, assenti. Nessuno li giudica per questo. L’insufficienza paterna non getta ombre sul valore di un uomo. E’ giusto che capiti, quando si giudica il valore di una donna?

AMARE GLI ALTRI, Corpo-anima, Donne e Uomini, lavoro Settembre 25, 2011

L'ingiustizia più feroce

madonna di giovanni bellini, particolare

Una giovane segretaria. Foto di cuccioli e di bambini appese sulla sua bacheca. Un bambino biondo, bellissimo. Le somiglia un po’.

“E’ il tuo?” le chiedo

“Eh no, magari…”. Le brillano gli occhi. “E’ di una mia amica. Io vorrei, ma come si fa?

“Quanti anni hai?”

“Trenta”.

“Be’, l’età è giusta… E’ il tuo ragazzo che non vuole?”

“No no, lui vorrebbe. Il fatto è che sono interinale

“E quindi?”

“Se resto incinta ho diritto alla maternità pagata, ma poi mi lasciano a casa…

“Sei sicura?”

“Di solito va così”

“Diventi fissa a 40 anni se va bene” interviene la collega “e poi è un casino. I bambini non ti vengono più

Di tutte le ingiustizie questa è di sicuro la più feroce. Non vedo mai editoriali su questo in prima pagina. Ci siamo abituati al fatto che le cose vanno così, e questo è ancora più feroce. Intanto la natalità, già molto bassa nel nostro paese, è calata ulteriormente.

 

 

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, lavoro Febbraio 22, 2011

GUERRA ALLE MAMME

Una storia che mi arriva via FB. Somiglia di sicuro a quella di tante.

Ciao, sono mamma da poco più di un anno, avevo un buon lavoro, e con buono intendo che lo stipendio era pagato con precisione ogni mese, dal 2007. Nel 2008 mi hanno chiesto se conoscessi qualcuno interessato al lavoro ed io proposi una mia cara amica che avrebbe accettato solo se le fosse stato concesso un part time, avendo già un figlio. E così fu.

Con il passare degli anni la vita, quella vera fuori dall’ufficio, scorreva: mi sono sposata e l’anno scorso è nata la dolcissima Lavinia. A novembre rientro al lavoro, con le due ore di permesso per l’allattamento, e a gennaio iniziano i problemi: mi impongono di entrare più tardi due volte a settimana (usando le 2h di allatamento prima) per uscire alle 18:00 e viene chiesto alla mia collega di sacrificarsi e allungare i suoi 2 giorni di part time più lunghi dalle 4 alle 6. Nel frattempo, a dicembre, avevo chiesto anche io il part time una volta che Lavinia avesse compiuto un anno. La “capa” sembrava disponibile e ci ha proposto di continuare con questi turni per sempre, anche se il mio part time era comunque di 35 h a settimana contro le 25 della mia collega. Ma a me sarebbe andato bene.
Insomma, la “Capa” aveva un piano: era convinta che la mia collega non avrebbe mai accettato questo cambiamento definitivo ma non aveva calcolato fattori quale l’amicizia e la gratitudine. Quando la mia collega le ha comunicato la sua decisione a mio favore la capa si è ammutolita, e, due giorni prima il compimento del primo anno di Lavinia mi telefona e, candidamente, mi dice di aver cambiato idea e che dal lunedì successivo sarei dovuta tornare al mio orario originario 9,00-18,00.

Ora sono a casa in malattia di Lavinia, e non ho intenzione di tornare, ho bisogno di lavorare e ho mandato decine e decine di cv con la richiesta di un lavoro part time, ma la cosa ancora più assurda è che non posso neanche licenziarmi altrimenti non avrei diritto all’indennità di disoccupazione. Mi tocca tenere duro, io che dura non lo sono, per il mio bene e di mia figlia. Ho anche pensato che in fondo ce la potrei fare a sopportare nove ore al giorno di silenzio e tensione ma poi penso che ora c’è Lavinia… e quindi sono costretta a stare a casa senza più lo stipendio.
Questo è uno sfogo sicuramente comune a tante mamme ma è anche una denuncia di quanto una donna di 50 anni senza figli e ancora piacente possa essere crudele verso un’altra donna.

Donne e Uomini, TEMPI MODERNI Febbraio 26, 2010

QUELLE SFIGATE DELLE MAMME

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Avrebbe dovuto vedermi, Elisabeth Badinter, quando poche ore dopo il cesareo mi aggiravo sbandando per la clinica imbastita di punti in cerca della nursery (“Fermatela!”, aveva gridato d’orrore la suora. “E’ la cesarizzata di stanotte!”), dato che non avevo ancora visto il bambino e volevo fare la solita conta delle dita. Istinto materno o possessione diabolica? Qualcosa di irresistibile, questo è certo. Per me, poi, che fino a poche ore prima avevo torturato mia madre: “Non so se lo voglio, questo coso”, e lei: “D’accordo. Dallo a me”.
A Elisabeth Badinter la parola istinto fa impressione? Sono trent’anni che si agita. Ok, troviamone un’altra. Sta di fatto che se milioni di ragazze, contro tutto e contro tutti, la società antimaterna, i datori di lavoro, i partner riottosi, i budget limitati, le polveri sottili, l’effetto serra, gli Ogm, la corruzione, la crisi globale, la cellulite, le smagliature e così via, a un certo punto della loro vita, spesso troppo presto o anche troppo tardi, decidono di attivare (o meglio smettono di inattivare) la scatola magica che si portano in grembo, be’, il miracolo andrà spiegato in qualche modo.
In tutto il saggio della non-saggia Badinter (“Le conflit. La femme et la mère”), è in opera una curiosa inversione, per non dire perversione. Il mondo a testa in giù. Non è la childfree a essere edonista, ma chi insiste tignosamente per portarsi a casa un bambino, o anche due o tre. Non è chi allatta al seno, provvida dotazione, a scegliere la soluzione più comoda, ma chi fa “andare indietro” il latte per arrabattarsi con polverine, biberon, scalda biberon, tettarelle, sterilizzatori, disinfettanti e tutta questa gran rottura di palle. Oltre al fatto che allattare serve all’utero –altra barbarie della natura- per rimettersi in sesto: a ogni ciucciata si contrae. Sono i “morsi uterini” (che belli, e che male).
Libera non è chi si può godere una splendida vacanza dal mondo maschile, tornando a se stessa e facendo la sconvolgente esperienza di un altro tempo, il tempo odoroso e selvaggio della nutrice, così istruttivo per la vita, per il lavoro e per tutto; libera è chi, à la Dati, si scaraventa subito in ufficio a presidiare il posto, tette che esplodono e pancera contenitiva. E si è visto quanto è durata la povera Rachida.
Tutte le teorie sull’attaccamento e sul “bonding”, da John Bowlby a Thomas Berry Brazelton, fatte fuori in un colpo solo. Solo roba ideologica. Chi l’ha detto che il piccolino ha bisogno della prossimità al corpo della mamma che peraltro, nei primi tempi, continua a percepire come il suo stesso corpo? Roba da animali. E chi l’ha detto che il distacco deve avvenire gradualmente, in modo che il bambino possa completare quel processo di individuazione decisivo per la sua salute fisica e mentale? Quello che conta è che non si de-individui la madre, che possa tornare prima possibile a godersi in tutta libertà la mensa, il cartellino, la macchinetta del caffè, le riunioni alle sette di sera, tutte cose di cui, si sa, noi donne andiamo pazze.
Pensate che secondo l’ideologia neomaterna “la buona madre pone naturalmente i bisogni del figlio al di sopra di tutto”. Accidenti. Ma anche quei fasci dell’Onu hanno sancito il superiore interesse del minore: principio al quale, nella nostra società liquida, varrebbe la pena di tenersi saldamente attaccati per non andare del tutto alla deriva.
Non è il mondo a dover fare un esame di coscienza per aver messo ai margini la nascita insieme a tutto quello che conta davvero per noi umani: la relazione, il legame, l’amore. Non è il lavoro a dover essere ripensato –come peraltro stiamo chiedendo tutte, dalle turniste alle top manager- in base a quel principio del “primum vivere” che comincia peraltro a solleticare anche gli uomini. In questione è piuttosto il vizio arcaico della maternità, condizione di “frustrazione, solitudine, alienazione e sensi di colpa”… “Come vivere tutte le tue giornate in compagnia di un incontinente mentalmente deficiente” (il bambino, ndr).
Non è il modo in cui abbiamo organizzato le cose ad allontanarci da quel minimo di libertà e felicità sperimentabili su questa terra. E’ la maternità che ostacola le carriere, infastidisce le aziende, distrugge i ménage (“se la madre allatta per mesi o anche anni, che fine fa l’intimità della coppia e la sua sessualità?”), limita la sacra libertà delle individue. Perfino, nientemeno, la libertà di bere e fumare a piacimento quando si è incinte.
Una certa Gaia, che piacerebbe molto a Badinter, scrive sul mio blog: “Come si fa convivere il desiderio di non avere figli e la paura per un futuro di solitudine? Io non voglio figli e di questo sono sicura al cento per cento, non voglio occuparmi di qualcun altro…”. Come se esistesse una libertà non relata. Come se occuparsi degli altri non contenesse una suggestiva occasione di libertà e felicità.
Il mondo di cui parla Elisabeth Badinter non esiste più. E’ esistito solo come figura provvisoria nella fenomenologia della libertà femminile. E se l’ideologia antimaterna dell’infelice Simone de Beauvoir ha avuto una sua preziosa funzione, quella di Badinter è sospetta. Perché se questo mondo non esiste più, esiste invece una minoranza di non-mère insofferenti in una Francia campione di fecondità, parchi invasi di coppie con carrozzine e boutiques pour enfant sulla Rive Gauche, fra le quali il saggio andrà probabilmente a ruba. Badinter, madre di tre figli, le blandisce in ogni modo e le assume in cielo, a modello della donna nuova: “Anche se il rifiuto della maternità fosse minoritario, la vera rivoluzione sta qui, e chiama una ridefinizione dell’identità femminile”. La childfree, dice, è più donna, più sexy, e anche più tosta della mamma, tanto che, preconizza in un crescendo scellerato “verrà il giorno in cui la maternità sarà appannaggio delle donne culturalmente, socialmente, professionalmente sfavorite”. Una cosa da sfigate, in pratica. Anche se in fondo alla profezia le scappa un punto di domanda. Bontà sua.

(pubblicato su Il Foglio il 26 febbraio 2010)

Donne e Uomini, esperienze, Politica Novembre 13, 2009

SENTI, MARIASTELLA…

Universita': dl, mercoledi' fiducia alla Camera

Nel suo editoriale su Avvenire, la mia amica Marina Corradi invita il ministro Mariastella Gelmini, quinto mese di gravidanza, a non perdersi “le ore più belle” insieme al suo figliolino, quando nascerà. Mariastella avrebbe pensato a una soluzione eroica, alla Dati: nemmeno un giorno a casa, c’è troppo da fare. A parte il fatto che la cosa non ha portato per niente fortuna a Rachida, noi stiamo dalla parte del figliolino che vorrà la sua mamma accanto ancorché ministra, cosa della quale a lui non importa proprio nulla.

Come avevamo detto a suo tempo per Rachida, l’eroismo di Mariastella non fa bene alle altre mamme, perché autorizza i datori di lavoro a pretendere altrettanto dalle loro dipendenti (“la Mariastella sì e tu no?”). Una donna in una posizione eminente è un modello per tutte e tutti, e crea con ciò che fa dei “precedenti” simbolici. In questo ha una grande responsabilità. Ma non si tratta solo di giorni di permesso. La cosa che conta è questa messa in parentesi della maternità– e in una parentesi sempre più stretta-, l’esperienza più sconvolgentemente femminile che noi donne “maschilizzate” possiamo ancora fare. Quando diventi madre, quando senti quegli odori e sperimenti quei tempi che corrono dalla notte dei tempi, scopri e capisci tante cose importanti non solo per te e per il piccolo, ma anche per il mondo, che ne ha disperatamente bisogno. Che ha più bisogno del tuo latte che delle tue scartoffie.

Ma se posso dire la questione -a casa o subito al lavoro?- così è malposta. Non ci sono casa o ufficio, lavoratrice o madre, privato o pubblico: c’è la vita, che ognuna deve poter aggiustare a modo suo. Questa discontinuità è un’invenzione degli uomini. Nel lavoro e sulla scena pubblica le donne devono inventare altro, qualcosa di più fluido e felice. Non ho mai lavorato tanto e tanto bene come da quando sono diventata madre, mi viene da ridere se penso a me prima, maschietto in mezzo ai maschi. Io lavoro e lavoro e sono madre e moglie e figlia accudente, ed è un tutt’uno che non saprei separare. Vivo, insomma, in un continuum alla ricerca della gioia.

pregnant

Donne e Uomini, economics Giugno 19, 2009

MENO DELLE FOTOCOPIE

Leggo oggi sul Corriere di un’indagine della Sda Bocconi secondo la quale la maternità costa alle aziende meno della carta delle fotocopie. Il costo percepito, invece (questo lo dico io) è molto più alto.

Dice Mario D’Ambrosio dell’Aidp, Associazione italiana direttori del personale, che “quando la dipendente torna dalla maternità il reinserimento richiede uno sforzo all’organizzazione“. Ma forse un’organizzazione che debba sforzarsi tanto per reinserire una neomamma non è una buona organizzazione, perché è costruita su corpi-anime maschili -e invece lì ci sono donne e uomini- e separando rigorosamente pubblico e privato -una finzione che, questa sì, ci costa molto cara-.

Capiterà molto nel lavoro, nei prossimi anni. Noi stiamo qui sempre a parlare di quella politica, che alcune amiche chiamano “politica seconda”, e dei suoi imbarazzanti protagonisti, mentre la politica prima è proprio lì, dove viviamo ogni giorno, dove capitano le cose che contano.

esperienze Gennaio 19, 2009

LA PRODE RACHIDA

gioconda dati

gioconda dati

Non abbiamo ancora parlato di Rachida Dati. Pensavo che qualcuno di voi avrebbe tirato fuori l’argomento. Della bella ministra francese che, a 5 giorni dal parto, si ripresenta in ufficio più snella che mai -tornare uguali a prima in tempi più rapidi possibile, facendo dimenticare, anzi, facendosi perdonare la gravidanza, come se fosse un tradimento, è un valore aggiunto per le nuove madri-, pronta a ricominciare, come se nulla fosse. Perdendosi una delle poche esperienze selvaggiamente femminili -l’odore dolciastro del latte, i ritmi animali a cui il tuo cucciolo ti costringe, la sensazione di essere in un altro mondo, e che questo mondo sia quello giusto- per rituffarsi al più presto nelle scartoffie.

Onore al desiderio di Rachida -emanciparsi da tutto, anche dalla maternità- purché questo sia quello che realmente lei desidera, e non invece la corrispondenza zelante al desiderio -maschile- altrui. Per quanto una ministra, essendosi assunta pubbliche responsabilità, dovrebbe riflettere sulle conseguenze anche simboliche dei suoi comportamenti: e dicendo simboliche, voglio dire le conseguenze che significano di più.

Le mamme, a quanto pare sempre di più, vogliono stare con i bambini, almeno finché sono tanto piccoli, e questo è un bene per tutti, non solo per i bambini e per loro stesse. L’eroismo di Rachida non renderà loro le cose più facili.

Archivio Settembre 13, 2008

GIRO DI BOA

aCibo e bellezza a parte, noi europei del Sud il “complesso del Nord” l’abbiamo sempre patito. Che politica, che welfare, e che parità! Noi, invece, con tutte le nostre magagne… In fatto di emancipazione e di uguaglianza tra i sessi gli anglosassoni sono stati i primi: donne=uomini, nessuna differenza. Ma adesso stanno cambiando idea. Noi al Sud, in ritardo di almeno vent’anni, tutti presi a dotare ogni ente pubblico, dai municipi alle assemblee di condominio, di organismi pari-opportunitari. Lassù invece si cambia rotta. Storico giro di boa. E se il modello parità-emancipazione entra in crisi proprio lì, dove è stato inventato, allora è solo questione di tempo, è fregato all over the world.
Una recente ricerca della Cambridge University rivela un deciso cambio di umore degli inglesi verso l’uguaglianza di genere: se nel 1994 il 50 per cento delle donne e il 51 per cento degli uomini ritenevano che la vita familiare non soffrisse del fatto che le donne lavoravano fuori casa, nel 2002 lo crede solo il 46 per cento delle donne e il 42 per cento degli uomini.
Tra allora e oggi un decennio di spaventose fatiche femminili, di azzardi ed equilibrismi: il famoso doppio ruolo. Figli tirati su in qualche modo, uomini che in casa non muovono un dito, ménage familiari a dura prova: ne valeva la pena? Davvero donne e uomini sono intercambiabili? Cala anche il numero di cittadini convinti del fatto che per le donne l’unica strada di realizzazione sia la carriera. Il tipo career woman-super mom è sotto attacco.
Negli Stati Uniti, dove l’emancipazione è stata una fede, il cambiamento è anche più vistoso: la percentuale di americani convinti che le donne possano lavorare 8 ore senza che la famiglia vada a rotoli precipita dal 51 al 38 per cento. In controtendenza la Germania, dove la simpatia per le politiche ugualitarie invece è in ascesa: nel ’94 solo il 24 per cento dei tedeschi pensava che la moglie-mamma al lavoro non avrebbe sfasciato la famiglia, nel 2002 la percentuale sale al 37 per cento. E con ogni probabilità in tutto il Sud-Europa il trend è questo.
Spiega la sociologa Jacqueline Scott, che ha coordinato la ricerca di Cambridge: “I tre paesi stanno probabilmente vivendo stadi diversi del ‘ciclo di simpatia’ per l’uguaglianza di genere. I tedeschi hanno abbandonato i ruoli tradizionali più tardi (come noi italiani, ndr), di conseguenza non si sono ancora imbattuti nella reazione anti-working mother. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, invece, dove le politiche pari-opportunitarie sono più antiche, la gente comincia a cambiare idea”.
Tendenze e controtendenze rilevabili anche nel nostro “piccolo” italiano: se la spinta maggioritaria è per la parità, per la piena occupazione femminile e per un welfare di impostazione tradizionalmente “fordista” (servizi rigidi per mamme che lavorano 8 ore), cresce il numero di quelle che hanno sempre tenuto duro sulla differenza di genere, o che l’hanno riscoperta; che promuovono una diversa concezione del lavoro, all’insegna della flessibilità, della creatività e dell’invenzione di spazi e tempi più congeniali; che hanno un’idea più complessa e articolata di welfare e mettono al centro il lavoro di cura e d’amore. Un “ritardo”, il nostro, che oggi potrebbe diventare una risorsa.
Quel che è certo, dalla ricerca di Cambridge non si può dedurre opportunisticamente che le donne vogliano “tornare a casa”. L’ideologia del “coming back home” non parla dei desideri delle donne, ma solo degli auspici dei tradizionalisti. Lo confermano altri passaggi della ricerca, in apparente contraddizione con l’insofferenza anti-paritaria rilevata prima. Solo il 41 per cento degli intervistati e il 31 per cento delle intervistate, infatti, è d’accordo con l’affermazione “tocca all’uomo portare a casa lo stipendio, mentre la donna sta a casa a guardare i bambini”. Nel 1987 i favorevoli erano rispettivamente il 72 e il 63 per cento.
Le donne vogliono lavorare. E’ impensabile che rinuncino al lavoro. Ma vogliono potersi organizzare a modo loro: è più facile rispedirle in cucina che assecondare la loro volontà di cambiamento. Quello che vogliono riportare a casa è l’enorme quantità di energie spese ogni giorno nell’adeguarsi a modelli maschili di organizzazione dello spazio e del tempo, della vita e del lavoro.
Nessuna economia nazionale, del resto, potrebbe fare a meno di loro. In Italia +100 mila donne al lavoro, come ha valutato Maurizio Ferrera, autore di “Il fattore D”, farebbero un + 0.28 di Pil. Dice Jo Causon del Chartered Management Institute, associazione dei manager britannici: “Per la nostra economia è impensabile non avere donne al lavoro. Oggi sono il 45 per cento degli occupati. In un momento di crisi come questo non possiamo permetterci di rinunciare alle loro capacità. Il 79 per cento delle aziende ha il problema di reclutare talenti e il 75 per cento si danna per riuscire a trattenerli. Si deve trovare il modo per corrispondere alla richiesta di flessibilità che proviene dalle donne. E anche dagli uomini”.
Nel cassetto del governo inglese tre nuovi provvedimenti: orario flessibile per chi ha figli fino ai 16 anni, prolungamento del congedo di maternità da 9 a 12 mesi e possibilità per la madre di trasferire al padre gli ultimi 6 mesi di congedo. “Flessibilità” sembra essere la chiave universale, per quanto in ritardo. Ma quello che ci vorrebbe è una vera rivoluzione nel modo di pensare e organizzare il lavoro e la vita. Kat Banyard, a capo della Fawcett Society, antico istituto delle suffragette inglesi, parla di necessità di una “trasformazione radicale”, contro la cultura del “tempo pieno”.
Il lavoro è senza dubbio il pensiero che la politica del prossimo decennio ha da pensare. E’ lì, nel punto di snodo tra lavoro e vita, che vedremo i cambiamenti più straordinari, promossi in primis dalle donne. E forse per una volta saremo noi europee del Sud, che per circostanze sfavorevoli e anche per cultura non ci siamo mai fatte prendere del tutto dall’emancipazione, dalla parità e dalla carriera, tenendo duro sulla differenza femminile, ad avere qualcosa da insegnare, qualche spunto e qualche ricetta (anche di cucina, why not?) da offrire alle amareggiate sorelle del Nord.

CASALINGHE FORSENNATE

Ragazze vestite come casalinghe anni Cinquanta che preparano torte per strada; tè delle cinque in stile burlesque, happening a metà tra l’artistico e il politico: in tutto il Regno Unito, da Londra a Brigthton, fiorisce il movimento delle giovani “domestic artist”. Le virtù femminili tradizionali brandite come strumenti di ribellione. Spiega Jazz D Holly, 24 anni, presidente delle Shoreditch Sisters: “Detesto l’idea di essere la copia di un uomo. E’ una cosa che sta gravemente danneggiando l’autostima di noi donne”. Figlia di Joe Strummer dei Clash, il mitico gruppo punk, Holly spiega  di avere avuto un’infanzia molto caotica. Per lei trasgressione non è bere e drogarsi, ma fare la maglia e cucinare, attività sovversive ed  “empowering”.

(pubblicato su “io donna” – “Corriere della Sera” il 13 settembre 2008)

Archivio Giugno 20, 2008

LA RIVOLTA DELLE MADRI

C’è stato un tempo in cui per una donna non essere madre era quasi sinonimo di libertà. Quel tempo è finito. Ho provato una profonda emozione leggendo la storia di quelle 17 ragazzine di Gloucester, Massachussetts, che hanno stretto un patto per diventare ragazze madri tutte quante insieme. Maternità e libertà che si ricongiungono. Il desiderio dell’amore di un figlio, la scommessa su una relazione “per sempre” per poter essere individue libere. Ha scritto la teologa femminista Mary Daly che da almeno un quindicennio “la libertà riproduttiva delle donne è repressa ovunque”. Le donne devono negoziare la loro maternità con molti “nemici”. dal datore di lavoro al partner, che non è mai “pronto”. Da molte inchieste risulta che oggi le ragazze, visto come sono andate le cose alle loro sorelle maggiori sterilizzate a forza da una cultura antimaterna che nei fatti ha loro impedito di fare bambini al momento giusto, lasciandole childless per sempre, pianificano diversamente le loro vite, fanno i figli per tempo, e non accettano più di esserne tenute lontane da qualsivoglia “impegno di lavoro”, vogliono crescerseli, occuparsi di loro, guidare i loro primi passi, ascoltare le loro prime parole.  E’ una piccola grande rivoluzione, una rivolta simbolica che cambierà le vite di tutti.