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lavoro di cura

economics, lavoro Dicembre 17, 2014

Non ti pago-non ti pago: l’amaro destino del lavoro intellettuale in Italia

Una volta mi chiama l’Ordine dei Commercialisti (ricca categoria) di una città ricchissima. Mi chiedono di coordinargli un convegno: la mia passione per la commercialistica è nota, ma due euri fanno sempre comodo. Faccio presente che la coordinazione di un convegno significa una certa quantità di lavoro preliminare -studio della materia, riunioni e quant’altro- oltre all’impegno per la giornata. Gli dico: a quanto ammonterebbe la mia spettanza? Gelo dall’altra parte del filo: “Ma… veramente… scusi… in che senso”. “Il mio gettone. Il mio cachet”. “Ah! Capisco. Non avevamo pensato che… insomma credevamo…”. Credevano che io, onoratissima per l’incarico, e non avendo nient’altro da fare, mi sarei fiondata pagandomi anche il viaggio. (più sentiti).

Un’altra volta, invece, in cui sono cascata. Università Bocconi, anche qui ente notoriamente poverissimo, gente a cui dei soldi non importa nulla. Convegno sul tema: paternità e top manager, una cosa così. Anche lì: telefonate, riunioni in loco, preparazione delle interviste. € 0,00. Faccio garbatamente presente, mi guardano come un ultracorpo venusiano. Ormai era fatta. Non mi beccano più.

Per cose “militanti”, politiche, femministiche e umanitarie chiedo solo viaggio e alloggio, e spesso nemmeno quello: sono le mie passioni, sono il mio impegno, il mio volontariato, e anche il mio piacere, ci mancherebbe altro. Presento anche libri e film, non sempre volentieri, i più gentili ricambiano con un mazzo di gladioli. E va be’. Ma non mi è chiaro per quale ragione dovrei erogare tempo e lavoro gratuito per ordini professionali con le casse pienissime -l’ho fatto tante volte, sob-, case editrici e cinematografiche, istituzioni, enti locali etc etc.

Anzi, mi è chiarissimo: si pretende, in Italia, che il lavoro intellettuale (o immateriale, o della conoscenza) sia gratuito. Un fatto dello spirito, mai della carne: benché anche certe prestazioni dei sacerdoti, mi pare, abbiano i loro bei tariffari. Se chiami un idraulico gli paghi anche il semplice sguardo alla tubatura. Ma se per esempio ti invitano in tv, a meno che tu non sia un’opinionista di altissimo livello tipo Valeria Marini, puoi dover colluttare perché ti rimborsino almeno il taxi. Con onorevoli eccezioni: superstar borderline tra giornalismo e showbitz, ma anche formatori-formati all’uopo e last minute (vanno fortissimo le formatrici sulla violenza sessista e sulla parità di genere: un business niente male). Ma normalmente il lavoro intellettuale in questo Paese non si paga, o si paga pochissimo. La remunerazione è inversamente proporzionale alla quantità di idee. Quando basta che tu vada in Spagna, come mi è capitato -la Spagna della grande crisi, dico, che mi ha chiamato qualche volta per parlare nelle Università- e per quanto a fatica il tuo impegno viene remunerato.

Insomma, il lavoro intellettuale è come il lavoro di cura: invisibile, gratuito e scontato. Ma senza l’uno come senza l’altro in questo Paese crollerebbe anche quel poco che sta ancora in piedi. Nelle idee di oggi -materia prima del lavoro intellettuale- c’è l’embrione della grande parte del lavoro di domani.

Lavoratori dell’intelletto e casalinghe, unitevi!

p.s: ricordo qui l’insuperata campagna #coglioneno

 

Donne e Uomini, economics, italia, lavoro, Politica Settembre 25, 2014

Welfare non vuole dire “dare una mano alla mamma”

Il capitolo 5 della legge delega sul lavoro -lo leggete integralmente in coda al post- riguarda in particolare le donne. Si parla, correttamente, di indennità di maternità universale, di misure di incentivazione del lavoro femminile -come il tax credit-, di flessibilità d’orario e di telelavoro, di conciliazione e di congedi parentali anche per i padri.

Per esempio, al punto d: “incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro”.

L’adozione di misure di flessibilità worker-friendly in realtà non costuirebbe solo un vantaggio per i lavoratori e le lavoratrici: secondo la School of Management del Politecnico di Milano, la diffusione di modelli di lavoro agile o smart Working può portare alle imprese un beneficio di ben 37 miliardi l’anno tra riduzione dei costi di gestione e aumento di produttività, oltre a 4 miliardi di riduzione per trasporti e pranzi fuori (e alla riduzione di 1.5 milioni di tonnellate di inquinanti come il CO2 ogni anno).

Ma il punto è un altro: sembra resistere, in questa impostazione, l’idea di un welfare saldamente basato sulla famiglia -leggi: donna-  intesa come il principale erogatore di servizi -lavoro di cura- destinati ai suoi membri. Famiglia (donna) a cui lo Stato offre il suo supporto.

Una cosa un po’ anni Cinquanta.

Questo modello familista-mediterraneo, diffuso in Spagna, Portogallo, Grecia e Italia, Stati che delegano moltissimo alle donne, non fa crescere occupazione femminile né natalità (le due cose, come dovremmo ormai avere imparato, vanno di pari passo). Si crea cioè una paralisi di sistema. Sarebbe interessante ragionare su quanto questi modelli di welfare contribuiscono al rischio default in quei Paesi.

Si dovrebbe passare dall’impostazione familista (il più lo fa la donna, lo Stato dà una mano) a un modello di welfare inteso come servizi alla persona, sulla base delle sue effettive necessità. Non si tratta, cioè, di “dare una mano alla mamma” -che se possibile sta a casa a occuparsi di tutti-, si tratta di considerare le necessità di un cittadino-a contribuente (che ha fatto un bambino, o è invecchiato, o non è autosufficiente) e di corrispondervi, tenendo conto del suo reddito.

Questa impostazione, che richiede un vero e proprio salto culturale, è alla base del modello di welfare francese, definito dall’Ue come l’eccellenza a cui fare riferimento. Gli effetti sono virtuosi: liberazione di energie femminili, crescita di occupazione femminile e corrispettivamente di natalità, esternalizzazione e creazione di un indotto di servizi, che con l’uscita dal nero (il nostro sistema di colf-badantato, per chiamarlo così, è per almeno la metà sommerso) comporterebbe anche un maggiore introito fiscale per lo Stato, e via dicendo.

Se si deve riformare, proviamo a farlo davvero, “cambiando verso” innanzitutto nelle nostre teste.

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Art. 5.

(Delega al Governo in materia di maternità e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro)

1. Allo scopo di garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la generalità dei lavoratori, il Governo è delegato ad adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto, per i profili di rispettiva competenza, con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi per la revisione e l’aggiornamento delle misure volte a tutelare la maternità e le forme di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

2. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi:

a) ricognizione delle categorie di lavoratrici beneficiarie dell’indennità di maternità, nella prospettiva di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale prestazione a tutte le categorie di donne lavoratrici;

b) garanzia, per le lavoratrici madri parasubordinate, del diritto alla prestazione assistenziale anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore di lavoro;

c) introduzione del tax credit, quale incentivo al lavoro femminile, per le donne lavoratrici, anche autonome, con figli minori e che si trovino al di sotto di una determinata soglia di reddito complessivo della donna lavoratrice, e armonizzazione del regime delle detrazioni per il coniuge a carico;

d) incentivazione di accordi collettivi volti a favorire la flessibilità dell’orario lavorativo e dell’impiego di premi di produttività, al fine di favorire la conciliazione tra l’esercizio delle responsabilità genitoriali e dell’assistenza alle persone non autosufficienti e l’attività lavorativa, anche attraverso il ricorso al telelavoro;

e) favorire l’integrazione dell’offerta di servizi per l’infanzia forniti dalle aziende nel sistema pubblico-privato dei servizi alla persona, anche mediante la promozione dell’utilizzo ottimale di tali servizi da parte dei lavoratori e dei cittadini residenti nel territorio in cui sono attivi;

f) ricognizione delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, ai fini di poterne valutare la revisione per garantire una maggiore flessibilità dei relativi congedi, favorendo le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro;

g) estensione dei principi di cui al presente comma, in quanto compatibili e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con riferimento al riconoscimento della possibilità di fruizione dei congedi parentali in modo frazionato e alle misure organizzative finalizzate al rafforzamento degli strumenti di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.

AMARE GLI ALTRI, Donne e Uomini, economics, lavoro Febbraio 24, 2014

Femminicidio Economico

Sconcertante e violenta la fotografia Istat sul nostro “capitale umano” (espressione orripilante e disumana) secondo la quale una donna italiana, dal punto di vista della sua capacità di fare reddito, vale esattamente la metà di un uomo.

La disinvoltura con cui si maneggiano certi criteri di valutazione -maschili- può avere conseguenze catastrofiche sul simbolico, che per l’umano è tutto, e sull’immaginario, in particolare quello dei giovani in formazione, scoraggiando le ragazze e offrendo nuovi spunti alla prevaricazione sessista: perché tanto “tu vali meno di me, precisamente la metà”. O disincentivando le famiglie a investire sulla formazione di una figlia, investimento che renderebbe la metà rispetto quello su un figlio. Ora ci sono anche dei “dati” a dimostrarlo. “Guarda, c’è scritto anche sul giornale”: oggi i titoli sono impressionanti. Uno a caso, Repubblica, pag. 21: “Ricerca-shock sul capitale umano in Italia. Una donna vale la metà di un uomo”

I numeri dicono che nell’arco della sua esistenza un maschio ha una potenzialità media di reddito di 453 mila euro, mentre quella di una donna è di 231 mila euro. Ma -e in questo ma c’è quasi tutto- se si sommasse anche il lavoro domestico e di cura, al capitale umano femminile andrebbero aggiunti altri 431 mila euro, e se la matematica non è un’opinione -secondo me in parte lo è-  231 mila euro + 431 mila euro = 662 mila euro. Ergo: una donna vale 1/3 in più di un uomo. Oppure, a scelta, si può detrarre almeno la metà del reddito prodotto da un uomo, che lo produce in forza del fatto che c’è qualcuna che pensa a tutto “il resto”: cioè alla vita.

Alla vigilia di importanti riforme economiche e del jobsact, è assolutamente necessario rimettere al centro la preziosità del lavoro di cura, quel welfare vivente che continua a essere valutato come marginale e residuale, e senza il quale invece non vi sarebbe alcuna economia, né esistenza tout court.

In alternativa, smettere all’unisono di erogarlo. Così la capiscono.

bambini, Donne e Uomini, economics, lavoro, pubblicità Gennaio 19, 2014

Prima madri e padri. Poi lavoratrici e lavoratori

Nell’attesa che si sciolga il nodo della legge elettorale, speriamo di liberarci dall’impiccio al più presto, vediamo quello che c’è subito dietro l’angolo. E scalpita, perché nessuno di noi può più permettersi di aspettare: la questione lavoro-welfare.

Qui c’è da fare e da dire moltissimo, e ognuno approccerà la cosa dal proprio punto di vista. Io non riesco che a partire dalla vita: dalle esistenze reali, dal cambiamento dell’idea del lavoro e del rapporto lavoro-vita, dalle soluzioni, dagli aggiustamenti e dalle invenzioni prodotte dalle persone reali, intuizioni che dovrebbero essere la materia prima politica con cui quell’altra politica può lavorare (quell’altra politica non inventa mai davvero nulla: quando è buona è perché sa cogliere ciò che sta capitando, rappresentarlo e facilitarlo).

Mi sembra interessante quello che è stato pensato da un gruppo di madri e padri che a Milano si sono incontrati per ragionare insieme e mettere in comune le proprie esperienze. E che tanto per cominciare si qualificano come “madri e padri” e non come lavoratrici-ori anche quando parlano di lavoro e welfare, privilegiando sempre (primum vivere) questo aspetto della loro identità, ciò che dà davvero un senso alla propria esistenza (vale anche per un numero sempre maggiore di uomini). Questa è la prima intuizione: rimettere le cose nel loro giusto ordine.

La seconda è l’assunzione che non solo il lavoro ma anche la percezione del lavoro sono profondamente cambiati: e infatti parlano di “nuovo lavoro“, tenendo in mente le/i venti-trentenni (le madri e i padri) che oggi hanno bisogno di un welfare che tenga presente, oltre alla minoranza dei dipendenti, la grande maggioranza di “autonomi, collaboratori, professionisti e partite Iva, madri a part time, padri con lavori intermittenti etc. etc.. Smantellando cioè un immaginario sul lavoratore che non ha più riscontri nella realtà e cambiando prima di tutto l’immaginario del cambiamento.

La proposta dell‘indennità di maternità universale prende le mosse di qui, da questi cambiamenti nel lavoro e dalla percezione del lavoro, e dall’idea che i figli e la cura non siano più una faccenda esclusiva delle donne: si parla infatti di un welfare per l'”universal caregiver, per chi presta lavoro di cura, preziosissimo e insostituibile, donna o uomo che sia.

Una terza intuizione (la proposta la trovate integralmente qui) è che il welfare non può essere inteso come un modello uguale per tutti, ma deve offrire “libertà di scelta in modo che ciascuna/o possa praticare le proprie “preferenze e strategie personali e familiari”, che cambiano da individua-o a individua-o e nelle varie fasi della vita.

Cerchiamo di non dimenticare mai la vita reale, anche quando parliamo di contratti e di servizi.

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, salute Luglio 5, 2012

Spending Review: quanto costa a noi donne

La chiusura di quasi 150 piccoli ospedali, da Conegliano a Iglesias, e la diminuzione dei posti letto, misure contenute nella spending review del governo Monti, tra le molte conseguenze avranno questa, come sempre sottostimata, anzi totalmente ignorata dagli analisti e dai media: che noi donne dovremo lavorare di più. Se le possibilità di ricovero si ridurranno, toccherà essenzialmente a noi farci carico della quota supplementare di lavoro di cura che si rende necessaria quando c’è un malato in casa.

Questo significa che avremo ancora meno tempo per tutto il resto. Che aumenterà il numero di quelle che il lavoro non lo cercano più. Che di conseguenza la natalità non crescerà: il tasso di nascite ha una correlazione positiva con il tasso di occupazione. Che non crescendo l’occupazione femminile, non crescerà corrispettivamente nemmeno il Pil. Che occuparsi di cose come la politica, figuriamoci! con sofferenza per il Paese, costantemente privato di metà del doppio sguardo. Che si cronicizzerà la nostra condizione di welfare vivente. Che a nostra volta ci ammaleremo di più, sotto un peso sempre più mostruoso e sempre meno condiviso: non esistono più le grandi famiglie, non c’è la possibilità di distribuire il carico, compreso quello psicologico, sempre più spesso sei da sola. Con conseguente possibile aggravio della spesa sanitaria.

Questo per dire che in un Paese come il nostro i provvedimenti del governo non pesano allo stesso modo sui due sessi, e quando si varano occorre valutarne attentamente l’impatto anche dal punto di vista del genere.

Sarebbe compito della ministra per le Pari Opportunità Elsa Fornero.

 

Donne e Uomini, economics, lavoro, Politica Settembre 14, 2011

Caro Presidente Napolitano: noi donne, welfare vivente…

Carissimo Presidente Napolitano,

non so bene come si scriva a un Presidente della Repubblica. Ma se è consentito, carissimo davvero: con tutta la riconoscenza di chi si sente tutelata dalla sua saggezza, dalla sua sollecitudine e dal suo equilibrio.

Questi sono giorni di grande fatica per il nostro Paese, e alla riserva di fiducia abbiamo già abbondantemente attinto. Ad aggravare ulteriormente i pesi si prospetta la possibilità di una manovra aggiuntiva, sacrificio che attende ansiosamente di essere compensato da una maggiore chiarezza sulla direzione che abbiamo intrapreso: quale Paese? quale crescita? quale sviluppo?

Purtroppo questi pesi, carissimo Presidente, non appaiono equamente distribuiti fra le cittadine e i cittadini. Alle donne anche in questa circostanza è chiesto molto di più. Di salvaguardare il buon andamento della vita familiare e del bilancio domestico, pure disponendo di minori risorse. Di garantire qualche forma di risparmio a tutela della sicurezza della famiglia, benché da accantonare resti ben poco. Di continuare a farsi carico, vero welfare vivente, di tutto il necessario lavoro di cura, e in particolare dei bambini, degli anziani e dei non autosufficienti: lavoro preziosissimo, dato per scontato e scarsissimamente condiviso. E anzi, di farsene carico sempre di più, visti i tagli a servizi già insufficienti, pur cercando di non perdere il posto di lavoro, se si ha la fortuna di averne uno, magari precario e a tempo determinato: il rischio di entrare a fare parte dell’ampia schiera delle inoccupate per non uscirne più è molto concreto, in assenza di misure di sostegno all’occupazione femminile. Questo anche se autorevoli economisti ci hanno più volte spiegato, dati alla mano, che a un aumento dell’occupazione femminile corrisponderebbe un significativo aumento del Pil, con l’effetto virtuoso di produrre ulteriore occupazione.

E invece del lavoro delle donne non si parla più, se non in riferimento al momento dell’uscita, con l’età pensionabile in via di progressivo innalzamento: la sola parità che sia stata effettivamente riconosciuta, e in qualche modo inflitta. Perché quanto all’ammontare delle pensioni femminili, mediamente più basse di oltre il 30 per cento rispetto a quelle maschili, restiamo dispari. Disparità che va ad aggiungersi a quella del doppio o triplo ruolo, dato per scontato e indiscutibile. Qualcuno ha calcolato che ritardando il pensionamento, tra maggiori contributi versati e minori quote di pensione erogate, ogni donna “regalerà” allo stato tra i 40 e i 50 mila euro: un tesoretto che il Governo si era impegnato a destinare ai servizi per la famiglia, promessa puntualmente disattesa di fronte alla necessità impellente di fare cassa. Che alle donne tocchi lavorare fino a 65 anni significa anche che le giovani non potranno più contare sulle loro madri, ancora impegnate nel lavoro, per un aiuto con i bambini, ammesso e non concesso che sia giusto chiedere loro di compensare la carenza di servizi facendosi carico dei nipoti oltre che degli anziani genitori, necessità che con l’allungamento della vita media si pone sempre più frequentemente.

Insomma, Signor Presidente, le donne in questo Paese sono intese, volenti o nolenti, come una risorsa illimitata a cui attingere secondo necessità e ad libitum. La crisi lì non è contemplata. Proviamo a immaginare che cosa accadrebbe se tutte le italiane incrociassero le braccia anche per una sola giornata: e forse dovrebbero farlo, per rendere visibile nel momento in cui manca la preziosità di un lavoro che nessuno vede, nessuno monetizza, nessuno calcola nella sua centralità e nel suo immenso valore .

Se è vero che tra i passi necessari l’Europa ci chiedeva la parificazione dell’età pensionabile, è altrettanto e dolorosamente vero che in nessun altro Paese europeo la fatica femminile è tanto grande, i servizi così carenti, le pretese maschili così irriducibili: circostanze che probabilmente vanno in gran parte ricondotte a un’inadeguata rappresentanza politica femminile -anche qui siamo maglia nera-. Se le decisioni pubbliche non fossero prese quasi esclusivamente da uomini probabilmente non ci troveremmo in questa situazione, o quanto meno le soluzioni adottate non sarebbero queste.

Le chiedo perciò, carissimo Presidente, come si possa emendare questa profonda ingiustizia, confidando nella sua sensibilità e nella sua attenzione.

Voglia gradire i più cari saluti

 

Donne e Uomini, lavoro, Politica Settembre 7, 2011

ScioperA generale

 

 

 

 

 

Dunque il governo Berlusconi ha deciso che noi italiane lavoreremo di più, andando in pensione più tardi, in compenso i servizi diminuiranno causa taglio welfare. Il triplo salto mortale diventa sestuplo. La manovra ci spezza l’osso del collo.

Le giovani mamme non potranno nemmeno più contare sulle nonne per i loro bambini, perché le nonne saranno ancora al lavoro, avendo già peraltro sulle loro spalle la casa, i loro vecchi genitori, la cura dei malati, e via dicendo. Le donne italiane sono l’unico welfare di cui disponiamo, il cui ammontare può essere aumentato a dismisura, senza nemmeno chiedere loro se sono d’accordo e se pensano di farcela. L’unica è starsene a casa, altro che aumento dell’occupazione femminile che fa crescere il Pil. E fare più bambini: disfattiste!

E ora divertiamoci rileggendo quello che mi ha detto il ministro Renato Brunetta esattamente due anni fa di questi tempi (hey, ministro, te lo ricordi quel giorno a Ravello?):

mia domanda: Che cosa ne farà di quello che si risparmia posticipando il pensionamento delle donne?

risposta di Brunetta: «Sono due miliardi e 300 milioni di euro nei prossimi dieci anni che andranno ai non autosufficienti e al welfare familiare. Io ho voluto questo, io l’ho fatto mettere in un decreto legge già approvato dal Parlamento. Questa è la differenza tra un riformista e un post- comunista radical chic».

Lui l’ha voluto, ma poi non l’ha fatto. Immagino che il ministro oggi ci direbbe che le cose si sono messe economicamente peggio di quanto allora si potesse prevedere. Immagino che io gli risponderei: ma davvero pensate che siano sempre le donne a dover pagare? che siano la materia prima, la risorsa inesauribile a cui attingere a piacimento, come alla mamma? Perché non provate a immaginare -altro che sciopero generale!- che cosa capiterebbe se le donne mollassero all’unisono per 24 ore i bambini, i vecchi, la casa, la spesa, la cucina e tutto il lavoro di cura che erogano gratuitamente dopo aver lavorato 8 ore + eventuali straordinari?

Ecco: perché non lo facciamo?