Sconcertante e violenta la fotografia Istat sul nostro “capitale umano” (espressione orripilante e disumana) secondo la quale una donna italiana, dal punto di vista della sua capacità di fare reddito, vale esattamente la metà di un uomo.

La disinvoltura con cui si maneggiano certi criteri di valutazione -maschili- può avere conseguenze catastrofiche sul simbolico, che per l’umano è tutto, e sull’immaginario, in particolare quello dei giovani in formazione, scoraggiando le ragazze e offrendo nuovi spunti alla prevaricazione sessista: perché tanto “tu vali meno di me, precisamente la metà”. O disincentivando le famiglie a investire sulla formazione di una figlia, investimento che renderebbe la metà rispetto quello su un figlio. Ora ci sono anche dei “dati” a dimostrarlo. “Guarda, c’è scritto anche sul giornale”: oggi i titoli sono impressionanti. Uno a caso, Repubblica, pag. 21: “Ricerca-shock sul capitale umano in Italia. Una donna vale la metà di un uomo”

I numeri dicono che nell’arco della sua esistenza un maschio ha una potenzialità media di reddito di 453 mila euro, mentre quella di una donna è di 231 mila euro. Ma -e in questo ma c’è quasi tutto- se si sommasse anche il lavoro domestico e di cura, al capitale umano femminile andrebbero aggiunti altri 431 mila euro, e se la matematica non è un’opinione -secondo me in parte lo è-  231 mila euro + 431 mila euro = 662 mila euro. Ergo: una donna vale 1/3 in più di un uomo. Oppure, a scelta, si può detrarre almeno la metà del reddito prodotto da un uomo, che lo produce in forza del fatto che c’è qualcuna che pensa a tutto “il resto”: cioè alla vita.

Alla vigilia di importanti riforme economiche e del jobsact, è assolutamente necessario rimettere al centro la preziosità del lavoro di cura, quel welfare vivente che continua a essere valutato come marginale e residuale, e senza il quale invece non vi sarebbe alcuna economia, né esistenza tout court.

In alternativa, smettere all’unisono di erogarlo. Così la capiscono.

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