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AMARE GLI ALTRI, diritti, salute Luglio 6, 2015

Belgio: l’eutanasia di Laura, 24enne depressa

In Belgio una ragazza depressa di 24 anni ha chiesto e ottenuto di essere sottoposta a eutanasia –forse sarebbe più corretto parlare di suicidio assistito-, pratica che dovrebbe essere messa in atto entro l’estate. La legge belga, insieme a quella olandese, ammette l’eutanasia: ogni giorno vengono accompagnate alla morte 5 persone ammalate fisicamente o psichicamente, e le richieste sono in costante aumento, di quasi un terzo nell’ultimo anno. Cresce anche il numero di accessi consentiti a persone non terminali e senza patologie fisiche. Recentemente è stata sottoposta ad eutanasia una transessuale che non accettava l’esito degli interventi a cui si era sottoposta e si sentiva “un mostro”. In febbraio la possibilità di accedere a eutanasia è stata estesa ai bambini malati terminali.

Laura, chiamiamola così, non è una paziente terminale, né soffre di alcuna patologia fisica. Il suo problema è una forte depressione con pensieri suicidari. In un intervista al quotidiano De Morgen, Laura dice che “la vita non fa per me e racconta di essere stata ossessionata dal pensiero della morte fino dalla prima infanzia. Spiega di non essere stata desiderata dai genitori e di aver avuto un padre alcolista. Dice che i suoi nonni le hanno dato una famiglia stabile e affettuosa, ma questo non è bastato. Dice che è convinta che avrebbe avuto questo desiderio di morte anche se le cose con i suoi genitori fossero andate diversamente. “La morte” spiega “non la vedo come una scelta. Se avessi la possibilità di scegliere opterei per una vita decente, ma ci ho provato in tutti modi e senza successo. Ho commesso vari tentativi di suicidio, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di me e io non volevo fare del male a nessuno. E’ questo che mi ha fermato”.

In ospedale psichiatrico Laura ha conosciuto una ragazza che è stata sottoposta ad eutanasia per problemi simili ai suoi, e da allora ha cominciato a concepire questa soluzione. Il Daily Mail riferisce che uno dei maggiori sostenitori dell’eutanasia in Belgio, il dottor Wim Distelmans, è stato al centro di grandi polemiche e condanne per aver organizzato un simposio ad Auschwitz. Il medico ha spiegato che “Auschwitz è il luogo più adatto per organizzare un seminario e riflettere su queste pratiche”. Un report pubblicato dal Journal of Medical Ethics ha concluso che almeno un paziente su 60 sottoposti a eutanasia non l’ha mai richiesto: in particolare si tratta di anziani ottantenni e ultraottantenni ricoverati in ospedale senza patologie terminali, in stato di coma o affetti da demenza. I cosiddetti  lungodegenti, che costano molto alla sanità pubblica . Spesso la decisione viene assunta dai medici senza nemmeno consultare i familiari. L’autore del report, il Professor Raphael Cohen-Almagor della Hull University, dice che “la decisione su quale sia definibile vita e quale no non è nelle mani dei pazienti, ma in quelle dei medici. E’ una pratica che sta prendendo sempre più piede in Belgio”.

Il caso di Laura sta dividendo il Paese. Si tratta di un caso limite: una ragazza fisicamente sana, con una lunghissima aspettativa di vita, e una  ragionevole speranza di poterla cambiare (essere adeguatamente e amorosamente curata, magari aiutata a trasferirsi altrove, lontano dal teatro di una vita insopportabile, poter sperare in un amore, in una rete di relazioni affettive, in qualcosa di bello che può capitarti). Forse appena un barlume, che tuttavia resta acceso. E’, in quanto gravemente depressa, abbastanza lucida per chiedere la soluzione definitiva della morte? E’ abbastanza adulta da essere immune da comuni fantasie adolescenziali sulla morte?

I tentativi non riusciti di suicidio messi in atto da Laura lo dimostrano indirettamente: in genere i TS sono grida d’allarme, estreme richieste di attenzione. Chi vuole davvero morire, la gran parte di noi lo sa avendo avuto la dolorosa esperienza di amici o congiunti suicidi, sa farlo a colpo sicuro.

Certo: l’eutanasia di Laura costerebbe pochissimo al servizio sanitario nazionale belga, molto più che prendersi cura di lei. Ma costerebbe moltissimo all’identità di quel Paese.

L’augurio è che i cittadini belgi inorriditi da questa storia sappiano fare sentire alta la propria voce: Not in My Name.

Il tempo è davvero poco. Io non posso che ripetere qui quello che ho scritto ieri sui social network, dopo aver appreso della vicenda:  questa storia è merda.

Corpo-anima Giugno 7, 2010

MENTE IMBROGLIONA

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Meglio un tumore, dovendo scegliere, piuttosto che la depressione: secondo Onda, Osservatorio nazionale sulla salute femminile, lo pensa una donna italiana su due. Il tumore puoi provare a curarlo. Con la depressione non vivi più.
La cosa ha una sua pazzesca oggettività. Nel giro di una ventina d’anni -proiezioni Oms- in cima alle emergenze sanitarie ci sarà la depressione, non il cancro. 12 uomini su 100 e 20 donne su 100 sperimenteranno almeno un episodio di male maggiore, che ti inchioda a letto. Un dolore che non sai spiegare e vivi “clandestinamente” e colpevolmente. Su e giù, dentro e fuori, secondo una logica misteriosa: “Ieri stavo bene: che cosa mi è successo, oggi?”.
Quello che è successo ad Alice, che si rigira nel letto, i pensieri che la ossessionano come un disco rotto, è un’ordinaria rogna in ufficio. Una stramaledetta riunione andata storta. Tutto qui. Ora i muscoli le dolgono, si trascina a fatica. I pensieri sempre più neri: ricomincerà a ingozzarsi di cibo, resterà senza lavoro, i figli saranno allo sbando. Tutto andrà male. Una spirale che la avviluppa e la tira giù. La prima volta è stata cinque anni prima, quando il suo matrimonio è finito. Gli antidepressivi l’hanno rimessa in sesto. Ma quando li sospendi prima o poi ci ricaschi. Sempre lo stesso schema: una piccola, occasionale infelicità che risveglia quella grande. E rieccoti all’inferno.
Raccontando il caso di Alice, gli psichiatri americani Jon Kabat-Zinn, Zindel Segal e i loro colleghi inglesi Mark Williams e John Teasdale, autori di “Ritrovare la serenità-Come superare la depressione attraverso la consapevolezza” (RaffaelloCortina), spiegano che ciò che scatena la depressione non è quel piccolo malumore passeggero, ma il modo in cui vi reagiamo. Per liberarci del cattivo sentimento ci divincoliamo. Gli dichiariamo guerra, per la paura che ci trascini nel gorgo. Ma più ci agitiamo e più ci impantaniamo. “La cosa a cui opponiamo resistenza persiste”. E’ proprio questa lotta ad alimentare la cascata dei pensieri “tossici”, e a far lievitare l’angoscia. Ed è qui, in questa fase iniziale, che si deve intervenire, cambiando strategia. La nuova strada è quella della “mindfullness”: consapevolezza, piena presenza mentale, risorsa di cui tutti siamo dotati ma che non sfruttiamo a sufficienza. Si tratta di imparare a vedere le emozioni per quello che sono: “messaggeri” che passano e vanno rapidamente. Se le trattiamo come nemici, se ingaggiamo la battaglia, rimarremo intrappolati proprio nell’umore che stiamo cercando di sconfiggere.
Esempio: è una bella giornata di sole, state passeggiando in riva al mare. Eppure qualcosa che non va. Non vi sentite felici. “Dovresti esserlo”, ammonisce la mente critica. Risultato: state peggio di prima. Si innesca il micidiale processo di ruminazione: “perché non sto bene?”, “che cosa mi sta capitando?”. E la ruminazione è il tappeto rosso della depressione. Ma un’alternativa al pensiero critico esiste, ed è appunto la mindfullness, la consapevolezza.
Daccapo. State passeggiando in riva al mare e non vi sentite perfettamente felici: ma stavolta non lottate contro questa inspiegabile infelicità. La mente consapevole non le resiste, non la giudica, le va incontro, la accoglie per quello che è, un evento mentale temporaneo, una nube passeggera che attraversa rapidamente il cielo. La osserva e la lascia andare. La ruminazione non parte. Il senso di colpa (“non sono capace di essere felice”) è disinnescato. Al suo posto, pazienza e compassione.
Ma come si fa a essere consapevoli? Come si impara a restare fiduciosamente radicati nel presente, stoppando l’automatismo dai cattivi ricordi e la fuga ansiosa nel futuro?
Il programma proposto da Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale –illustrato in un cd allegato al libro- combina pratiche meditative orientali e terapia cognitiva occidentale, e ha dimostrato di saper dimezzare il rischio di ricaduta. Consapevolezza del respiro, primo step: il respiro è l’amico che ci tiene ancorati al qui-e-ora, impedendo alle vecchie abitudini mentali di prendere il sopravvento. La mindfullness può essere anche “in movimento”: camminate consapevoli, Tai Chi, Hatha Yoga, con un coinvolgimento più immediato del corpo, perché la depressione è un’esperienza anche fisica. Contratture, rigidità, dolore, stanchezza che nascono delle reazioni di lotta e/o fuga indotte dalla sofferenza interiore. Lavorare con consapevolezza sul fisico –scansione del corpo– libera i pensieri tossici intrappolati nelle ossa e “abbassa il volume del chiacchiericcio mentale”. Via via si può imparare a essere consapevoli per gran parte della giornata, nel corso delle più semplici attività quotidiane: quando facciamo il bucato, cuciniamo o innaffiamo le piante, la pratica che coincide con la vita, il senso confortante di essere “a casa”.
La depressione può anche essere letta come un grave errore di interpretazione. Kabat-Zinn, Segal, Williams e Teasdale fanno l’esempio di un ragazzino, figlio di separati. E’ mercoledì e papà lo andrà a prendere a scuola. Il ragazzo è felice: staranno insieme, andranno a comprare nuove scarpe da ginnastica. Ma fuori da scuola papà non c’è. Passano dieci minuti, mezz’ora, un’ora. Il ragazzino torna a casa avvilito. Parte la ruminazione: papà si è dimenticato di lui, non lo ama abbastanza. Si sente solo, senza amici. La sua vita è triste. A casa e accende la tv. Ma quel programma va in onda il martedì! Papà non si è affatto dimenticato. Semplicemente, non era il giorno giusto. L’interpretazione del ragazzo era sbagliata. Il suo dolore però era vero.
Può capitare così anche nella depressione. Prendiamo i cattivi pensieri –le interpretazioni- come cattivi fatti, e ci lasciamo travolgere. Ma i pensieri non sono reali. Sono solo evanescenti oggetti mentali. Nuvole che passano e vanno. Un po’ di allenamento e impareremo a riconoscerli, ad accoglierli e a lasciarli andare, così come sono venuti. La serenità si può apprendere.

pubblicato su Io donna-Corriere della Sera il 6 giugno 2010

Archivio Giugno 17, 2008

Il meglio del Sud

C’è una storia che riguarda la psicoterapeuta napoletana Elvira Reale, trent’anni di esperienza sulle psicopatologie di genere. Vorrei raccontarvela per arrivare poi a dire qualcosa su Napoli. Un giorno le sottopongono il caso di una giovane donna gravemente depressa: non regge più i tira-e-molla del suo fidanzato, pensa solo al suicidio. La ragazza è chiusa nella sua angoscia, muta, si dondola avanti e indietro. Sarebbe da ricoverare. Ma Elvira fa un tentativo: “Tu non parli” le dice“ ma puoi ascoltarmi. Ti chiedo tre mesi, non di più. Rimanda fino ad allora, e poi decidi. A suicidarti fai sempre in tempo”. Poi prende il fidanzato-aguzzino e gli intima di levarsi di torno. La ragazza è ancora al mondo. Elvira ha saputo accompagnarla fuori dal suo buio. Solo con le parole, senza ricovero, senza farmaci.
Di questa storia, oltre al lieto fine, mi sono piaciute tre cose: l’assunzione di responsabilità, anche se le cose potevano finire male, ed è raro che un terapeuta sia disponibile a correre un rischio del genere; quel pragmatismo femminile, quello “sporcarsi le mani” mettendosi in mezzo, senza tante storie, tra la vittima e il suo carnefice; e soprattutto la profonda fiducia nella relazione, senza la quale la vita non è vita, si rischia di morire, e vale per tutti, non soltanto per chi è depresso.

Mi viene in mente un grande scrittore napoletano, Domenico Rea: lui diceva che qui a Milano parlavamo tutti “o scientifico, o inglese”. Se n’è andato un po’ di anni fa. La lingua che parliamo ormai è quasi solo quella. Con la sua paziente Elvira Reale non ha parlato né scientifico né inglese. Ha scelto la lingua materna, l’autorità che risana, il corpo-a-corpo della relazione primissima.

In questi giorni a Napoli è in corso un grande Festival del Teatro. Penso a quanta gente di valore vive lì, a quanta intelligenza vi circoli: e credo che il nerbo stia proprio in questo talento per la relazione, talento che resiste, sia pure in tanto strazio. Lo dico soprattutto ai più giovani: non si facciano l’idea che lì c’è solo immondizia. Quello che di lì potrebbe venirci, insieme a questo peggio, è anche il nostro meglio.

(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera” il 14 giugno 2008)

Archivio Giugno 2, 2008

DEPRESSIONE: PER NON AMMALARSI

Nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di malattia e di invalidità nel mondo. Le donne ci sono già arrivate: nella fascia d’età tra i 15 e i 44 anni – dati OMS- la depressione è già prima causa di infermità, senza differenze tra classi sociali, né tra paesi sviluppati e in via di sviluppo. Le donne si ammalano di più (il rapporto è di 2 a 1), sono curate peggio, hanno più frequenti ricadute.
Elvira Reale ha una lunga esperienza in questo campo: prima della legge Basaglia è stata primaria psicologa all’Ospedale psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli. Quindi ha lavorato negli ambulatori territoriali dove, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, ha preso definitivamente avvio la sua pratica di ascolto del malessere femminile. Oggi Reale dirige l’unità operativa di Psicologia clinica della ASL Napoli 1, di cui fa parte un centro di Prevenzione Salute Mentale Donna oltre a un centro clinico per il maltrattamento visto nel suo nesso con i disturbi psichici femminili, e collabora come ricercatrice su questi temi con il CNR e l’OMS.
Mossa da due idee guida -che come altre patologie anche la depressione si possa prevenire, e che un approccio “di genere” sia decisivo per aiutare le donne a non ammalarsi e a guarire- Elvira Reale ha pubblicato per FrancoAngeli un libro prezioso, “Prima della depressione- Manuale di prevenzione dedicato alle donne”, completo di schede di approfondimento ed autovalutazione.
Le domandiamo anzitutto come mai l’idea di poter prevenire la depressione stenti ad affermarsi.

“Il perché ha a che fare proprio con il genere” spiega. “La depressione è prevalentemente femminile, e quando c’è prevalenza femminile la medicina fa sempre riferimento alla vita biologica, ai cicli riproduttivi e agli ormoni come a un destino ineluttabile. Nei settori più abitati dagli uomini, invece, per esempio nelle malattie cardiovascolari -fino a pochi anni fa considerate erroneamente solo maschili- si è fatta molta ricerca sui fattori di rischio”.

Sei depresso, vai dal medico e sempre più spesso ti senti dire cose tipo
“hai poca serotonina”: la depressione come esito di una carenza biochimica.
Lei invece sostiene che anche dietro la depressione endogena ci sono circostanze della vita su cui almeno in parte si può intervenire.

“Lo stress è la porta di accesso al corpo, il limite tra interno ed esterno. Diventa patologico quando si prolunga nel tempo e non hai risorse sufficienti a reggerlo. La pressione eccessiva degli eventi produce modificazioni fisiche e psichiche che puoi affrontare o agendo all’interno del corpo –con i farmaci- o all’esterno, alleggerendo la pressione. Ma quando si tratta di fare prevenzione l’unica possibilità è il lavoro esterno. In fase di terapia si può scegliere tra i farmaci e psicoterapie, ma con la genetica e con i farmaci prevenzione non se ne può fare. Qui puoi solo lavorare sugli stili di vita”.

Il fatto che la depressione sia la prima causa di infermità per le donne tra i 15 e i 44 anni significa che le donne sopportano un maggiore carico di stress rispetto ai loro coetanei maschi?

“Sono fatti dimostrati da un’infinità di studi e ricerche. Che poi però non fondano un intervento terapeutico conseguente e un’idea di prevenzione”.

In genere si pensa che le donne metropolitane siano più a rischio di quelle che abitano piccole comunità, e che ci siano più depresse nelle realtà industrializzate che nei paesi in via di sviluppo. Invece non è così.

“La depressione è una patologia “interclassista”, legata a una funzione sociale che la donna svolge in tutte le situazioni. Lo stress diventa depressione quando oltre a portare un carico eccessivo quello che sei e che fai non viene riconosciuto, e si produce una lesione dell’autostima. Se un uomo va dallo psichiatra magari si sentirà anche dire che ha poca serotonina, ma qualche indicazione sui motivi del suo malessere gli verrà data: un lavoro stressante, una moglie rompiscatole, qualche imbeccata per intervenire sulla sua vita. La donna difficilmente avrà queste indicazioni. E’ il post partum, le si dirà, o la menopausa. Hai il marito, hai dei bei figli, pensa solo a loro. E sarà il colpo definitivo”.

Se dietro la depressione femminile spesso c’è un compagno violento, o la fatica di stare in un mondo del lavoro ancora pensato a misura degli uomini, la prevenzione non può che essere “politica”.

“Anche la singola donna può fare molto. Se c’è una cosa che ti fa definitivamente ammalare è non sapere perché stai male. L’idea del male oscuro genera un circuito perverso. Sapere invece che se non riesci ad alzarti dal letto è perché tuo marito ti dà della stupida, perché il datore di lavoro ti molesta, o perché i figli pretendono tutto da te, significa poter raddrizzare la schiena, non pensarti più come malata ma come oberata, e toglierti di dosso almeno parte dei carichi”.

Lei indica il lavoro di cura tra i principali fattori di rischio.

“Parlo di burn out, che è una sindrome analizzata nelle professioni di aiuto, come i terapeuti e gli insegnanti, e consiste nel saper non porre paletti tra curato e curante. Le madri non sono educate a mettere paletti tra sé e i figli. Ovunque si elogia la loro dedizione assoluta senza sottolinearne i rischi. Per loro e per i figli”.

Forse più che il sovraccarico pesa il fatto che il lavoro di cura non è riconosciuto nella sua preziosità…

“Le nostre madri e le nostre nonne questo riconoscimento l’avevano, e forse sì, c’era meno depressione. Ma soprattutto potevano contare su una condivisione nella cura dei bambini. C’erano altre figure femminili in casa, e non quel rapporto esclusivo, ossessivo che vediamo oggi. Il che permetteva una certa distanza tra madri e figli. Io non raccontavo tutto a mia madre, mentre oggi a noi terapeuti spesso tocca insegnare alle adolescenti a dire bugie alle loro madri, a separarsi, a porre dei limiti. Parlando di depressione metto al centro la maternità: la madre con figli piccoli è quella che rischia di più. Segue la madre con figli adolescenti e postadolescenti. Anche le bambine e le ragazze le guardo attraverso la lente della maternità, come “apprendiste” del materno e dell’oblatività, di quel fare per altri prima che per sé. E la personalità depressiva è proprio quella di chi non sa fare per se stesso”.

Per prevenire la depressione lei “prescrive” mezz’ora al giorno riservata a sé, fuori dai rapporti familiari, preferibilmente tutti i giorni. Come per salvare il cuore ci vuole una mezz’ora di camminata quotidiana. Ma torniamo alla temutissima depressione ormonale.

“Tre giorni di turbamento dopo il parto legati a un calo degli ormoni –il
famoso baby blues- non hanno niente a che vedere con quel radicale senso di
inutilità e di incapacità che si sperimenta nella depressione. Gli ormoni non
hanno tutto questo potere”.

Vale anche per la menopausa?

“L’età di maggiore incidenza della depressione è 15-44, quindi con ormoni molto attivi. Ma poi si dice che anche la menopausa è una fase di rischio: stavolta perché calano gli ormoni? In realtà in questa età si registra una flessione dei casi di depressione. Qui il primo fattore di rischio è l’immagine sociale, che ti induce a sentirti vecchia, da buttare via. E anche qui c’è una grande offerta di farmaci, sulla cui efficacia peraltro ci sono sempre più dubbi”.

Il suo interesse per la prevenzione nel campo della salute mentale è condiviso da altri operatori?

“Non mi risulta che ci siano esperienze analoghe sul territorio nazionale”.

Pensa che un centro come quello che lei dirige a Napoli incontrerebbe le stesse problematiche in una realtà come Milano?

“Forse con piccole variazioni: a Milano ci sono più donne che lavorano e meno casalinghe “pure”. Ma stress da sovraccarico e maltrattamenti ci sono anche lì, allo stesso modo”.

(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera” il 17 maggio 2008)

Archivio Maggio 29, 2008

PANIC ATTACK

Un indizio di come stiamo è quando riusciamo a prendere il metrò al volo. Credevamo di averlo perso e invece –miracolo-, piccola esitazione del conducente, ecco che ci scaraventiamo in carrozza con un balzo trionfante, rischiando lo stritolamento tra le porte. E atterrati lì, sciagurati sorridiamo, di un sorriso che non smette di aleggiare, come quello del gatto dello Cheshire, cercando ammirazione negli sguardi dei passeggeri. Abbiamo preso tre minuti, con quella corsa forsennata. Cinque, forse. Per farne cosa? Che prospettive apre, quel sontuoso tempo supplementare? Qualche istante guadagnato nella partita con la morte, o un inaspettato caffè prima del cartellino?
C’è anche chi balza in carrozza e si attacca alla sbarra senza cambiare faccia, uno stampo di sonno e disperazione. Ci vuole altro per strappargli un sorriso. Arrivare prima: e cosa cambia? e dove, poi? e perché? In genere a questi –ma anche a quelli, altra tipologia, che appena saliti saltano fuori pallidissimi la stazione dopo, una rantolante scorta di ossigeno per riuscire a fare un’altra fermata- un medico pietoso prima o poi prescriverà un farmaco SSRI, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors, per trattenere in circolo quel poco di serotonina che consenta la sfida quotidiana della tratta Pasteur-San Babila.
Sull’efficacia di questa roba il dibattito è aperto: secondo alcuni, se il problema esistenziale che si è espresso biochimicamente nella carenza di serotonina alla fine della terapia è ancora lì, se non si è fatto nulla per sciogliere il nodo, i sintomi torneranno, quelli o altri. La questione della depressione è molto seria, visto che nel giro di qualche anno sarà la principale emergenza sanitaria in Occidente, e di come funziona il nostro cervello si sa ancora troppo poco. Ma un paio di convincimenti alla buona me li sono fatti: siamo corpi-anime, un tutt’uno, e separare ci fa sbagliare strada; la parola “sintomo” (gr. syn-, insieme, piptein, cadere) mi fa pensare a due cose che inaspettatamente si scontrano, a un conflitto che rivela qualcosa di noi: la malattia sta proprio nell’ostinazione con cui cerchiamo di non dare ascolto a questo nostro sé inaudito che vuole rivelarsi.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)

Archivio Giugno 2, 2007

GUARIRE

Patricia ha appena avuto il suo secondo bambino, a poca distanza dal primo. E’ in pieno baby blues. Una depressione che le taglia le gambe. Due gravidanze di fila, e Patricia si è giocata tutti i suoi Omega-3. Al feto gli Omega-3 servono per fare il cervello, composto per due terzi da acidi grassi. Ma anche il cervello di Patricia ne ha bisogno per funzionare. Avrebbe dovuto mangiare più pesce: salmone, pesce azzurro. Gli Omega-3 si trovano anche nell’olio di colza e nelle noci. O negli integratori, evoluzione del vecchio, disgustoso olio di fegato di merluzzo.
Oggi si consuma meno della metà degli Omega-3 che si consumavano tra le due guerre. E guarda caso, non c’è mai stata tanta depressione. Ma gli Omega-3 fanno bene anche al cuore e al sistema cardiocircolatorio. E un cuore che funziona come si deve è a sua volta un presidio contro la depressione. Così come un cervello in buona salute protegge dall’infarto e dai problemi cardiovascolari.
Nel suo Guérir, best seller internazionale (Sperling & Kupfer), il professor David Servan-Schreiber, psichiatra e docente presso le università di Pittsburgh e di Lione, racconta questa e altre storie. Di come sia arrivato a convincersi che il corpo e la psiche fanno un’unità inscindibile.
L’incontro con la medicina tibetana è stato fondamentale: “Voi occidentali” gli disse un giorno un “collega” di Dharamsala “siete sempre sorpresi nel constatare che quello che chiamate depressione, ansia o stress ha dei sintomi fisici. Per noi vale il contrario: il pianto, la perdita di autostima sono manifestazioni mentali di un problema fisico. In realtà non si tratta di fisico o mentale” aveva concluso. “i sintomi emotivi e fisici sono due aspetti di uno squilibrio nella circolazione dell’energia”.
Noi occidentali l’abbiamo capito a metà. Ormai ci è chiaro che un disturbo emotivo può “somatizzare”: ci si può ammalare dopo un lutto, un divorzio, la perdita del lavoro. Ci è più difficile comprendere che un cattivo funzionamento dei nostri organi può determinare uno squilibrio emotivo. Che un’alimentazione disordinata e uno stile di vita scorretto possono indurre depressione. Che curando il corpo si cura anche la mente.
Il settimanale Newsweek ha recentemente dedicato una cover story al potere risanante della preghiera. Negli Stati Uniti si fanno corsi universitari sul rapporto tra fede e salute. Il 72 per cento degli Americani crede che pregando ci si ammali di meno. Il National Institute of Health investirà 3 milioni e mezzo di dollari nelle ricerche sulla medicina mente-corpo.
Gli effetti benefici della meditazione sono noti: riduzione dello stress, migliore risposta immunitaria, abbassamento della pressione sanguigna. La preghiera potrebbe funzionare allo stesso modo. Purché non sia obbligata e “moralistica”, osserva Servan-Schreiber. “Purché pregando il petto sia invaso da un senso di gratitudine verso il mondo”. Meditazione o preghiera, esercizi respiratori o biofeedback secondo l’uso orientale o occidentale, gli effetti di queste pratiche sul cuore sono sorprendenti. Un cuore in buona salute ha un battito variabile, in corrispondenza degli stati emotivi: un ritmo regolare come un metronomo è un segno preoccupante. Le cose non vanno bene nemmeno quando il ritmo è caotico, con palpitazioni e aritmie. In assenza di patologie cardiache, dice Servan-Schreiber, un battito caotico viene scatenato dalle emozioni negative. Le emozioni piacevoli, al contrario, mantengono il ritmo coerente e variabile.
Ma è vero anche il contrario. Riportando il battito in coerenza, con la meditazione o il biofeedback, siamo invasi da emozioni positive. Emozioni che, in un circolo virtuoso, rafforzano la coerenza del battito, con effetti benefici a cascata: controllo di ansia e stress, stimolazione del sistema immunitario, abbassamento della pressione, aumento del tasso di Dhea, l’ormone della giovinezza. Il cuore sta bene, il cervello pure. L’anima-corpo è in gran forma.
Anche l’esercizio fisico produce notevoli effetti sulla psiche. La Duke University ha realizzato uno studio comparato sulla depressione: un gruppo di pazienti è stato trattato con un antidepressivo a base di sertralina, l’altro gruppo solo con jogging. Dopo 4 mesi di cura, i pazienti dei due gruppi si sentivano egualmente bene. Dopo un anno, un terzo dei pazienti curati con il farmaco aveva avuto una ricaduta, mentre il 92 per cento dei “corridori” continuava a star bene. Il benessere è correlato alla secrezione di endorfine, oppiacei endogeni che garantiscono un persistente senso di appagamento: chi corre, fa spinning o un altro esercizio sostenuto, dopo 20-30 minuti raggiunge il cosiddetto “high”, o “estasi”. I pensieri fluiscono, le emozioni negative si attenuano, come per effetto di una buona droga. Ma l’esercizio induce anche coerenza del ritmo cardiaco e un migliore funzionamento del sistema immunitario, fattori entrambi correlati al benessere psichico e fisico.
Uno dei metodi più sorprendenti descritti da Servan-Schreiber, a dimostrazione dell’inscindibilità di mente corpo, è l’Emdr (desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari).
Un giorno di alcuni anni fa la psicoterapeuta californiana Francine Shapiro, creatrice del metodo, passeggiava in un parco rimuginando un ricordo spiacevole. Si rese conto che mentre pensava i suoi occhi si muovevano rapidamente, come nella fase Rem (Rapid eye movement) del sonno. Shapiro provò a rifarlo intenzionalmente, e si avvide che mentre i suoi occhi si muovevano i pensieri spiacevoli regredivano. I movimenti oculari innescavano un processo di autoguarigione del cervello.
Oggi L’Emdr è considerato uno dei due metodi di elezione per la cura del disturbo da stress post traumatico: un movimento fisico che sana lo spirito. Il metodo è riconosciuto dall’American Psychological Association, e il nostro Ministero della Sanità lo classifica tra i metodi “probabilmente utili”, la stessa classe a cui appartengono farmaci come lo Zoloft. L’Emdr è stato utilizzato come metodo di psicologia d’emergenza sui bambini sopravvissuti al crollo della scuola di San Giuliano di Puglia, e sugli scolari di un istituto attiguo al grattacielo Pirelli, traumatizzati dallo schianto di un aereo nella primavera del 2002.
Al termine della terapia, in genere poche sedute, i pazienti riferiscono di considerare il ricordo del trauma lontano e non più disturbante, come se il contenuto doloroso fosse stato “digerito” e consumato.
Secondo Servan-Schreiber, l’Emdr può essere utilizzato anche per disturbi diversi dallo stress post-traumatico. “In tutte le forme di depressione o di ansia” spiega “si deve tentare di identificare nella storia del paziente le cause scatenanti dei sintomi”. Microtraumi, piccoli choc emotivi possono essere all’origine dei disturbi.
L’Emdr non è alternativo alla psicoanalisi, ma può integrarla, restituendo al corpo una parte “in commedia” all’interno del set analitico. Matilde ha affrontato una terapia psicoanalitica junghiana. Ha capito molto di sé e ha imparato a convivere con i suoi sintomi: nel suo caso, agorafobia con panic attack. “Eppure” ricorda “ogni volta che varcavo la soglia dello studio avevo la sensazione di dovermi “decorporeizzare”. Di dover abbandonare e dimenticare il corpo, steso come morto sul lettino, mentre la psiche giganteggiava”.
L’esperienza contraria è molto più comune. Dover parlare con un medico dei mali del proprio corpo abbandonando l’anima in sala d’attesa. Roberto Elli, endocrinologo milanese, è un medico di famiglia, categoria minacciata da un progetto ministeriale che prevede di sostituirli con anonimi ambulatori. Elli dice che la maggioranza dei pazienti manifesta un grande bisogno di “parlare”: “Per me l’ascolto è fondamentale” dice. “Se ascolti e guidi il paziente in ciò che dice, la diagnosi se la fa da solo. Conoscere il background di una persona è determinante. Anche per capire qual è il vero male da curare. Se si tratta di dermatite o di colite, e non piuttosto di depressione”.
Fabio Magrini, direttore dell’istituto di Clinica medica e della Seconda scuola di Cardiologia all’Università Statale di Milano, conferma che tutti i pazienti chiedono attenzione alla persona nella sua globalità: “Gli ingegneri” scherza “sono i più freddi: trovami il guasto e aggiustalo. Ma è una reazione di paura. Certo, quando un paziente arriva in pronto soccorso con un infarto acuto la relazione conta relativamente. In questo caso servono rapide decisioni di tipo operativo. Diverso è il caso di condizioni croniche. Lì collaborazione, fiducia e simpatia sono importanti. Anche se, a mio parere, un eccessivo coinvolgimento può costituire un limite. E non sempre c’è il tempo per garantire una relazione piena”.
Allen Roses, dirigente della multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline, ha recentemente dichiarato che i farmaci sono inefficaci per quasi la metà dei pazienti a cui sono stati prescritti. Un duro colpo, per la medicina tradizionale. Che sembra dare ragione a quanti, soprattutto donne, sono costantemente alla ricerca di soluzioni di cura alternative, all’insegna di un’idea indivisa del corpo-psiche.
“Il cervello è un organismo straordinario” dice Raffaele Morelli, direttore di Riza psicosomatica “che trasforma in carne tutti gli stati d’animo. La salute e la malattia passano di lì. Evitare le emozioni negative non si può. Quello che conta è non trattenerle negandole, ma osservarle con benevolenza, fintanto che “si scaricano””. Non viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ma possiamo imparare a reagire nel migliore dei modi possibili, controllando la nostra fisiologia. E la nostra salute. “Il cervello sa guarirsi da solo” dice ancora Morelli. “E’ in stato di perenne autoguarigione”.
La medicina tradizionale accoglie solo in parte le acquisizioni della psicosomatica, che fin dalle sue origini si è sviluppata in due filoni, come spiega Piero Parietti, presidente della Società italiana di medicina psicosomatica: “C’è un filone nosografico, che spiega come certe malattie originino da problemi psicologici. E un filone metodologico, per il quale ciò che conta non è tanto la certezza dell’origine psicologica, quanto l’approccio diverso al paziente, considerato come una persona nella sua interezza. Perfino dal chirurgo o dal dentista. Questo secondo filone è il più fecondo. Recentemente la psicosomatica ha cominciato anche a considerare il benessere della persona, con un’attenzione allo stile di vita e all’ambiente. Di tutto questo nella formazione accademica passa poco, fatta eccezione per quei professionisti sensibili che scelgono questo approccio nell’ambito degli insegnamenti tradizionali”.
Per trent’anni Piero Parietti è stato anche medico di base. L’idea che mente e corpo siano una cosa sola ha informato tutta la sua pratica quotidiana. Parietti ricorda la storia di un paziente ammalato di cancro alla laringe. L’intervento demolitore non poteva essere evitato. Però si poteva cercare di cavare qualcosa di buono da questa esperienza di male estremo. Il paziente scelse la strada della massima consapevolezza, e apprese alcune tecniche di rilassamento profondo. Dopo l’intervento lavorò accanitamente per ritrovare la voce perduta, elaborando un metodo che ora insegna ai laringectomizzati. Oggi la sua voce è quasi normale, molti non si accorgono neppure del problema.
Quando si tratta di cancro, proporre un’alternativa ai protocolli di cura in vigore è ancora più difficile. Dopo vent’anni di ricerche in solitudine, oggi il dottor Pier Mario Biava è ripagato dall’interesse e dall’entusiasmo con cui un’équipe di oncologi dell’università La Sapienza di Roma sta lavorando sulle sue teorie, che propongono un mutamento di prospettiva nella comprensione del cancro. Biava ha anche messo a punto una terapia genica fisiologica basata su un farmaco a network (un pool di proteine naturali prelevate dell’embrione di un pesce tropicale, lo Zebrafish) che saprebbe riprogrammare la cellula malata e far regredire il tumore. Una terapia regolatrice, anziché terapie distruttive. Il farmaco è registrato come “nutraceutico” dall’Istituto superiore di Sanità. All’università di Bologna si sta verificando la sua utilità nel trattamento degli epatocarcinomi.
Biava parla suggestivamente della cellula tumorale come “psicotica”, incapace di comunicare con le altre cellule. E indica tra le cause del tumore, oltre alle sostanze cancerogene e agli stili di vita scorretti, fattori psicologici come l’incapacità di elaborare i traumi, di comunicare con gli altri, di continuare a differenziarsi e a crescere, in una visione integrata e complessa dello psichico e del biologico.
“La gran parte delle ricerche in medicina continua a non tenere conto di questa integrità” conclude Biava. “Ma le cose, piano piano, stanno cambiando. Non è un passaggio semplice. Si tratta di un cambio di paradigma. Di una vera e propria rivoluzione scientifica”. Portando dal medico i loro bisogni, anche i pazienti possono fare molto.

(pubblicato su “Io donna”- “Corriere della Sera)