Un indizio di come stiamo è quando riusciamo a prendere il metrò al volo. Credevamo di averlo perso e invece –miracolo-, piccola esitazione del conducente, ecco che ci scaraventiamo in carrozza con un balzo trionfante, rischiando lo stritolamento tra le porte. E atterrati lì, sciagurati sorridiamo, di un sorriso che non smette di aleggiare, come quello del gatto dello Cheshire, cercando ammirazione negli sguardi dei passeggeri. Abbiamo preso tre minuti, con quella corsa forsennata. Cinque, forse. Per farne cosa? Che prospettive apre, quel sontuoso tempo supplementare? Qualche istante guadagnato nella partita con la morte, o un inaspettato caffè prima del cartellino?
C’è anche chi balza in carrozza e si attacca alla sbarra senza cambiare faccia, uno stampo di sonno e disperazione. Ci vuole altro per strappargli un sorriso. Arrivare prima: e cosa cambia? e dove, poi? e perché? In genere a questi –ma anche a quelli, altra tipologia, che appena saliti saltano fuori pallidissimi la stazione dopo, una rantolante scorta di ossigeno per riuscire a fare un’altra fermata- un medico pietoso prima o poi prescriverà un farmaco SSRI, Selective Serotonin Reuptake Inhibitors, per trattenere in circolo quel poco di serotonina che consenta la sfida quotidiana della tratta Pasteur-San Babila.
Sull’efficacia di questa roba il dibattito è aperto: secondo alcuni, se il problema esistenziale che si è espresso biochimicamente nella carenza di serotonina alla fine della terapia è ancora lì, se non si è fatto nulla per sciogliere il nodo, i sintomi torneranno, quelli o altri. La questione della depressione è molto seria, visto che nel giro di qualche anno sarà la principale emergenza sanitaria in Occidente, e di come funziona il nostro cervello si sa ancora troppo poco. Ma un paio di convincimenti alla buona me li sono fatti: siamo corpi-anime, un tutt’uno, e separare ci fa sbagliare strada; la parola “sintomo” (gr. syn-, insieme, piptein, cadere) mi fa pensare a due cose che inaspettatamente si scontrano, a un conflitto che rivela qualcosa di noi: la malattia sta proprio nell’ostinazione con cui cerchiamo di non dare ascolto a questo nostro sé inaudito che vuole rivelarsi.
(pubblicato su “Io donna”-“Corriere della Sera”)

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