La prospettiva di portare al governo nazionale l’efficace centrosinistra milanese rischia di essere compromessa da microinteressi, antipatie impolitiche e pregiudizi su Milano. Ma questo treno non si deve perdere
Milano non è la borghesia alla prima della Scala. Milano è il lavoro sui migranti, migliaia di giovani felici di viverci, una città rinata grazie al buon governo di centrosinistra. Che dovrebbe estendersi a tutto il Paese
Milano: il giocattolo primarie è sul punto di rompersi. E la coalizione di centrosinistra garantita da Pisapia nei fatti non c’è più.
L’idea che gira è quella di una coalizione civica e di sinistra alternativa al Pd e che non partecipi alle primarie. Perché “non faremo la loro foglia di fico” si è detto per esempio ieri sera in un’assemblea cittadina di Prc. “Il Pd non è più un partito di sinistra. Né si capisce perché tra i valori a cui ubbidire per partecipare alle primarie dovrebbe esserci il riconoscimento del successo di Expo”.
In effetti le primarie del 2011, che portarono alla trionfale elezione di Giuliano Pisapia, sembrano appartenere a un’altra era geologica: umori risorgimentali, antiberlusconiani e anitimorattiani, grande voglia di voltare pagina, partecipazione, appassionanti candidature civiche.
Stavolta è tutt’altra storia. I candidati sono tutti politici di professione e tutti del Pd. Il candidato-a “foglia di fico” per ora non si trova. Al momento le primarie restano una faccenda interna alla politica politicante. Addetti ai lavori e militanti a parte, la città è distratta e per nulla appassionata. Ma su questo fronte, a sinistra come a destra, non sembra intenzionata a tornare indietro e spera in un sindaco-a supercivico-a, preferibilmente legato al mondo del lavoro e delle professioni -la vera politica, forse anche la vera religione di Milano- e che non si sia formato nelle stanze dei partiti. O quanto meno un politico eretico, in grado di sparigliare.
D’altro canto i potenziali supercivici di cui si sente dire non sembrano minimamente intenzionati a sottoporsi al giogo delle primarie, che non riconoscono come il proprio campo di gioco, preferendo un libero Fuori Primarie.
A queste primarie, insomma, non sembra credere più nessuno. Matteo Renzi per primo, consapevole del fatto che al tavolo di Milano si gioca una partita nazionale, che riguarda anche il suo destino politico. Ma l’unica mossa che gli è consentita a quel tavolo è calare il suo asso.
Il sindaco di Milano Giuliano Pisapia oggi sul Corriere: «Milano in questi anni è rinata, per tutti è il place to be. Non lo dico io, lo dicono i giornali di tutto il mondo e i milanesi lo vivono sulla propria pelle. In città c’è un clima straordinario, che è il risultato del lavoro collettivo dell’amministrazione che ha lavorato per una città aperta, solidale, efficiente, innovativa, sempre più internazionale e che coniuga pubblico e privato. Non è un caso che nella nostra città oggi vi siano il maggior numero di consolati di tutte le città del mondo. E tutto questo è dovuto ad un lavoro unitario e a un progetto condiviso della coalizione di centrosinistra, non legato a una sola persona. Non ho paura che Milano si perda. Due giorni fa abbiamo presentato lo scooter sharing e siamo adesso l’unica città al mondo che abbia un’offerta completa: bici, moto, auto. Essere avanti è il modello Milano. E i fatti sono più forti delle polemiche momentanee. Certo, sento fortemente su di me la responsabilità non solo di dare il massimo nei prossimi mesi nell’azione di governo, ma anche di evitare che scelte personali indeboliscano quanto abbiamo fatto e rendano più difficile il cammino verso le elezioni».
Pisapia ha ragione: in città c’è un clima straordinario e come dicevo nell’ultimo post, caldo assurdo a parte, passa anche la voglia di andare al mare. Non è pensabile che questo ciclo virtuoso si interrompa. Ciclo che, a mio parere, deriva dalla convergenza di vari fattori: 1. le energie e i desideri portati dai nuovi milanesi arrivati da lontano. Il titolo di un vecchio film, “Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi”, rende l’idea. Lì si trattava della prima ondata migratoria post-bellica, quella dal Sud, e dei mirabolanti anni Sessanta, il boom e tutto il resto. E’ la storia dello stesso Pisapia, suo padre era casertano. E’ la storia di un pezzo della mia famiglia, e quella di centinaia di migliaia di milanesi. Oggi si tratta di ragazzini di centinaia di etnie diverse che parlano un meraviglioso slang. Non c’è niente di più felicemente e orgogliosamente milanese di uno che arriva da lontano. E’ sempre stato così, nella storia di questa città. 2. la fine della lunga crisi identitaria seguita alla deindustrializzazione: oggi sappiamo meglio chi siamo e che cosa vogliamo, abbiamo ritrovato la strada, e tutto batte a un ritmo festoso e frenetico, per lasciare ogni crisi alle spalle 3. una giunta che ha saputo interpretare -con tutti i suoi limiti, le sue fatiche e i suoi errori- questi processi. Tra i limiti, io ho sempre indicato un ritardo nel cambiamento di sguardo sul tema delle cosiddette “periferie”, che in alcuni casi hanno sperimentato un vero e proprio abbandono. E’ stato l’errore più serio e più grave, e i prossimi 5 anni devono servire a rimediare. Non ci devono più essere “periferie” (lo dico da anni). Il programma deve essere: Milano diventerà più bella, “solidale, efficiente, innovativa” dappertutto.
Diversamente da Giuliano Pisapia, io invece ho paura che Milano si possa perdere. La partita è difficile e delicata. Le dimissioni improvvise della vicesindaca De Cesaris almeno un merito ce l’hanno: quello di aver dato la scossa e di aver indicato i pericoli che derivano dai personalismi e dalle divisioni. Tutti, ma proprio tutti, dobbiamo mettercela tutta, gettando ponti e costruendo un progetto unitario in cui possa confluire la ricchezza delle differenze. Da subito, e senza interferenze romane. Per fare capitare alla politica quello che sta capitando alla città, e remando tutti nella stessa direzione.
Sfida meravigliosa.
Poiché, come saprete, tendo per biochimica al mezzo-pieno, in questo gran disordine sotto il cielo vedo molte opportunità a portata di mano. E vedo soprattutto un Parlamento stra-ringiovanito -se non sbaglio, il Parlamento più giovane d’Europa: noi! vi rendete conto? da sempre oppressi dalla gerontocrazia! noi, come dopo le primavere arabe, e senza violenze!– e femminilizzato: dal 20 al 30 per cento, decisamente più in linea con le medie europee.
Ma la cosa pazzesca, e anche un po’ comica, è la seguente: centrosinistra e 5 Stelle (ovvero il presumibile governo di minoranza + eventuale sostegno esterno: c’è una fortissima spinta della base in questo senso) portano in Senato 66 donne su 177 eletti contro le 17 su 130 del centrodestra + Monti. E alla Camera 148 donne su 448 deputati contro 16 su 169 del centrodestra + Monti (tutte le analisi qui).
In buona sostanza, quasi tutte le donne stanno a sinistra (+ Grillo) contro un centrodestra supermacho! Il che femminilizza potentemente l’eventuale dialogo tra centrosinistra e 5 Stelle. Meglio ancora, diciamolo così: le donne hanno la grande possibilità di tenere il mazzo della nostra politica (come lo tengono nella vita reale) imponendo temi, priorità, agende.
Se sapranno lavorare insieme, stringendo un patto che moltiplichi la loro forza contrattuale nei rispettivi partiti, potranno rivoluzionare la politica, e cambiare il Paese (se poi sapranno coinvolgere sui loro temi i giovani maschi, capaci di riconoscere l’autorità femminile, sarà l’en plein!).
Non perdano questa grande occasione!
Chi domenica voterà alle primarie del csx (ci si può preregistrare qui) lo sa:
c’è una forte pressione per il cosìddetto “voto utile”, concentrato sui duellanti Bersani e Renzi. Anche chi si riconosce maggiormente negli altri competitor, Puppato, Tabacci e Vendola, viene invitato a “non disperdere il voto” e a schierarsi di qua o di là.
Spiego perché questo supposto “buon senso” non mi convince affatto:
1. CENTRO E PERIFERIA Questo iper-realismo diminuisce la ricchezza del voto e ostacola il cambiamento, che arriva sempre dalla “periferia”.
2. VOTO “CONTRO” Una quota considerevole di consensi per l’uno o l’altro dei principali competitor è un voto “contro”: voto Renzi non perché mi convinca, ma per fare fuori Bersani; voto Bersani non perché lo considero il più adatto alla premiership, ma perché devo arginare Renzi. I conti interni al partito rischiano di prevalere, ma il senso vero delle primarie è la scelta del possibile premier. Votare contro, o secondo queste logiche, fa scivolare in secondo piano il bene del Paese, che dovrebbe invece rimanere la stella polare.
3. THE WINNER IS… Il vero vincitore del dibattitone su Sky -parere unanime- è stato il confortevole senso di squadra, l’idea di un team che tiene insieme le differenze in vista di un progetto unitario. Chi ha seguito in tv -io ero in studio- è andato a letto contento per avere visto non risse ma un costruttivo confronto di idee. Corrispettivamente, la vera vincitrice delle primarie deve essere la squadra. Ma quanto più il voto sarà polarizzato, tanto meno squadra avremo e tanto più “uomo solo al comando”, soluzione da sfuggire come la peste. L’offerta di “uomini soli” e di poche idee al comando dovrebbe bastarci e avanzare.
Il modo in cui ognuno di noi può contribuire al bene comune è portare autenticamente se stess*.Solo così il voto non è inutile.
Non è questo il tempo dei nasi turati.
p.s. Aggiungo un’altra considerazione, credo abbastanza “utile”. Parlando di governabilità, e osservando un Movimento 5 Stelle che tallona il Pd, potrebbe essere necessaria una o qualche figura del csx in grado di dialogare, almeno programmaticamente, con gli eletti di Grillo. Molto difficile che questa figura sia Bersani. Figuriamoci Renzi. Qualche possibilità, forse, per Vendola. Molte di più per Puppato.
I partiti sono luoghi ad alto tasso di vendetta. Nel senso che la resa dei conti interna è una delle logiche prevalenti. Non so se ciò faccia bene ai partiti, tenderei però a escludere che in questo modo si tenga come una priorità il bene del Paese
Quello che sta accadendo in queste primarie del centrosinistra offre un ottimo esempio.
Le elezioni primarie dovrebbero servire a scegliere responsabilmente all’interno del proprio schieramento una persona dotata delle caratteristiche -onestà, competenza, esperienza, saggezza, credibilità, lungimiranza, coraggio, visione e così via- che la rendono la più adatta a proporsi a guidare il Paese, e a guidarlo in una fase piuttosto complicata. Non sono un congresso, non servono a scegliere il segretario del partito, e non sono un reality con le nomination.
Eppure è chiaro che tra tutti quelli che nel Partito Democratico si stanno adoperando per una vittoria del sindaco Matteo Renzi, solo una parte lo sta facendo perché crede che Renzi sarebbe un buon premier. Per una parte cospicua dei fan di Renzi l’obiettivo vero non è indicare un premier credibile, ma fare fuori Bersani. E non perché si sia convinti che Bersani non sarebbe in grado di fare il premier, ma perché è venuto il momento di una resa dei conti con il “vecchio” partito.
Un ragionamento bizzarro che sento fare spesso, tra le file di iscritti, militanti e simpatizzanti è il seguente: a me Renzi non piace, non mi sento rappresentato dai suoi valori, è un narciso, è apprezzato dalla destra, non dispiace ai poteri forti, sui diritti è ambiguo, sui temi delle donne pure, il suo show è imbarazzante, il suo spin doctor Giorgio Gori pure, sembra un Berluschino, la sua ambizione è fuori misura, è stato alla Ruota della Fortuna, il suo linguaggio violento, quando dice “signori” pare un banditore d’asta, non rappresenta il meglio della cultura democratica (compilation di pareri) e però lo voto lo stesso per fare fuori Bersani.
L’attuale classe dirigente di quel partito ha molte colpe, ha tardato a capire, non si è adeguatamente rinnovata, il ricambio è stato timidissimo, è protagonista di parecchio malgoverno -penso per esempio alla Liguria, che conosco bene-, non ha fatto la legge sul conflitto d’interessi, etc. etc., tutte cose su cui è difficile non convenire. Ma per fare fuori Bersani e tutti gli altri c’è un congresso, in programma se non erro per il 2013.
Il Paese non c’entra con le beghe interne al Pd, ed è ingiusto che gliele si voglia fare pagare. Al Paese non interessa che si faccia fuori Bersani -non più di quanto sia interessato a vedere fatto fuori pure Renzi, che fa politica anche lui fin da quando era un ragazzino-. Al Paese interessa che da tutta questa infilata di primarie e secondarie in ogni schieramento esca un premier con una squadra di governo davvero capace di condurlo a una rinascita materiale e morale, secondo principi di equità e giustizia.
La stella polare deve essere questa. Non è un derby. Qui non sta giocando nessuno.
Dunque, dopo aver stabilito delle regole per la partecipazione alle primarie, la coalizione di centrosinistra ne stabilisce in corsa delle altre, allo scopo evidente di liberarsi del fastidio dei candidati meno forti, e di giocarsi la partita a tre (maschi: serve specificarlo?).
L’assemblea del Pd aveva votato che le firme per i candidati Pd potevano essere raccolte solo tra i delegati o gli iscritti Pd. Ora si è invece deciso che si devono raccogliere 20mila firme di semplici elettori che si dichiarino di centrosinistra, da consegnarsi entro il 25 ottobre. Morale della favola: dopo aver lottato con le unghie e con i denti per ottenere entro domani 95 firme di delegati, ora si ricomincia da zero, per raccogliere 20 mila firme di elettori. Qualcuno dei candidati, a quanto pare, ha già cominciato da tempo a lavorarci. Ma c’è di più. Di queste 20 mila firme, non più di 2000 possono provenire da una stessa regione. L’impresa, quindi, è supertitanica.
Si faceva prima a metterla così: si possono candidare solo i segretari di partito, con l’eccezione di quel gran rompic…ni di Renzi.
C’è però un fatto: nello statuto fondativo del Partito Democratico ci si fa carico della questione del maschilismo della politica, dichiarando esplicitamente l’intento di porvi rimedio. Riporto qui tre passaggi:
“Il Pd riconosce pari dignità a tutte le condizioni personali, quali il genere, l’età, le convinzioni religiose, le disabilità, l’orientamento sessuale, l’origine etnica…
… Ai fini dell’elezione, le candidature a Segretario nazionale vengono presentate in collegamento con liste di candidati a componente dell’Assemblea nazionale. Nella composizione di tali liste devono essere rispettate la pari rappresentanza e l’alternanza di genere…
… Per la selezione democratica dei candidati per le assemblee elettive, si attiene ai seguenti principi: a) l’uguaglianza di tutti gli iscritti e di tutti gli elettori; b) la democrazia paritaria tra donne e uomini; c) il pluralismo politico nelle modalità riconosciute”.
Questa stessa sollecitudine non vale evidentemente per le primarie. Gli ostacoli che si frappongono a una libera candidatura femminile non vengono considerati come un problema della nostra democrazia, semmai come problemi di quella pazza che osa candidarsi. E anziché intraprendere eventuali azioni positive, se ne intraprendono addirittura di negative, frapponendo ostacoli aggiuntivi.
Quindi anche stavolta potrebbe andare come al solito: potrebbe cioè accadere che i candidati alle primarie del centrosinistra siano tutti e solo uomini. La logica sottesa, ma neanche tanto, è che per governare il Paese si deve essere dotati di apparato genitale maschile. Le donne governano interamente la vita quotidiana, ma quando si tratta della politica devono levarsi di torno.
Non so che cosa deciderà Laura Puppato: se dopo essersi ritrovata scaraventata al punto zero deciderà di affrontare nuovamente la salita, o scenderà dalla bicicletta, o pedalerà da qualche altra parte. So solo, da elettrice di quello schieramento, che non potrei più credere nel fatto che il centrosinistra adotti e rappresenti uno sguardo femminile, mostrandosi orbo fin dalle primarie. E non potendoci credere, e non avendo alcuna garanzia, mi guarderei bene dal votarlo, e inviterei il maggior numero possibile di mie simili, umiliate per l’ennesima volta dal machismo politico -ma anche il maggior numero di uomini di buona volontà, che del “doppio sguardo” sentono la necessità- a fare altrettanto.
Se le primarie -e pure le secondarie- sono un fatto “tra uomini”, in stile saudita, che facciano pure tutto quanto tra loro.
Accertato che vi saranno primarie per l’individuazione del candidato premier del centrosinistra, e in attesa di una migliore definizione delle intenzioni del centrodestra, forse è venuto il momento che Se non ora quando ripensi al 13 febbraio, la più grande manifestazione di popolo dal dopoguerra, convocata e guidata dalle donne, e festeggi il quasi-secondo anniversario con l’indicazione di candidate alle primarie.
E’ questo che il popolo del 13 febbraio, donne e uomini, si aspetta: che si tirino somme politiche, che si colga ogni occasione per portare la differenza femminile e il doppio sguardo al governo del Paese. Sarebbe strano il contrario: che Se non ora quando si sottraesse a questa sfida, eventualmente trasversale e bipartisan: per portare il maggior numero di donne possibile nel maggior numero di schieramenti possibili. Se è vero che la maggioranza di questo movimento fa riferimento al centrosinistra, vi sono anche molte donne -e uomini- di centro e centrodestra che condividono l’obiettivo del 50/50.
E’ bastato che Pierluigi Bersani -gli va dato atto di grande coraggio e di una ferma volontà politica- dichiarasse prossime primarie aperte perché una serie di semi-Carneadi (tutti maschi) manifestassero la loro intenzione di parteciparvi. Non è pensabile che la partita si giochi tra soli uomini. Ma non è nemmeno pensabile che quelle poche donne -eventualmente quell’unica donna- siano solo espressione dei partiti.
Le amiche che hanno organizzato il 13 febbraio, giornata che la Storia indicherà come data di nascita della Terza Repubblica, si sono assunte una grandissima responsabilità politica, che va condotta con determinazione fino in fondo.
Le primarie sono un passaggio imprescindibile, e il momento per parlarne è adesso.
p.s. Io un paio di nomi li ho in mente
Una bella sciarpa arancione al collo di Marco Doria, vincitore delle primarie del centrosinistra a Genova. Ce l’aveva anche Don Gallo, decisivo in questa vittoria, e Nichi Vendola -molto meno decisivo-.
L’arancione l’abbiamo visto nascere quasi spontaneamente a Milano, e credo che sia venuto il momento di capire cos’è.
Qualche dirigente nazionale Pd, scornato dalla sconfitta genovese, ha parlato frettolosamente di “vittoria dell’antipolitica”. Errore. Il desiderio arancione è desiderio di politica, e di politica partecipata. La sconfitta semmai è dei partiti, e in particolare del Pd, visto come ostacolo a questa partecipazione.
Quanto poi al Pd ligure, forse è il peggior Pd che si possa immaginare. Irriducibile partito del cemento, in una regione che di cemento sta morendo.
Perseverando in queste letture sbagliate e autoconsolatorie il Pd rischia di grosso. E’ vero che nei sondaggi si piazza bene, ma è anche vero che in caso di primarie nazionali, l’effetto Milano e Genova potrebbe riprodursi. E non indire primarie nazionali sarebbe un autogoal. Insomma, Scilla e Cariddi.
Per evitare i quali, c’è solo una strada: rinnovamento radicale. Ovvero fare capitare nel partito ciò che, non capitando dentro, capita fuori dal partito: ed ecco Pisapia, Doria, eccetera.
Rinnovamento radicale significa che Bersani, D’Alema, Veltroni e compagnia cantante devono mollare. Al posto delle loro facce se ne devono vedere altre. Resistere a questo rinnovamento, rimandare il turnover significa rischiare il patrimonio rappresentato dal Partito Democratico e dalla sua storia. Serve un gesto di generosità e di responsabilità: portare la rivoluzione arancione dentro il partito.
Anche perché al momento il movimento arancione è fatto più di generali che di truppe. Singoli uomini con i loro staff, che verosimilmente si stanno preparando e coordinando per il salto nazionale. Il cosiddetto movimento arancione non è organizzato, non ha rappresentanti eletti eccetera. Singoli uomini con i loro uomini cooptati. E io continuo a sentirmi più garantita dai partiti che dai singoli uomini -pur stimabilissimi uomini-. Le possibile derive dei singoli uomini le conosciamo. Convincetemi del contrario.
Questo è quello che vedo.
Quanto poi al fatto che a Genova hanno perso le donne: le donne perdono sempre nella politica degli uomini se non stringono un patto tra loro. Parlo di un patto dell’origine, di un patto di genere come quello stretto tra uomini. Che si fanno la guerra, ma questo patto, su cui si fonda anche la loro politica, l’hanno alle spalle. Se tu vai a fare la politica degli uomini da sola, e per di più contro un’altra, e avendo come unica fedeltà quella al partito -le donne, da neofite della politica degli uomini, sono superzelanti- ti fai molto male.
Che non si usi l’argomento Genova per ostacolare l’ingresso delle donne nella politica!