Dopo Covid-19 l’accelerazione riformista non basta. Donne di tutto il mondo sono al lavoro per un cambio di paradigma. Questo il nostro contributo alla discussione: i corpi al centro, con il loro spazio-tempo inviolabile, e un’altra idea di lavoro. Appunti per un Manifesto sulla Città, luogo della trasformazione e della politica
Cerco di immaginarmi come saremo, all’uscita dal tunnel.
Ma ci sarà un’uscita? e si tratta esattamente di un tunnel? Temo che questa figura non ci aiuti affatto. Si tratta semplicemente di tenere duro e di stare un po’ in apnea, finché non saremo fuori di qui? O di abituarsi a vivere in questa semioscurità, con poco di tutto, in equilibrio su un surf, inventandosi la vita ogni giorno?
Avremo meno futuro e più presente? Che cosa si deve insegnare ai figli? Non stanno già vivendo esattamente in questo modo, attaccati al presente come a una zattera sempre più stretta, finché dura dura, senza nemmeno guardare se per caso si vede terra all’orizzonte?
E’ possibile essere non-infelici, in una situazione come questa? Oppure, al contrario, qui c’è un’occasione di minore infelicità?
Quanti di noi pensano che presto o tardi tutto tornerà esattamente come prima?
Ora vedremo il voto di maggio, certo.
Ma tu passeggi in una serata sciroccosa in via Tortona, in mezzo a una folla festosa di ragazzi -com’è mite, questa generazione, che applaude senza fare rumore, che balla con le cuffie in testa per non disturbare- e senti un capannello qualunque che parla di “mettere su una lista civica”, con la stessa naturalezza con cui parlerebbero di calcio. Se poi hai passato il pomeriggio a capire che aria tira in un’assise di partito (conferenza programmatica del Pd), ti rendi conto che lo spettro di questa sweet revolution, “tutti a casa”, home sweet home, più volte evocato, non è intuito nel suo potenziale.
Tu vai a darti una spuntata ai capelli dal tuo vecchio coiffeur siciliano di Bronte, che mentre lavora di forbice ti dice che in tre mesi, pulito di tutto, sul suo conto ha messo via 168 euro, mai successo in tanti anni, e poi ti dice “tranquilla, non mi suicido, Prima voglio vederli andare via tutti”, e intanto radio Dj o non so quale radio commerciale in sottofondo alterna la top ten alla lettura delle liquidazioni dei supermanager di stato.
Voglio dire, è una cosa di popolo, e con le cose del popolo non si scherza. E’ questione di sopravvivenza: li vedi cadere come mosche, parenti, amici, conoscenti che da un giorno all’altro perdono il lavoro e restano a casa, e ti dicono: “Se sentissi qualcosa, qualunque cosa…”, e tu ti vorresti ammazzare.
Qui al Nord una “rivoluzione gentile” l’abbiamo già vista, la Moratti-potenza spazzata via dalla stramobilitazione di una città che -gentilmente, nemmeno una rissa- si è rivoltata. Sappiamo che si può fare, basta organizzarsi. Io quell’odore l’ho già sentito, e lo riconosco, e lo risento. E so che quello capita qui poi capita dappertutto. Qui al Nord la botta della Lega Ladrona l’abbiamo presa tutti, leghisti e non leghisti. E il vecchio Bossi, caduto come un tirannello qualunque, lo sa, non ha bisogno di guardare i sondaggi né di crederci, gli basta annusare nell’aria e sentire lo stesso odore che sento io.
Ora vedremo il voto di maggio: anche se è presto per il raccolto vero, e in un anno possono ancora capitare molte cose.
Io fossi un partito non farei finta di non vedere, non farei finta di non capire. Fossi un partito, quest’aria di rivolta non farei finta di non sentirla, attiverei tutte le antenne, assumerei tutte le decisioni che vanno assunte, anche se dolorosissime: rinnovamento radicale, facce nuove, giovani e donne, reintroduzione delle preferenze, lotta senza quartiere alla vergogna dei costi della politica e ai privilegi, sobrietà francescana, giustizia sociale -il colpo da maestro del mite Hollande, che con ogni probabilità disarcionerà Sarkozy, è stata l’idea di tassare del 75 per cento le rendite eccedenti il milione di euro-.
Sanno benissimo quello che dovrebbero fare, se volessero davvero farlo. Difficile che lo facciano. Non puoi andare a sederti come se niente fosse nella tua poltroncina alla Camera e al Senato sapendo che l’ambasciatore italiano a Berlino prende 20 mila euro al mese quando Angela Merkel ne guadagna 9000. Che in Italia, 60 milioni di abitanti, contiamo 945 tra deputati e senatori, contro i 535 degli Stati Uniti per 300 milioni di americani. Che se chiedi un mutuo non te lo danno, o se te lo danno il tasso è il 4 per cento più alto di quello agevolato concesso a un deputato; che nel 2011 si sono spesi circa 19.500 euro al giorno solo per le pulizie alla Camera, e 300 mila euro per tre riunioni sui giochi olimpici 2020. Che il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento Malaschini tra pensione e compenso porta a casa quasi 60 mila euro al mese… Eh no, non puoi mica pretendere di aver avallato tutto questo, una mano lava l’altra, e di essere pure rieletto.
Il valzer a Milano io l’ho già ballato. Ed eccoci pronti al prossimo giro.
L’altra sera vengo intervistata da una radio romana, e il conduttore fa riferimento alla rivoluzione maghrebina, a quello che succede nel Nordeuropa… “Guardate Milano!“, gli dico. Non riusciamo mai a vedere quello che abbiamo sotto il naso.
Qui si sta facendo la politica nuova. Qui, con enorme fatica, nella penuria ma anche con fiducia, stiamo davvero spingendo tutti insieme. La città resta stra-mobilitata, le occasioni di “partecipazione” -parola che non mi è mai piaciuta molto- si moltiplicano. Ieri sera, a una riunione dell’Agorà del lavoro c’era anche la giovane assessora Cristina Tajani, che aveva offerto la sede per l’iniziativa: “Non siamo noi che diamo a voi” ha precisato. “Sono le istituzioni che chiedono a voi spunti e suggestioni per nuove pratiche politiche”.
E’ questo il segno più grande di cambiamento. Questo sporgersi di chi sta dentro verso “fuori”, verso la città, ad ascoltare, a chiedere, a riconoscerne il primato. Questo mostrarsi bisognosi: gli assessori, il sindaco, e perfino il nuovo arcivescovo Scola (“Sosteniamoci, vi scongiuro“: così ha concluso l’omelia del suo solenne insediamento) che chiedono aiuto, che si mettono in posizione di secondi, di amministratori di una politica prima a cui finalmente si dà il nome di politica, e che fino a pochi mesi fa veniva liquidata come “volontariato” e tenuta ai margini. Quella è invece la politica di cui oggi i rappresentanti eletti si pongono al servizio. E’ un cambio di sguardo radicale. E’ il doppio sguardo, anche qui.
Tra i cittadini il desiderio di fare è talmente grande da non trovare canali sufficienti, e bisognerà inventarseli. Guardate Milano! E’ un laboratorio politico in atto, merita tutta l’attenzione. Perché quello che si sta facendo qui presto si farà nel Paese.