La filosofa Luisa Muraro collabora con Metro, free press che vediamo nelle mani di tutti sul metrò o in tram. E fa bene, perché così raggiunge con pensieri complessi e in una lingua piana un pubblico che diversamente non vi avrebbe accesso. Nel suo corsivo del 28 marzo scrive:
“Non m’interessa che si faccia una politica in favore delle donne. Quello che invece m’interessa, è che le donne che entrano in politica, sappiano farsi valere con tutta la loro esperienza e competenza. Perché lo dico? Perché troppe di loro, man mano che fanno carriera, rinunciano invece al nome di donna e si presentano come dei neutri. Mi riferisco a quelle che, parlando ai giornalisti, dicono: chiamatemi ministro, sindaco, segretario, professore… La trovo una cosa scandalosa e incomprensibile, tanto più che negli altri paesi europei non lo fanno. Angela Merkel era deputata ed è diventata cancelliera della Germania. Ma guardiamo anche da noi: la donna che lavora in fabbrica si chiama operaia; quella che lavora in campagna, contadina; quella che vende, commessa. È giusto, lo vuole la lingua che parliamo, lo insegnano i vocabolari. Nei vecchi vocabolari non troviamo il femminile di sindaco, di ministro, di deputato, ma solo perché erano vocabolari di una civiltà patriarcale che escludeva le donne dalla vita pubblica. Questo non succede più. Da qui viene per me lo scandalo: se quelle che entrano nei posti di comando vogliono chiamarsi al maschile, che messaggio danno? Che il femminile è buono per sgobbare ma non per dirigere? Buono per la scuola elementare ma non per l’università?
Che una donna ammiri un uomo, ammesso che abbia qualche merito, non ci sono obiezioni, l’ammirazione è un sentimento libero. Ma che lo prenda come una misura per sé, in generale, questa o è soggezione o trasformismo. E ha degli effetti deteriori, perché in un posto di responsabilità, grande o piccola, bisogna portare non solo le conoscenze ma anche le esperienze, non solo un titolo di studio ma anche il proprio essere”.
Aggiungo io: siamo precisamente a questo punto. Fioriscono un po’ ovunque esperienze 50/50: Milano, Bologna, Cagliari, Torino, e ora si prepara anche Genova. Ma la cosa più difficile è questa: una volta che si è lì, una volta che le pari opportunità sono state ottenute, si tratta di portare lì tutta la propria differenza, tutto “il proprio essere”, altrimenti che lì ci siano anche donne e non solo uomini servirà a ben poco.
E come si fa? Questo è il difficile.