Che faccia, quella faccia. Di questo uomo quasi-vecchio con i capelli cotonati e il rossetto (“... per farlo durare sotto ci devi mettere la cipria“). Quella faccia unica, inconfondibile, sbiancata dalla biacca -genere Robert Smith dei Cure-, incisa dalla vita, ci si stamperà nel cervello, entrerà a fare parte del nostro bagaglio, del nostro immaginario, della nostra memoria condivisa. Un segno, un’icona, una possibilità umana. Il ritratto di una generazione condannata al post-sballo e al forever young. Una faccia ibrida tra quella di un bambino e di una vecchia signora con la tinta e gli occhiali da presbite sulla punta del naso. La voce stridula, strascicata e mite dello sconfitto radicale: e non lo siamo un po’ tutti, da un certo punto della vita in poi?

Cheyenne è una vecchia rockstar genere goth che vive in un maniero irlandese, nell’agio più assoluto e ormai lontano da tutto. Dalla musica, dal successo, dalla folla, dagli abusi alcolici e anche da se stesso, tenuto in piedi da una moglie che gli sta accanto da 35 anni come un affettuoso esoscheletro (la fantastica Frances McDormand di Fargo, con tutte le sue rughe di cinquantenne).

La prima parte di This Must Be the Place, ultimo film di Paolo Sorrentino, si svolge in una Dublino strepitosamente fotografata da Luca Bigazzi, il nostro più importante direttore della fotografia: mattoni rossi, cieli grigi, centri commerciali, solitudine, una malinconia rarefatta e disincarnata, Cheyenne che fa la spesa trascinando se stesso e un carrello malconcio, partite di pelota e corsi di tai chi nella piscina vuota come sono vuote le giornate.

Nella seconda parte siamo nel più classico on the road, partenza da New York traversando praterie fino al New Mexico, a caccia dell’aguzzino nazista che aveva perseguitato suo padre, ebreo detenuto in un campo di concentramento. Viaggio alla ricerca delle proprie radici passando attraverso la vita del padre, perduto da trent’anni e ritrovato solo sul letto di morte. Sembra troppo tardi per tutto, e invece c’è ancora tempo per qualcosa, forse per molto.

Musiche di David Byrne, già Talking Heads (chioma candida, interpreta se stesso), Sean Penn da Oscar, all’apice della sua grandezza, This Must Be the Place è un film difficile, perturbante e già indimenticabile. Con momenti di umorismo folgorante. A Cannes non ha avuto l’accoglienza sperata. Ma per Hollywood ha molte chances. Potete vederlo al cinema -peccato che con il doppiaggio un po’ del fascino vada perduto- dal 14 ottobre.

Ve lo raccomando con tutto il cuore e l’amicizia. 

P.s. Mi viene in mente, ripensandoci, che in fondo ci sono parecchie analogie tra questa storia e una delle più belle storie mai scritte, quella di Pinocchio. Lui e il padre -della madre non c’è traccia-, una Fata Turchina -la moglie- e soprattutto quel finale… Vedetelo, poi ne parliamo.

 

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