Silvia Guerini del gruppo Resistenze al Nanomondo commenta il recente convegno “Scienza ed etica del controllo riproduttivo: come sarà la riproduzione umana nel 2050?”. Una proposta di discussione
Teniamoci il “Fertility Day”. Ma facciamolo diverso
Il Fertility Day lo terrei in piedi, anche se il nome è orribile. Risignificandolo totalmente e offrendo strumenti efficaci, alle donne prima di tutto – sono loro a decidere se mettere al mondo un figlio- perché possano liberamente decidere quando, tenendo conto di limiti naturali inaggirabili
Professor Veronesi: davvero lei pensa che affittare l’utero possa essere una buona occasione per una donna?
In un passaggio del suo ultimo libro autobiografico, “Confessioni di un anticonformista”, scritto a due mani con Annalisa Chirico per Marsilio, il professor Umberto Veronesi parla di utero in affitto:
In questo blog trovate molti dibattutissimi post che considerano la questione in tutta la sua complessità.
Qui mi fermo a questo: possibile che a un uomo che ha dedicato alle donne la gran parte della sua importante vita professionale, che le conosce così bene, che ha visto da vicino la loro sofferenza -ricordo, per esempio, quando in una nostra conversazione stigmatizzò duramente la vigliaccheria dei mariti che fuggivano di fronte a una diagnosi di cancro per la compagna-, sia scappata una dichiarazione del genere?
Una donna povera che offre il proprio utero a pagamento “su base consensuale” è con ogni evidenza un ossimoro.
Come si può parlare di consenso in presenza di una disparità tanto grande tra i contraenti -una donna povera e una donna, un uomo o una coppia ricchi-? Di che genere di libertà si tratterebbe? Prevengo l’obiezione: qualunque contratto di lavoro si basa su questa disparità. Ma si può in questo caso, come nel caso della prostituzione, parlare di ordinario “lavoro”? (qui, anzi, si va molto oltre la prostituzione, perché c’è un “terzo”, il bambino oggetto di mercato, che come più volte abbiamo detto dovrebbe essere tenuto come primo).
Quanto poi alla “montagna di soldi” generata dal business della “gestazione per altri” (come nel lessico “corretto” che dietro l’eufemismo nasconde la sostanza della faccenda), si dovrebbe sapere che in molti casi alla donna ne arriva una minima parte, quando non niente del tutto. Nei paesi terzi le donne vengono messe sul mercato dai mariti, dai fratelli o da altri papponi, come si farebbe con una bestia fattrice. Un sacco di soldi li prendono le cliniche e i legali. C’è poi l’indotto turistico: viaggi organizzati, alberghi, ristoranti.
Ammesso che alla donna resti in tasca qualche soldo, Veronesi immagina che possano essere destinati ad “aiutare i figli a pagarsi gli studi”, in una logica di abnegazione assoluta.
Davvero il professore pensa questo? O le sue parole sono state male interpretate? O si è lasciato anche lui, l’anticonformista, sedurre dal conformismo del mainstream, volendo dimostrarsi “moderno”?
Come può essere che un uomo capace di considerare perfino la sofferenza animale, al punto di scegliere il vegetarianesimo, non veda il dolore che si può generare facendo mercato di una relazione tanto intima, matrice dell’umano?
Aggiornamento domenica 29 novembre: qui un’interessante puntata di Terra! dedicata in gran parte alla questione. Parlo anch’io, a partire dal minuto 46
Una nuova sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40 sulla fecondazione assistita, smontata pezzo a pezzo: in quest’ultimo caso si è stabilito che una coppia portatrice di gravi malattie genetiche può chiedere di preselezionare gli embrioni sani destinati a essere impiantati.
La legge 40 lo vietava: secondo i giudici della Consulta in violazione degli articoli 3 (uguaglianza) e 32 della Costituzione (diritto alla salute), oltre che del diritto al rispetto della vita privata e familiare. Le linee guida del Ministero per la Salute dovranno adeguarsi perché ogni ospedale pubblico o privato garantisca la diagnosi pre-impianto anche alle coppie fertili portatrici di patologie genetiche.
La legge 194 sull’aborto consente già l’interruzione terapeutica di gravidanza “quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. Secondo la legge 194, quindi, l’aborto terapeutico può essere richiesto non per eliminare un feto malato –quindi non per ragioni eugenetiche- ma perché la prosecuzione della gravidanza pregiudicherebbe la salute della madre. La logica della nuova sentenza sulla legge 40 è la stessa: il principio tutelato è il diritto alla salute (dei genitori). E a parità di principio, in una logica di riduzione del danno non impiantare un embrione “malato” e senz’altro preferibile a un aborto terapeutico.
Resta aperto il problema della sorte degli embrioni “malati”, o più precisamente portatori di una patologia genetica. Secondo la sentenza della Consulta, infatti, “la malformazione dell’embrione non ne giustifica, solo per questo, un trattamento deteriore rispetto a quello degli embrioni sani”. Quindi al momento gli embrioni “malati” non potranno essere distrutti ma dovranno essere crioconservati, in attesa che la legge stabilisca quale dovrà essere il loro destino.
Si tratta, come alcuni sostengono, di un passo in direzione dell’eugenetica?
La risposta non può essere un secco “no”. Applicare le tecnologie riproduttive per far nascere figli sani realizza un’umanissima e comprensibilissima aspettativa della singola coppia (la santità non è prescrivibile per legge) attraverso l’eliminazione degli embrioni portatori di caratteri disgenici. Si tratta quindi di un caso di cosiddetta eugenetica negativa. Cosa ben diversa, però, dall’eugenismo, ovvero da politiche eugenetiche pubbliche
Decisiva sarà la dettagliata elencazione delle patologie genetiche per le quali è consentita la preselezione degli embrioni. Tenendo tuttavia conto di un fatto: nessuna coppia fertile (in particolare, nessuna donna) si sottoporrebbe a dolorose procedure di fecondazione assistita se la patologia di cui è portatrice non fosse davvero grave.
Agacinski, Muraro e altre: il femminismo contro l’utero in affitto, nuova prostituzione
Per l’Abolizione universale dell’utero in affitto: il Parlamento francese dedicherà la giornata del prossimo 2 febbraio a un convegno contro la maternità surrogata promosso da Sylviane Agacinski, voce storica del femminismo francese, fondatrice del Collegio internazionale di filosofia con Jacques Derrida, docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, impegnata da anni nella lotta contro la maternità surrogata con la sua associazione Corp (Collettivo per il rispetto della persona) e autrice del saggio “Corps en miettes” («Corpi sbriciolati», Flammarion).
Con il coraggio del libero pensiero, Agacinski non si fatta fermare dalla paura di essere giudicata omofobica e antiprogressista, impegnandosi una battaglia contro l’orribile sfruttamento delle donne povere del mondo e il mercato della maternità. Una buona notizia per me e per quelle poche che nel femminismo italiano si sono impegnate su questo fronte.
In una lunga intervista ad Avvenire, Sylviane smonta l’ideologia del “diritto a un figlio” e chiede all’Europa di continuare a vietare questa pratica.
“Non abbiamo a che fare con gesti individuali motivati dall’altruismo, ma con un mercato procreativo globalizzato nel quale i ventri sono affittati. È stupefacente, e contrario ai diritti della persona e al rispetto del suo corpo, il fatto che si osi trattare una donna come un mezzo di produzione di bambini. Per di più, l’uso delle donne come madri surrogate poggia su relazioni economiche sempre diseguali: i clienti, che appartengono alle classi sociali più agiate e ai Paesi più ricchi, comprano i servizi delle popolazioni più povere su un mercato neo-colonialista. Inoltre, ordinare un bambino e saldarne il prezzo alla nascita significa trattarlo come un prodotto fabbricato e non come una persona umana. Ma si tratta giuridicamente di una persona e non di una cosa (…) Fare della maternità un servizio remunerato è una maniera di comprare il corpo di donne disoccupate che presenta molte analogie con la prostituzione (…)
La Francia e la maggioranza dei Paesi europei si confrontano con lo sviluppo del turismo procreativo e la domanda d’iscrizione allo stato civile dei bambini nati da madri surrogate in California, in Russia, eccetera. La Corte europea dei diritti dell’uomo tenta di forzare la Francia a trascrivere lo stato civile accertato all’estero in nome di un presunto interesse del bambino. Ma se gli Stati europei cedessero su questo punto incoraggerebbero cinicamente i propri cittadini a viaggiare per far uso di donne all’estero. Legittimerebbero la pratica, e in tal modo la loro legislazione nazionale non resisterebbe a lungo. Sì, occorre punire. Innanzitutto i professionisti che creano il mercato: avvocati, medici, agenti e intermediari. Poi, i clienti (…)
Certe femministe, di fatto molto minoritarie, difendono una presunta libertà delle donne di vendersi. In realtà, ciò equivale a sostenere la libertà di comprare le donne. Per quanto ci riguarda, vogliamo che la legge protegga tutte le donne dicendo che la loro carne non è una mercanzia(…)
Penso che accettino un mercato crudelissimo, spinte dal bisogno, oppure dal marito, come avviene in India. Devono così sacrificare la loro intimità e la loro libertà. Non dimentichiamo che la vita personale di una madre surrogata è strettamente regolata e controllata: la sua vita sessuale, il suo regime dietetico, le sue attività… Durante nove mesi, vivono al servizio di altri, giorno e notte. Queste donne sono vittime di sistemi che non hanno contribuito a creare. Se il mercato della procreazione non fosse costruito da tutti quelli che vi traggono un lucro enorme, ovvero le cliniche, i medici, gli avvocati e le agenzie di reclutamento, a nessuna donna verrebbe mai in mente di guadagnarsi da vivere facendo bambini”.
Un doppio sfruttamento, quindi: da parte dei clienti, committenti e intermediari, e da parte dei mariti o parenti che lucrano sul corpo delle “loro” donne tanto quanto i papponi, gestendole come animali da riproduzione. Come la prostituzione, o forse peggio, perché qui è coinvolto il terzo, la creatura (che in verità è il PRIMO).
“Ma se sulla prostituzione, che è un fenomeno molto antico, è difficile andare oltre a un contenimento se non con pratiche violente e repressive, siamo ancora in tempo per fermare la pratica dell’utero in affitto” dice Luisa Muraro, filosofa e fondatrice della Libreria delle donne di Milano, convinta che nonostante la sovra-rappresentazione mediatica di un pensiero “progressista” mainstream che celebra il diritto ai figli e il mercato della maternità, la maggioranza delle cittadine e dei cittadini europei resti contraria alle pratiche di mercificazione del corpo. “Nella maternità surrogata non passa alcuna libertà femminile. Queste pratiche sono solo fonte di sofferenza per le donne”.
Sembra che resti quasi solo la Chiesa a vedere questa sofferenza: si può pensare di aprire un dialogo tra la Chiesa e il femminismo?
“Non si deve avere paura di stare dalla parte dell’etica cristiana, che mette la dignità delle persone umane davanti a tutto, e oppone l’amore, la sororità e la fraternità alle regole del mercato. La Chiesa oggi è quella che più di tutti si sta ponendo contro la logica capitalistica e mercantile”.
P.S.: prevengo l’obiezione. La questione a mio parere non riguarda affatto il cosiddetto “utero solidale” (tra sorelle, tra madre e figlia, o anche tra amiche, come è già avvenuto legalmente in Italia), dove tutto avviene nella relazione amorosa -accertata e non improvvisata allo scopo, e senza scambio di denaro- che tiene insieme madre genetica, portatrice e creatura, come un tempo madre, creatura e balia da latte.
Qui una successiva intervista di Avvenire a Luisa Muraro.
Aggiornamento 5 novembre: intanto l‘India pone limiti alla pratica dell’utero in affitto, e tutto il giro del business milionario si rivolta. Leggete qui.
Aggiornamento 6 novembre: segnalo un APPUNTAMENTO su questi temi alle amiche romane e non solo
Il Gruppo del Mercoledì invita Domenica 22 novembre, dalle 10 alle 17 Casa internazionale delle donne, via Francesco di Sales 7, Sala Simonetta Tosi Curare la differenza Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie Arcobaleno
L’attualità ci propone un dibattito angusto e ideologico sulla legge per le unioni civili, da decenni in attesa di approvazione in Parlamento.Lo spazio pubblico sembra racchiuso nella polarizzazione semplicistica tra la negazione di ogni possibile cambiamento per ancorarsi a stereotipi rassicuranti e l’utilizzo disinvolto delle bio-tecnologie e del mercato per trovare risposte a desideri anch’essi rassicuranti. L’incontro che proponiamo vuole recuperare lo spazio per una riflessione sulle scelte di vita e di relazione a partire dalla pratica della cura. Diversamente da altre occasioni non abbiamo scritto un nostro testo. Abbiamo preferito formulare delle domande. D. Questo incontro significa che il femminismo va a rimorchio della legge sulle unioni civili? R. Partiamo dall’attualità ma senza seguirla passo passo. Andiamo incontro al reale e alle questioni che, pur non essendo contenute nella legge, la legge sta sollevando. Sul matrimonio e sul legame d’amore; sul modo di intendere questo legame da parte di uomini e di donne; sul desiderio di maternità e di paternità; sul corpo e il rischio della sua sparizione.Vogliamo nominare i desideri, le passioni, le paure che si presentano intorno a questi temi. D. Come vi collocate rispetto alla questione del gender che ha prodotto schieramenti e divisioni anche violenti?R. Intanto a noi interessa discutere in un campo amicale. Con il nostro metodo, che è quello della politica delle donne: partire da sé e dare valore alle relazioni. Così il nostro gruppo si tiene insieme nonostante non la pensiamo allo stesso modo. Quanto al gender, la sua oscillazione con la parola “genere” è sintomo – ci sembra – della confusione e della scarsa cura nel nominare le cose. Eppure, è interesse delle donne e degli uomini non far sparire la differenza dei sessi.D. Non pensate che i diritti e dunque la legge siano lo strumento adeguato a sciogliere molti nodi che riguardano la discriminazione, l’umiliazione di chi fa scelte non in linea con l’eterosessualità?R. I diritti sono indispensabili ma non sciolgono tutti gli interrogativi. Addirittura, quando sono visti come risolutivi, rischiano di rendere seconde le relazioni e di schiacciare il fatto, incontrovertibile, che sia il pensarsi in coppia, sia il volere un bambino, rimandano sempre a vicende d’amore. D. Che significa curare la differenza?R. Significa avere attenzione alle relazioni. Una concezione individualistica che insiste sull’autocostruzione solitaria e solipsistica del soggetto umano non ci convince. Nessuno è del tutto autonomo. D. Non vi sembra che il punto della madre surrogata sia tirato fuori artificiosamente dal momento che la legge non lo cita?R. Ma è diventato un campo di battaglia. Certo, la madre surrogata è il punto più delicato, dal punto di vista femminista, nella costruzione di nuove famiglie. Come rispettare la libertà e l’autonomia di ciascuna donna? Come permettere la realizzazione di desideri senza mettere in gioco la libertà dell’altra? Non c’è il rischio di farne una mera questione di mercato? C’è differenza tra il desiderio di maternità e il desiderio di paternità, senza donne? Perché questo desiderio non sceglie l’adozione? Non riconoscendo nessuna differenza fra desiderio di maternità e desiderio di paternità, ritenendo che l’accesso alla genitorialità biologica sia un diritto universale e neutro, non ricadiamo nella conservazione dell’universo simbolico patriarcale? Vogliamo incontrarci su queste domande, per fare, se è possibile, qualche passo avanti.
Il prossimo 10 ottobre a Milano (ore 15.00, partenza da piazza Cadorna) e quasi in contemporanea a Caserta (ore 16.30 da piazza Vanvitelli) si svolgeranno due cortei organizzati dal comitato No194 in preparazione di un referendum abrogativo della legge 194 che regola l’interruzione volontaria di gravidanza. Al corteo parteciperanno probabilmente anche estremisti di destra di Forza Nuova, come in occasione della precedente manifestazione milanese l’11 aprile scorso.
Pietro Guerini, avvocato di Clusone (Bg), è presidente del comitato.
“Siamo nati nel 2009” dice “con l’unico obiettivo di abolire la legge 194. Dobbiamo irrobustirci per poter raccogliere le 500 mila firme che servono per il referendum”.
Non le sembra già sufficientemente abolita, la legge 194? Siamo perfino sotto sanzione europea per la sua disapplicazione a causa della fortissima obiezione di coscienza.
“Ma lei davvero è una giornalista del Corriere?”.
Perché, scusi?
“Questa è una domanda più da Repubblica… Comunque le rispondo. Per me lo scandalo non sono gli obiettori, lo scandalo è che ci siano medici che non obiettano, che tradiscono il giuramento di Ippocrate e che uccidono esseri umani indifesi”.
Lei sa che nel 1981 il referendum andò molto male…
“Altro che! Ero un ragazzino, andavo al liceo, e quel referendum mi ha cambiato la vita. Fu una disfatta totale, 68 no all’abrogazione contro 32 sì. Ma allora l’ideologizzazione era molto forte, la gente seguiva le direttive dei partiti. Oggi il clima è molto diverso. Alle Europee del 2009 la sinistra aveva perso molto e in generale si è manifestata una grande disaffezione ai partiti. E’ allora che ho fondato il comitato. Oggi la de-ideologizzazione è generale e il referendum avrebbe grandi chance”.
Vorrebbe abrogare l’intera legge?
“Salvo l’art. 6 lettera A, che ammette il diritto ad abortire in caso di comprovato pericolo di vita per la donna: la gravidanza poteva essere interrotta per questo motivo anche prima della legge 194. E salvo gli articoli sanzionatori, 17-18-19, perché l’aborto deve restare un reato ed essere adeguatamente punito”.
Quindi lei non si accontenta di abrogare l’”aborto di Stato”, come si dice, praticabile nelle strutture pubbliche. E’ anche contrario a ogni forma di depenalizzazione.
“Vede, ragioniamo da punti di vista radicalmente indifferenti: io considero sacro il diritto di nascere, e lei considera sacro il diritto di scelta della donna”.
Guardi che è sempre la donna a scegliere, legge o non legge. Nessuno può obbligarla a condurre una gravidanza, a meno di legarla a un letto di contenzione.
“Se intende interromperla, sia consapevole di commettere un reato e venga condannata per questo. E con lei il medico, e chi l’ha istigata a commetterlo, ad esempio il padre”.
Quindi una donna deve sempre portare a termine la gravidanza.
“Sempre. Noi vogliamo tutelare i più deboli, quelli che non hanno voce e che non votano. Se una donna resta incinta il bambino se lo tiene. Punto. Uno stato civile non può consentire la soppressione di un essere umano”.
Mentre può consentire la morte per aborto clandestino: perché è così che va a finire, anche lei lo sa.
“Se una vuole rischiare di crepare per aborto sono solo fatti suoi”.
Lei è cattolico?
“Cattolicissimo. Ma nel nostro comitato, che conta 30 mila iscritti, ci sono anche atei. La nostra è un’impostazione giuridica, non religiosa”.
Come giudica il perdono di Francesco, in occasione del Giubileo, alle donne che hanno abortito?
“Giusto che il Papa sia misericordioso. Ma un altro conto è l’impunità per chi uccide”.
Siete legati a un partito?
“A nessuno. Ma non abbiamo pregiudiziali. Se un partito vuole collaborare al raggiungimento del nostro obiettivo siamo apertissimi”.
Tipo Forza Nuova?
“Il primo tra i principi di Forza Nuova è la cancellazione dell’aborto. Io non voto Forza Nuova, sono un liberale e loro lo sanno. Ma su questo punto la convergenza è oggettiva”.
Questi i fatti. E quella che segue l’opinione: un referendum abrogativo della 194 difficilmente raccoglierà il numero di firme sufficiente, e nel caso le raccogliesse, difficilmente vincerebbe. Ma queste mobilitazioni creano “clima”, perfezionando lo svuotamento della legge dall’interno.
Antonio Spreafico detto Nino -o anche “Sprea”-, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprefico è ginecologo– si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche essere al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.
Brianzolo, cattolico, in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più erogabile.
“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.
Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…
“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche tipo San Pio X o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale, molto remunerativa, quella sì”.
Che è l’anticamera dell’aborto terapeutico, nient’altro.
“Regione Lombardia dovrebbe obbligare queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni. E invece anche per gli aborti terapeutici ormai siamo al “turismo”: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.
Come mai un’obiezione così alta tra i giovani neoassunti? Si tratta di un cambiamento di sensibilità?
“Come dicevo si tratta fondamentalmente di ragioni di carriera. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Io quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui al momento delle dimissioni metti in mano 10 euro perché non sa come mangiare”.
Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?
“Sempre tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… Un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.
Prima dell’approvazione della legge 194 si è parlato anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.
“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione: chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità potrebbe rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.
C’è clima per riparlarne?
“Non mi pare. Le donne sono lontane, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Ma una soluzione la dovremo trovare”
Antonio Spreafico detto Nino, o anche “Sprea”, 66 anni, è uno di quei medici che sentono intensamente il valore civico del proprio lavoro. Nel suo caso –Sprea è ginecologo- si è trattato di stare “dalla parte delle donne”, come si diceva un tempo: non solo curarle, guarirle, accompagnarle nella gravidanza e nel parto, ma anche stare al loro fianco nella lunga e faticosa lotta per non morire più di aborto, giunta a destinazione nel 1978 con l’approvazione della legge 194.
Brianzolo, cattolico e in pensione da qualche anno, nell’agosto scorso Spreafico è stato “richiamato in servizio” dal suo ex-ospedale, il Bassini di Cinisello Balsamo, con cui collabora da volontario, perché causa-ferie del personale (compresi i rarissimi non obiettori) il servizio di Ivg non era più garantito.
“Fare Ivg non piace a nessuno” dice “ostacola la carriera, carriera, non è scientificamente suggestivo. Ma qualcuno dovrà pur farlo”.
Gli incarichi meno gratificanti toccherebbero ai neo-assunti…
“Ma i nuovi assunti in Lombardia sono quasi tutti obiettori. I posti sono pochi, e chi obietta ha migliori chance di essere preso. Poi magari ci sono cliniche come San Pio X o ospedali come il San Raffaele dove gli aborti non si fanno, ma la diagnosi prenatale sì”.
Che è l’anticamera dell’aborto terapeutico. Altrimenti a che cosa serve?
“Ecco: perché Regione Lombardia non obbliga queste cliniche e questi ospedali a eseguire anche le interruzioni? Anche per i terapeutici siamo al turismo abortivo: si va a Barcellona, come per la fecondazione assistita”.
Un’obiezione così alta tra i “nuovi” perché è cambiata la sensibilità??
“Fondamentalmente per ragioni di carriera, come dicevo. Tutti i primari sono obiettori, e se non obietti ti infili nel ghetto. Però sì, c’è anche un difetto di sensibilità politica. Quando posso vado a Messa, ma non credo che il Padreterno mi condannerà: ho aiutato tante povere donne a “mandare indietro” i bambini, come diceva mia nonna. Donne anche poverissime, oggi ne vediamo tante. La pakistana a cui quando la dimetti dai anche 10 euro perché non sa come mangiare”.
Mai momenti di burnout? Voglia di mollare tutto?
“Tenuti a bada dal fatto che sai che le donne hanno bisogno di aiuto: se molli anche tu… un po’ di fatica, forse, quando arrivano certe signore “capienti,” che magari ti fanno anche il pistolotto: sa, noi siamo contrari, ma… Ecco, lì è un po’ più complicato”.
Prima dell’approvazione della legge 194 si parlava anche di depenalizzazione: ovvero, poter praticare l’Ivg in qualunque struttura, senza dover andare per forza in ospedale. E invece con la 194 fuori dall’ospedale l’aborto resta un reato.
“Anch’io avrei preferito la depenalizzazione. Chi ha un’assicurazione o maggiori possibilità avrebbe potuto rivolgersi al privato, senza pesare sul SSN”.
C’è il clima per riparlarne?
“Non mi pare. Le donne fanno poco su questo tema, i movimenti non esistono più, i partiti non intendono occuparsene… E anche le ragazze mi sembrano acquiescenti, rassegnate ad “arrangiarsi”. Non è sempre stato così”
della Il drg Con Drg (acronimo di Diagnosis Related Groups, ovvero Raggruppamenti Omogenei di Diagnosi) si indica il sistema di retribuzione degli ospedali per l’ attività di cura, introdotto in Italia nel 1995. Il meccanismo Gli interventi vengono retribuiti non più «a piè di lista», cioè in base alle giornate di degenza, ma «a prestazione». In base ad una stima predefinita del costo. La storia Il sistema Drg nasce negli Stati Uniti, negli anni ‘ 80, quando ci si accorge che il rimborso a «piè di lista» stava portando all’ implosione del sistema, a causa dei costi insostenibili, perché più si teneva il paziente in ospedale più si incassava: con i letti sempre pieni e le liste d’ attesa infinite. La Lombardia È una delle prime regioni ad applicare il modello Drg. In principio i raggruppamenti sono molto generali. Poi vengono perfezionati: oggi ci sono più di 500 Drg. Vengono rivisti ogni due anni. Dal ‘ 95 siamo alla 23 esima riedizione. Un’ innovazione tecnica o tecnologica può richiedere il ritocco della spesa. La novità Per ogni intervento (dall’ appendicite al trapianto di fegato) sono previsti diversi gradi di rimborso, dal caso semplice a quello complesso. Per evitare truffe, dal 2008 ad un caso complesso non può corrispondere una degenza inferiore ai 3 giorni.
E’ la cosa che tutte vorremmo sentirci dire, dopo una mammografia “rivelatrice”: non è nulla, non preoccuparti, teniamo sotto controllo ma non serve intervento chirurgico né terapia. Così, quando il “New York Times” strilla: “The best way to treat DCIS is to do nothing”(Il miglior modo di trattare il carcinoma duttale in situ della mammella è non fare niente), l’impulso a crederci è forte. E grande, corrispettivamente, l’incazzatura di chi invece è stata trattata e operata per questa patologia.
La notizia va incontro al diffuso sospetto che sul cancro al seno sia in atto un colossale business, che la prevenzione secondaria (screening mammografico e altro) riveli anche tumori “non pericolosi”, che resterebbero lì dove e come sono, e invece vengono invasivamente e onerosamente trattati (overtreatment). E che sulla prevenzione primaria, ricerca e azione sulle cause del cancro al seno -che oggi colpisce una donna su 8– si stia facendo davvero troppo poco.
Bene: un po’ di ordine, perché la faccenda è seria e i fraintendimenti sono pericolosi. Prima di tutto lo studio a cui il NYT fa riferimento, pubblicata sulla rivista “Jama Oncology” riguarda unicamente il carcinoma duttale in situ, non invasivo e confinato nei dotti mammari, e non si riferisce indiscriminatamente a tutti i tumori al seno.
“Va però detto che lo studio non conclude affatto che è meglio non trattare il DCIS” spiega Alberta Ferrari, chirurga senologa presso l’Unità Senologica del Policlinico San Matteo di Pavia. “Quando il titolare dello studio dottor Steven Narad dichiara al NYT che la strada preferibile è non fare nulla, trae una conclusione che nel suo stesso studio non compare”.
Che cosa dice precisamente lo studio?
“Che confrontando le donne trattate per DCIS e donne non ammalate, a vent’anni il tasso di mortalità per tumore alla mammella è identico. Da questo però non si può dedurre che è preferibile non trattare i DCIS”.
Perché?
“Il DCIS puro per definizione non è a rischio di mortalità. Però alcune di queste lesioni evolveranno a carcinoma infiltrante: la vera soluzione sarebbe sapere con esattezza quali. A grandi linee riusciamo a classificare il grado di aggressività, ma purtroppo non possiamo affermare con certezza l’assoluta assenza di rischio. Inoltre c’è un 15-20 per cento di donne che arriva in sala operatoria con diagnosi di DCIS e l’intervento rivela invece un cancro invasivo”.
E quindi?
“Quindi queste lesioni vanno trattate. Chirurgicamente ed eventualmente con ormonoterapia e/o radioterapia”.
E spesso si ha più paura della pesantezza della terapia –nell’ordine di “timore”: di chemio, ormonoterapia per 5 anni e radio- che dell’intervento chirurgico in sé… Il sospetto di overtreatment, cioè di un trattamento che va oltre le effettive necessità, è del tutto infondato?
“Certo che no. Nei siti degli screening si parla moltissimo di overtreatment e di come ridurlo. C’è stato perfino chi ha proposto di eliminare lo screening mammografico, ma uno studio europeo ha concluso che vale decisamente la pena di mantenerlo perché riduce la mortalità del 20 per cento. Sull’overtreatment si lavora incessantemente. Per esempio si sta cercando di capire come individuare le lesioni intraduttali più aggressive, riferendosi ad alcuni specifici recettori la cui presenza può essere indicativa di una maggiore aggressività biologica”.
E per quanto riguarda la prevenzione primaria? In parole povere: fare in modo che le donne non si ammalino, e non solo curarle precocemente?
“Qui effettivamente si batte il passo. Gli interessi economici pesano di più. Sono le case farmaceutiche a disporre dei più cospicui fondi per la ricerca. Quella indipendente, per esempio in Italia, non è finanziata a sufficienza: a essa è destinata una percentuale del Pil ben inferiore a quella di altri Paesi europei, gravemente insufficiente a sostenere studi liberi da conflitti di interesse. E le case farmaceutiche non traggono certo vantaggi dal ridurre il numero dei casi di malattia”.
Un’ultima domanda su una questione su cui torneremo presto: le Breast Unit, unità senologiche multidisciplinari che seguirebbero le pazienti dal momento della diagnosi in tutti i successivi passaggi terapeutici. Si è visto che l’istituzione di Breast Unit potrebbe ridurre la mortalità per cancro al seno di una percentuale pari a quella ascritta allo screening mammografico, quindi di un ulteriore 18-20 per cento. I recenti tagli alla Sanità mettono a rischio il progetto?
“Non dovrebbero, ma si è visto che in alcune situazioni lo stanno compromettendo. Per esempio in Lombardia: seguendo una logica lineare, sembra che si preferisca distribuire risorse a ospedali periferici, magari per compiacere clientele politiche locali, piuttosto che supportare unità altamente specializzate. Per il bene delle donne, si deve attentamente vigilare”.
Pensieri disordinati e svagati sull’ipocondria, sindrome vacanziera (tutti partono, anche i medici, la città si svuota, se mi viene un coccolone a Salina come faccio, etc. etc.). Qualsiasi variazione dei ritmi abituali peggiora l’ipocondria.
Quel mio amico che in Grecia correva a perdifiato in lungo e in largo per il pronto soccorso in costume urlando (in italiano): “Sono un codice rosso! Ho un infarto in corso!”.
Quello stesso amico che -a suo dire- raggiunto dal mini aerosol di uno starnuto voleva tornare d’urgenza in Italia per sottoporsi a un check up completo.
L’ipocondriaco è anche un po’ medico: non vede l’ora di consigliarvi le medicine che con lui hanno funzionato. Adora intrattenersi in lunghe conversazioni con i farmacisti (i farmacisti, meno).
D’altro canto l’ipocondriaco pensa che tante medicine siano del tutto inefficaci, o che facciano molto male, o che il dosaggio sia sbagliato, o che l’indicazione terapeutica sia sballata. L’ipocondriaco è un avido lettore di bugiardini. C’è anche l’ipocondriaco leghista che non assume farmaci prodotti sotto il Po (già Bologna è troppo).
Esiste l’ipocondriaco psichico: semplice nevrotico convinto di essere sul punto di diventare pazzo.
Per l’ipocondriaco il momento della visita è il nirvana: finalmente qualcuno ha capito che non sta affatto scherzando.
Poi il medico ti dice che non hai nulla di che. Giusto un istante di comprensibile euforia, ma appena fuori dallo studio ti ripiglia l’angoscia. Pensi che non abbia capito niente e chiami tutti gli altri medici che conosci per un consulto e per sparlare di lui.
Ma anche quando il medico diagnostica un piccolo disturbo, l’ipocondriaco è certo che si tratti di sottovalutazione.
Un serio ipocondriaco è convinto che quasi tutti i medici siano inaffidabili e che si siano laureati a forza di 18 politici, e i tagli alla sanità lo terrorizzano. Anche le lastre non hanno fotografato bene e l’ecografo non era di ultima generazione.
All’ipocondriaco serve un team di amici medici comprensivi e disposti a essere svegliati in piena notte.
Esistono molti medici ipocondriaci, ma non ve lo diranno mai.
Sei convinto di avere un dolore sospetto a un braccio, cominci a contrarlo e a tenerlo sbilenco, nel giro di un paio d’ore ti farà male sul serio. Entri in un loop di misurazioni pressione: a ogni misurazione la trovi più alta, ti agiti sempre di più, arrivi a 100-200, chiami il tuo medico ma il cellulare è staccato, sei ormai a 110-220, ti parte una selva di extrasistole, e via così. L’ipocondriaco professionista è in grado di procurarsi rapidamente molti tipi di patologie.
L’ipocondriaco avverte una minaccia costante e la materializza in un disturbo fisico.
L’ipocondriaco fa in modo che nel suo gruppo vacanze ci sia almeno un medico, da torturare preferibilmente la notte quando gli altri dormono.
L’unico disturbo che l’ipocondriaco non cura mai è l’ipocondria.
Fissato su uno pseudo-sintomo, l’ipocondriaco può trascurare veri problemi di salute (ma questo è meglio non dirlo a un ipocondriaco perché potrebbe funzionare da detonatore).
Più che dal movimento fisico scarica-ansia, l’ipocondriaco trae giovamento da lavori di fatica tipo trasloco. Se dopo otto ore non sarà morto, per qualche minuto si convincerà di non stare così male, tutto sommato. Giusto qualche minuto.
L’ipocondriaco ha molto bisogno di coccole e rassicurazioni. Può funzionare anche: “Adesso ci hai rotto le balle. Non puoi infelicitarci la vita. Piantala subito o sparisci!”. Ma solo per poco. Prenderlo in giro non serve. L’ipocondriaco fingerà di ridere di se stesso, in realtà continuerà a stare malissimo.
In sostanza, l‘ipocondriaco vuole la mamma.
Gli uomini e le donne sono colpiti nella stessa percentuale dall’ipocondria (2 per cento), e la fascia di età maggiormente coinvolta dalla malattia è quella tra i quaranta e i cinquant’anni.
Epigrafe ideale sulla tomba dell’ipocondriaco: “Ve l’avevo detto che non mi sentivo troppo bene”.
Ipocondriaci, parliamone senza inibizioni.
In Belgio una ragazza depressa di 24 anni ha chiesto e ottenuto di essere sottoposta a eutanasia –forse sarebbe più corretto parlare di suicidio assistito-, pratica che dovrebbe essere messa in atto entro l’estate. La legge belga, insieme a quella olandese, ammette l’eutanasia: ogni giorno vengono accompagnate alla morte 5 persone ammalate fisicamente o psichicamente, e le richieste sono in costante aumento, di quasi un terzo nell’ultimo anno. Cresce anche il numero di accessi consentiti a persone non terminali e senza patologie fisiche. Recentemente è stata sottoposta ad eutanasia una transessuale che non accettava l’esito degli interventi a cui si era sottoposta e si sentiva “un mostro”. In febbraio la possibilità di accedere a eutanasia è stata estesa ai bambini malati terminali.
Laura, chiamiamola così, non è una paziente terminale, né soffre di alcuna patologia fisica. Il suo problema è una forte depressione con pensieri suicidari. In un intervista al quotidiano De Morgen, Laura dice che “la vita non fa per me” e racconta di essere stata ossessionata dal pensiero della morte fino dalla prima infanzia. Spiega di non essere stata desiderata dai genitori e di aver avuto un padre alcolista. Dice che i suoi nonni le hanno dato una famiglia stabile e affettuosa, ma questo non è bastato. Dice che è convinta che avrebbe avuto questo desiderio di morte anche se le cose con i suoi genitori fossero andate diversamente. “La morte” spiega “non la vedo come una scelta. Se avessi la possibilità di scegliere opterei per una vita decente, ma ci ho provato in tutti modi e senza successo. Ho commesso vari tentativi di suicidio, ma c’era sempre qualcuno che aveva bisogno di me e io non volevo fare del male a nessuno. E’ questo che mi ha fermato”.
In ospedale psichiatrico Laura ha conosciuto una ragazza che è stata sottoposta ad eutanasia per problemi simili ai suoi, e da allora ha cominciato a concepire questa soluzione. Il Daily Mail riferisce che uno dei maggiori sostenitori dell’eutanasia in Belgio, il dottor Wim Distelmans, è stato al centro di grandi polemiche e condanne per aver organizzato un simposio ad Auschwitz. Il medico ha spiegato che “Auschwitz è il luogo più adatto per organizzare un seminario e riflettere su queste pratiche”. Un report pubblicato dal Journal of Medical Ethics ha concluso che almeno un paziente su 60 sottoposti a eutanasia non l’ha mai richiesto: in particolare si tratta di anziani ottantenni e ultraottantenni ricoverati in ospedale senza patologie terminali, in stato di coma o affetti da demenza. I cosiddetti lungodegenti, che costano molto alla sanità pubblica . Spesso la decisione viene assunta dai medici senza nemmeno consultare i familiari. L’autore del report, il Professor Raphael Cohen-Almagor della Hull University, dice che “la decisione su quale sia definibile vita e quale no non è nelle mani dei pazienti, ma in quelle dei medici. E’ una pratica che sta prendendo sempre più piede in Belgio”.
Il caso di Laura sta dividendo il Paese. Si tratta di un caso limite: una ragazza fisicamente sana, con una lunghissima aspettativa di vita, e una ragionevole speranza di poterla cambiare (essere adeguatamente e amorosamente curata, magari aiutata a trasferirsi altrove, lontano dal teatro di una vita insopportabile, poter sperare in un amore, in una rete di relazioni affettive, in qualcosa di bello che può capitarti). Forse appena un barlume, che tuttavia resta acceso. E’, in quanto gravemente depressa, abbastanza lucida per chiedere la soluzione definitiva della morte? E’ abbastanza adulta da essere immune da comuni fantasie adolescenziali sulla morte?
I tentativi non riusciti di suicidio messi in atto da Laura lo dimostrano indirettamente: in genere i TS sono grida d’allarme, estreme richieste di attenzione. Chi vuole davvero morire, la gran parte di noi lo sa avendo avuto la dolorosa esperienza di amici o congiunti suicidi, sa farlo a colpo sicuro.
Certo: l’eutanasia di Laura costerebbe pochissimo al servizio sanitario nazionale belga, molto più che prendersi cura di lei. Ma costerebbe moltissimo all’identità di quel Paese.
L’augurio è che i cittadini belgi inorriditi da questa storia sappiano fare sentire alta la propria voce: Not in My Name.
Il tempo è davvero poco. Io non posso che ripetere qui quello che ho scritto ieri sui social network, dopo aver appreso della vicenda: questa storia è merda.