In un passaggio del suo ultimo libro autobiografico, “Confessioni di un anticonformista”, scritto a due mani con Annalisa Chirico per Marsilio, il professor Umberto Veronesi parla di utero in affitto:

In questo blog trovate molti dibattutissimi post che considerano la questione in tutta la sua complessità.

Qui mi fermo a questo: possibile che a un uomo che ha dedicato alle donne la gran parte della sua importante vita professionale, che le conosce così bene, che ha visto da vicino la loro sofferenza -ricordo, per esempio, quando in una nostra conversazione stigmatizzò duramente la vigliaccheria dei mariti che fuggivano di fronte a una diagnosi di cancro per la compagna-, sia scappata una dichiarazione del genere?

Una donna povera che offre il proprio utero a pagamento “su base consensuale” è con ogni evidenza un ossimoro.

Come si può parlare di consenso in presenza di una disparità tanto grande tra i contraenti -una donna povera e una donna, un uomo o una coppia ricchi-? Di che genere di libertà si tratterebbe? Prevengo l’obiezione: qualunque contratto di lavoro si basa su questa disparità. Ma si può in questo caso, come nel caso della prostituzione, parlare di ordinario “lavoro”? (qui, anzi, si va molto oltre la prostituzione, perché c’è un “terzo”, il bambino oggetto di mercato, che come più volte abbiamo detto dovrebbe essere tenuto come primo).

Quanto poi alla “montagna di soldi” generata dal business della “gestazione per altri” (come nel lessico “corretto” che dietro l’eufemismo nasconde la sostanza della faccenda), si dovrebbe sapere che in molti casi alla donna ne arriva una minima parte, quando non niente del tutto. Nei paesi terzi le donne vengono messe sul mercato dai mariti, dai fratelli o da altri papponi, come si farebbe con una bestia fattrice. Un sacco di soldi li prendono le cliniche e i legali. C’è poi l’indotto turistico: viaggi organizzati, alberghi, ristoranti.

Ammesso che alla donna resti in tasca qualche soldo, Veronesi immagina che possano essere destinati ad “aiutare i figli a pagarsi gli studi”, in una logica di abnegazione assoluta.

Davvero il professore pensa questo? O le sue parole sono state male interpretate? O si è lasciato anche lui, l’anticonformista, sedurre dal conformismo del mainstream, volendo dimostrarsi “moderno”?

Come può essere che un uomo capace di considerare perfino la sofferenza animale, al punto di scegliere il vegetarianesimo, non veda il dolore che si può generare facendo mercato di una relazione tanto intima, matrice dell’umano?

Aggiornamento domenica 29 novembre: qui un’interessante puntata di Terra! dedicata in gran parte alla questione. Parlo anch’io, a partire dal minuto 46

  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •