Browsing Category

salute

Corpo-anima, salute Maggio 21, 2015

Anoressia: TSO e alimentazione forzata (proposta di legge Moretto). Fabiola Declerq: crudeltà pericolose e inutili. La replica di Sara Moretto e Alessandra Arachi

 

Mentre l’attrice americana Rachel Farrock lancia su Youtube il suo drammatico appello perché qualcuno l’aiuti, anche economicamente, a curare l’anoressia che l’ha ridotta uno scheletro di appena venti chili, in Italia la parlamentare Sara Moretto del Pd firma una proposta di legge per autorizzare il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) con alimentazione forzata per le anoressiche che rifiutino anche occasionalmente i trattamenti medici.

Proposta “securitaristica” e autoritaria che fa molto discutere: “obbligare a mangiare”, anche con un sondino, non è mai stata ritenuta una strada per curare l’anoressia nervosa.

Fabiola De Clerq è stata anoressica ed è fondatrice e presidente di Aba, associazione per lo Studio e la Ricerca su anoressia, bulimia, obesità e disturbi alimentari nata nel 2002 a Milano e che assiste circa 700 anoressiche ogni mese. Come valuta la proposta?

“Molto pericolosa” dice. “Non ho mai creduto alla riabilitazione alimentare. Il disturbo dell’alimentazione è il sintomo di un disagio profondo. Si deve lavorare sulle ragioni del disagio, non sul sintomo, che va visto come una specie di autoterapia”.

Essere costretta al cibo forse è la peggior forma di tortura per un’anoressica: ma servirebbe?

“A peggiorare le cose. Dopo il trattamento obbligatorio la paziente potrebbe “vendicarsi” con comportamenti autolesionistici, fino al suicidio”.

Le è mai capitato di far ricoverare qualcuna?

“Raramente, e solo in caso di pericolo gravissimo(*). Che cosa potrebbe capitare se una famiglia con una figlia che non vuole mangiare si rivolgesse al sindaco del paese, magari un amico, per fargli firmare la richiesta di TSO? Anche perché molto spesso i veri pazienti sono i genitori. Anche loro devono seguire una terapia. E un sondino può essere perfino pericoloso”.

In che senso?

“Le anoressiche possono essere nevrotiche o psicotiche: lo stesso sintomo è la punta di iceberg molto diversi. Se una paziente è psichiatrica, con l’alimentazione forzata puoi innescare una bomba. A una psicotica non puoi togliere l’anoressia, perché la scompensi. Un ragionevole grado di anoressia, o anche di bulimia, può essere l’elemento che la tiene in equilibrio. Ho per esempio ex-pazienti psichiatriche bulimiche che hanno ridotto considerevolmente gli episodi di vomito. Magari capita ancora solo sotto stress, ma serve a garantire loro un assetto compatibile con la vita: pur sempre meglio che sentire le voci o credersi la Madonna. Qui si va a tagliare una materia delicatissima con un coltello grossolano”.

La minaccia di un TSO non potrebbe essere un incentivo a curarsi? -mi scusi, non lo credo affatto, ma glielo domando lo stesso-.

“Ma se non hanno neanche paura della morte! Quando glielo dico io, che sono stata anoressica: “Guarda che muori”, un po’ mi danno ascolto, perché sanno che le capisco. Ma se a dirglielo è un medico quasi sempre è inutile. Le anoressiche sono in costante delirio di onnipotenza. La chiave del disturbo è il controllo: credono di poter controllare tutto, anche la morte”.

E invece possono morire.

“L’anoressia è la prima causa di morte tra le pazienti psichiatriche. Spesso si tratta di suicidi. Ma in tanti anni non mi è mai morta nessuna, e prendo anche ragazze ridotte a 25 kg. Guarire si può, eccome. Abbiamo guarigioni di continuo. E guarire è anche guarire ragionevolmente, ridurre il disturbo fino alla compatibilità con una buona vita. Viceversa, puoi ingrassare 25 kg e non guarire affatto, finendo con l’esprimere il tuo disagio in disturbi anche peggiori. Nell’80 per cento dei casi dietro il disturbo alimentare ci sono maltrattamenti e abusi intrafamiliari. Che cosa fai, gli dai anche la mazzata del TSO? Perché, allora, non il TSO obbligatorio per gli alcolisti? In fondo l’anoressia è una dipendenza, come l’alcolismo: sei dipendente dal non-mangiare-niente. Ci mettiamo a curare così tutte le dipendenze, con i trattamenti obbligatori?”.

Se non questa legge, di quale legge ci sarebbe bisogno?

“Guardi, io non mi aspetto più niente dalla politica. Niente di niente. Faccio tutto da sola. Anche perché spesso, quando la politica si muove, i risultati sono cretinate come questa. Ci vorrebbe almeno l’umiltà di studiare, prima di proporre una cosa tanto grave. La cosa importante sarebbe che le Asl si attrezzassero, che i medici di famiglia venissero formati. Ma di una legge così i giornali non parlerebbero”.

 

(*) Una precisazione d’obbligo

Rispondendo alla mia domanda: “Le è mai capitato di far ricoverare qualcuna?”, Fabiola Declerq risponde: “Raramente, e solo in caso di pericolo gravissimo”. La mia domanda diretta può ingenerare equivoci e lasciare intendere che sia stata Declerq in persona a disporre il ricovero delle pazienti in pericolo. Naturalmente non è così: a disporre i pur rari ricoveri non è stata la signora Declerq, ma i medici che collaborano con Aba, i soli titolati a farlo.

 

22 maggio: ricevo e pubblico replica dell’on. Sara Moretto

 

Gentile dott.ssa Terragni,
vorrei fare un po’ di chiarezza sulla mia proposta di legge sul trattamento sanitario obbligatorio nei casi di disturbi del comportamento alimentare e sulle dichiarazioni di Fabiola De Clerq, presidente di Aba, associazione per lo Studio e la Ricerca su anoressia, bulimia, obesità e disturbi alimentari. La mia pdl è animata dalla volontà di salvare delle vite umane, non certo di introdurre metodi repressivi. Essendo i DCA delle patologie psichiatriche, la normativa vigente prevede già oggi la possibilità di fare i Tso. Non solo. Il ricorso a questo strumento (ovviamente eccezionale e di brevissima durata) è contemplato anche nei quaderni del Ministero della Salute. La proposta di legge specifica essenzialmente due cose: la prima è che i Tso devono essere mirati alla nutrizione, come trattamenti salvavita, la seconda che questi trattamenti vanno erogati nelle strutture pubbliche, uniformandone le modalità a livello nazionale. La proposta di legge chiede l’individuazione di posti letto “sicuri” e di équipe formate per la gestione di queste situazioni drammatiche. Inoltre, non vi è alcun accenno alla “alimentazione forzata”. L’alimentazione meccanica non è un metodo forzato ma un programma di trattamento. L’aggettivo “meccanica” si riferisce al fatto che mangiare deve essere qualcosa che si fa indipendentemente dai propri pensieri e sensazioni, come una medicina.

Per concludere, definire la proposta “una cretinata” significa quantomeno non tener conto delle posizioni espresse dai principali psichiatri italiani che si occupano di queste patologie né dalle associazioni che rappresentano le famiglie. 

Ci vorrebbe almeno l’umiltà di leggere la proposta, prima di criticarla.


On.le Sara Moretto

 

UN ALTRO CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE: ALESSANDRA ARACHI

Alessandra Arachi è una collega del Corriere della Sera. Conosce personalmente il problema di cui si discute qui, sul quale ha scritto in “Briciole. Storia di un’anoressia” (Feltrinelli) e nel romanzo “Non più briciole”, da qualche settimana in libreria per Longanesi.

Secondo Arachi ogni proposta è perfettibile, ma la legge Moretto costituirebbe un passo avanti nella gestione della malattia.

“Si deve tenere conto” dice “che il TSO si pratica già nei casi più gravi e nelle fasi acute della malattia. E infatti la giovane anoressica di cui racconto nel romanzo viene sottoposta al trattamento. Il senso della proposta di Moretto è: visto che i TSO li facciamo già, facciamoli meglio. Invece di ricoverare forzatamente le anoressiche in reparti di psichiatria, costruiamo ambiti specializzati e multifunzionali dedicati alla patologia”.

Anorexia Unit, insomma.

“Potrebbe essere un’idea. La proposta non introduce il TSO per le anoressiche, semplicemente precisa come questo strumento dovrebbe essere utilizzato”.

Come spieghi allora la contrarietà di molti addetti ai lavori?

“Io ho ascoltato anche molte voci favorevoli. L’anoressia è una malattia molto mediatica, e troppi la cavalcano improvvisandosi esperti”.

C’è anche un problema culturale: si legittima un principio autoritario nella gestione della malattia. Probabilmente molte famiglie pensano che il problema si risolverebbe se potessero alimentare a forza le figlie.

“Ripeto: qui non si vuole usare il TSO per costringere le anoressiche a mangiare. Il TSO è inteso come un salvavita. Rinunciando alla coazione nella cura delle patologie psichiatriche, Basaglia ha fatto una cosa meravigliosa, ma la sua legge è stata applicata solo a metà con tutti problemi che sappiamo”.

Conosci casi di anoressiche che hanno subito TSO?

“Come dicevo, la protagonista del mio romanzo viene trattata in un reparto di psichiatria, dove si cumulano errori su errori. Quando scopre che l’alimentazione forzata le ha fatto prendere peso la sua rabbia esplode. Ma la stessa prassi gestita in centri specializzati e multidisciplinari avrebbe tutt’altro senso. Esistono realtà d’eccellenza dove le cose funzionano bene. Non si deve avere ideologicamente paura della parola TSO”.

Hai mai visto un TSO? E’ un evento drammatico, spesso servono le forze dell’ordine.

“Nel caso delle anoressiche in fase acuta ho visto solo ambulanze e personale sanitario. Sono sfinite, non hanno la forza fisica di ribellarsi”.

Troppo spesso in Italia le leggi sono soggette a interpretazioni e applicazioni arbitrarie. Metti il caso di una famiglia che vive in un piccolo paese, che si ritrova con una figlia che non mangia e credendo di fare la cosa giusta chiede al sindaco amico di autorizzare un TSO…

“Ma così si violerebbe la legge. Ripeto: La proposta Moretto prevede il TSO solo in fase acuta, come salvavita. In ogni caso il TSO, che è l’unico strumento coercitivo sopravvissuto alla rivoluzione di Basaglia, può essere disposto dall’autorità amministrativa solo su richiesta dello psichiatra”.

 

 

 

Politica, salute Maggio 11, 2015

Caro Grillo, la mammografia si deve fare. Però è vero: non è prevenzione

Un personaggio pubblico che parla di salute ha sempre grandissime responsabilità: dire, come ha fatto Beppe Grillo a Perugia, che le mammografie sono il business di Veronesi è un atto irresponsabile, perché le donne possono dedurne che la mammo non serve a niente, se non ad arricchire qualcuno, e quindi non farla. Il che può mettere a rischio la loro vita. Più tardi Grillo ha precisato: “Non penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa credere che facendo questo esame non venga il tumore”. Bene: questo è tutt’altro conto.

Perché sbaglia anche la ministra per la Salute Beatrice Lorenzin a sostenere che “l’arma più efficace, talvolta l’unica, per sconfiggere il cancro è la prevenzione» e che uno degli esempi più eloquenti è il tumore al seno, che «le donne possono sconfiggere proprio grazie alle mammografie e ai controlli da protocollo».

Mammografie e controlli sono utilissimi, ma non possono essere definiti “prevenzione”. I controlli periodici consentono diagnosi precoci, e quindi diminuiscono il rischio di morire per tumore al seno. Ma il tumore, quando viene scoperto ai controlli, ce l’hai già, e non può più essere “prevenuto”. Sulla vera prevenzione del tumore al seno in verità si fa poco o nulla, ed è una cosa terribile se consideriamo che verosimilmente nessun tumore ha un simile tasso di incidenza (1 donna ogni 8) con tendenza ad aumento tra le under 40 e soprattutto fra le under 30.

Un po’ di numeri, spaventosi: nel 2014 in Italia sono stati diagnosticati 48 mila 200 nuovi casi, con 12.500 decessi.  si stima che nel 2020 saranno 51500 (fonte AIRTUM-AIOM). Nel 2011 (dato più recente) il carcinoma mammario ha rappresentato la prima causa di morte per tumore nelle donne, con 11 mila 959 decessi (fonte ISTAT), al primo posto anche in diverse età della vita, rappresentando il 29 per cento  delle cause di morte oncologica prima dei 50 anni, il 23 per cento tra i 50 e i 69 anni e il 16 per cento dopo i 70 anni.

Tutte conosciamo il problema, se non è toccato a noi è capitato a parenti, amiche, conoscenti.

Le case farmaceutiche non hanno alcun interesse a finanziare ricerche che consentano una reale prevenzione, perché la prevenzione non fa vendere farmaci. Ma è proprio su questo fronte che si deve agire, sgombrando il campo dall’equivoco secondo il quale screening e controlli servono a non ammalarsi: screening e controlli servono solo a curarsi tempestivamente quando sei GIA’ ammalata.

Il numero di donne che si sottopongono ai controlli è aumentato, ma il tumore al seno non diminuisce. Anzi. Come avete visto le prospettive sono pessime. A quanto pare le strategie che sono state adottate non sono efficaci.

Ne parliamo con Alberta Ferrari, senologa chirurga presso il Policlinico San Matteo di Pavia. Ferrari è anche promotrice di un gruppo che aggrega le donne con mutazione dei geni BRCA (la patologia di Angelina Jolie, che ha deciso di sottoporsi a mastectomia e ovariectomia preventiva), donne ad altissimo rischio di sviluppare tumori al seno e alle ovaie.

“Non si discute la validità della mammografia come mezzo di diagnosi o di sorveglianza” dice. “Ma ci sono studi -per esempio una grossa ricerca canadese- secondo i quali gli screening mammografici sostanzialmente non influiscono sulla mortalità per tumore al seno. In Svizzera infatti gli screening sono stati sospesi. Altri studi danno risultati diversi: secondo la maggior parte delle ricerche, gli screning diminuiscono la mortalità del 15-25 per cento. L’opinione più diffusa tra gli addetti ai lavori è che lo screening mammografico resti utile, anche se non si deve farne un oggetto di culto. Il rischio è che le donne pensino che l’esame serva a non ammalarsi”.

Che cosa si sta facendo invece sul fronte della prevenzione primaria?

“Poco o niente. Si parla di stile di vita (alimentazione, obesità, sedentarietà) che senz’altro incide per l’età “classica”, tra i 50 e i 70 anni, ma difficilmente può spiegare i casi di tumore al seno tra le venti-trentenni. Non conosciamo ancora le cause del cancro al seno, il che significa che non sappiamo ancora come prevenirlo”.

Può incidere anche il fatto che ci alimentiamo con carni di animali trattati con ormoni? (proprio oggi un incontro tra ministri a Bruxelles sull’abuso di farmaci negli allevamenti di animali, ndr).

“E’ probabile. Il processo che conduce ad ammalarsi potrebbe avviarsi già a livello embrionale, quando sei nella pancia di tua madre. Ci sono altre sostanze fortemente indiziate: pesticidi, componenti di cosmetici e di prodotti di bellezza… Sul fronte della prevenzione la politica ha grandi responsabilità. Le ricerche possono essere finanziate solo con fondi pubblici, i privati delle case farmaceutiche non hanno alcun interesse a metterci dei soldi”.

Il tema dello scarso interesse per la prevenzione vale un po’ per tutto. Per esempio, l’infertilità: è accertato che gli ftalati, componenti di prodotti di uso comune, come molti bagni schiuma o dentifrici, compromettano la fecondità maschile. Ma nessuno propone di metterli al bando. Si lotta per il business della fecondazione assistita, ma non si parla mai di prevenzione. Tornando al tumore al seno: allo stato attuale quali sono le strategie migliori per difendersi?

“Le indicazioni sono di personalizzare i percorsi, valutando i fattori di rischio, la familiarità, l’eventuale predisposizione genetica, come nel caso dellla mutazione dei geni BRCA, che riguarda il 5-10 per cento dei casi. Purtroppo solo l’Emilia Romagna ha già adottato questo approccio. Per tutte, controlli mammografici a partire dai 40 anni, dopo i 50 ogni anno e mezzo-due. Per le under 40 è fondamentale  l’autopalpazione. E poi c’è il tema importantissimo delle Breast Unit“.

Di che cosa si tratta?

“Le Breast Unit sono unità specializzate nella cura multidisciplinare e integrata del tumore al seno. I casi vengono studiati collegialmente e le donne vengono accompagnate lungo tutto l’iter diagnostico e terapeutico. Il trattamento nelle Breast Unit diminuisce la mortalità del 20 per cento. Lo scorso dicembre l’istituzione di Breast Unit è stata deliberata dalla conferenza Stato-Regioni. E’ necessario vigilare: le Regioni hanno un anno di tempo per adeguarsi, in caso diverso saremo sanzionati dall’Europa. Ma soprattutto, ed è quello che conta, salveremo meno vite”.

(delle Breast Unit parleremo diffusamente nei prossimi giorni, in vista di un convegno in programma a giugno).

 

diritti, Politica, salute Marzo 10, 2015

Aborto-Europa: giusto un passetto avanti

Silvia Costa, eurodeputata Pd:
ha sostenuto l’emendamento sull’aborto proposto dal Ppe

Nel 2o13 era andata proprio male, con la bocciatura netta della risoluzione Estrela che ribadiva l’autodeterminazione delle donne in materia di sessualità e riproduzione. Stavolta, grazie anche all’impegno di europarlamentari come Elly Schlein ed Elena Gentile, la risoluzione Tarabella, compresa la parte in cui si sostiene che le donne devono «avere il controllo dei loro diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto» è passata a larga maggioranza (441 sì, 205 no e 52 astenuti), nonostante la mobilitazione dei cosiddetti “pro-life”.

Ma il PPE ha presentato un emendamento approvato dall’Aula che specifica che la legislazione sulla riproduzione deve comunque rimanere di competenza nazionale. Il che significa che le irlandesi, le polacche e le maltesi, cittadine di Paesi in cui dove l’aborto resta illegale, dovranno continuare a vedersela da sole. L’emendamento del PPE è stato sostenuto anche dalla parlamentare Pd Silvia Costa, che ha precisato di aver votato a favore della mozione solo perché è stato garantito il principio di sussidiarietà. Ecco il suo tweet: “Con emendamento PPE che ribadisce che sanità e diritti sessuali e riproduttivi sono competenza nazionale ho votato a favore della #Tarabella” (Luigi Morgano, altro eurodeputato Pd, ha reso noto di essersi astenuto).

Quindi un passo avanti, ma a metà.

Sarebbe a questo punto interessante che Silvia Costa, proprio in forza del principio di sussidiarietà che lei ha caldeggiato, a differenza della quasi totalità del partito a cui appartiene, ci dicesse che cosa dovremmo fare con la nostra legge 194, svuotata da un’obiezione di coscienza che in alcune regioni italiane, come il Lazio, supera il 90 per cento. Se ogni Paese europeo, come lei ritiene, deve vedersela da sé, ci dica come dobbiamo vedercela nel nostro: giusto qualche giorno fa una ragazzina genovese ha rischiato la pelle per aborto clandestino, scene da pre-’78 che dovrebbero preoccupare tutte e tutti, Silvia Costa compresa.

Restiamo quindi in attesa di una sua efficace proposta in materia, eventualmente anche di una proposta di Morgano, magari ne hanno di migliori delle nostre (il 50 per cento dei posti riservati ai non obiettori: tutta la proposta qui) : permettendoci di ricordare che la legge 194 è stata voluta dalla maggioranza delle cittadine e dei cittadini di questo Paese, cattoliche e cattolici compresi, consenso ribadito in un successivo referendum. E che fare tornare a crepare le donne non è una buona strategia anti-aborto. Silvia Costa che è una donna dovrebbe saperlo.

#save194

aggiornamento 11 marzo: a proposito di “competenza nazionale”. L’Europa ha autorizzato la commercializzazione della “pillola dei 5 giorni dopo”, contraccezione d’emergenza dopo rapporti a rischio (il farmaco ritarda l’ovulazione) senza necessità di ricetta medica. Molti Stati europei, fra cui la Germania, hanno già autorizzato la libera vendita. Non l’Italia, come potete leggere qui.

 

 

 

Corpo-anima, Donne e Uomini, Politica, salute Dicembre 15, 2014

Parlare d’aborto con un antiabortista: Luigi Amicone, direttore di “Tempi”

Luigi Amicone è fondatore e direttore della rivista “Tempi”. Wikipedia lo definisce “esponente dei teocon”. Di sicuro è un cattolico fervido e intelligente. Parlo di aborto con lui, perché parlarne con le mie amiche è troppo facile.

Mettiamo i piedi nel piatto, senza preamboli. La legge 194 ormai non esiste quasi più causa obiezione di coscienza, che supera il 70 per cento, con punte del 90, e molti casi di obiezione di struttura come il Policlinico, il più grande ospedale di Roma.

La legge 194 è nata a tutela della maternità. Questo spirito è andato via via perdendosi. Della legge è rimasta la “conquista” dell’aborto. Se c’è una cosa da recuperare è quello spirito originario, frantumando le cristallizzazione ideologiche estreme: da una parte chi pensa all’aborto come a una bandiera di libertà, elaborazione cinica di un dramma umano; dall’altra le manifestazioni dei pro-life che fanno i funerali agli embrioni. Io sono per la difesa della vita, dal concepimento alla morte, ma non mi pare che la posizione dei pro-life, la preghiera brandita come memento mori, sia così utile alla causa. Paola Bonzi, fondatrice del Centro Aiuto alla Vita in Mangiagalli, è una che non ha mai fatto crociate: è costantemente presente là dove le donne soffrono, e il primario Alessandra Kustermann rispetta il suo impegno. Due donne ai poli estremi che dimostrano come si può affrontare la questione”.

Resta il fatto che tante oggi sono costrette agli aborti clandestini e fai-da-te da un’obiezione in gran parte opportunistica. Vero che non si può frugare nelle coscienze per discernere il grano dal loglio. Ma la non applicazione della legge serve solo ad aumentare il rischio per le donne, non a diminuire il numero degli aborti. Non c’è riduzione del danno, ma aumento del danno. E tu sai che il Consiglio d’Europa ci richiama ad applicare la 194.

“L’Europa pensa l’aborto come un ordinario evento della vita riproduttiva”.

Veramente l’Europa ha bocciato la risoluzione Estrela…

“Comunque in Europa circola l’idea un po’ orwelliana del diritto d’aborto come un fatto di progresso. A questo tipo di legalità preferisco l’illegalità“.

Stai dicendo una cosa enorme. Spero tu non intenda dire che preferisci la clandestinità, con i rischi che comporta. Spero che tu intenda dire che preferisci la depenalizzazione, ovvero l’abolizione del reato d’aborto: ti ricordo che oggi l’aborto non è reato soltanto se praticato nelle strutture pubbliche. La depenalizzazione fu un’opzione minoritaria nel movimento delle donne: forse ci si dovrebbe ripensare.

Depenalizzazione, forse. Ma anche libertà delle coscienze. D’accordo sul fatto che mettere a rischio la salute delle donne non aiuta. Ma faccio notare che il primo rischio è per la pelle dei bambini. La depenalizzazione, ovvero la possibilità di attuare in sicurezza gli interventi fuori dalle strutture pubbliche, potrebbe essere un’idea da pensare. Anche se poi si aprirebbe il pericolo di un mercato degli aborti”.

E invece l’ipotesi di concorsi pubblici che riservino metà dei posti ai non-obiettori?

“Non puoi chiedermi questo! Io mi augurerei il cento per cento di obiezione”.

Be’, quasi ci siamo arrivati. Quindi a te va bene andare avanti su questa strada. Cioè fare finta che non applicando la legge l’aborto sparisce. Ignorare il problema è buona politica?

“Forse non è buona politica. Forse, ripeto, la depenalizzazione potrebbe essere una soluzione. Ma so che i fatti determinano cultura. Anche con la depenalizzazione l’aborto verrebbe banalizzato. Forse la vera cosa da fare sarebbe vietare l’aborto su tutto il territorio nazionale e costringere le donne ad andare all’estero…”.

Stai provocando? La tua logica è punire le donne. Non è così che gli aborti diminuiranno.

“E’ una provocazione per dire che quello su cui si dovrebbe davvero lavorare è una cultura dell’accoglienza. Fare sapere a tutte le donne che non sono in condizioni di avere un bambino che possono metterlo al mondo lo stesso, che ci sarà qualcun altro a prendersi cura di lui. Per esempio le ruote degli innocenti, ti ricordi?”.

Ci vorrebbero piuttosto le ruote dei dirigenti: la maternità incide per lo 0.23 per cento nei bilanci aziendali, dice Federmanager. Eppure le madri sono viste come un pericolo per la produttività. E’ un fatto di cultura che stenta a cambiare.

“Il mio pensiero è questo: lotta a tutto campo perché le donne non siano impedite a fare bambini, a partire dal mondo del lavoro. E accoglienza per tutti i bambini, anche quelli non voluti. Cominciando per esempio con il facilitare le adozioni“.

Mi permetto di ricordarti che più le donne lavorano, più figli fanno: c’è una proporzionalità diretta e verificata. E invece restiamo inchiodati all’idea che le donne fanno più figli se stanno a casa.

“Lasciamelo ridire: se io fossi al governo lancerei la sfida del divieto di aborto su tutto il territorio nazionale.

Insisti? Ripeto che il divieto c’è già nei fatti, con questi livelli di obiezione.

“Ma quanti migliaia di aborti sono stati praticati dal 1978 a oggi? Troviamo il modo per fare crescere la natalità, pensiamo anzitutto a questo. Siamo il Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone: denatalità è sinonimo di declino economico e sociale. Investiamo su questa grandezza femminile, il fatto di poter dare la vita. Diamo valore a questa potenzialità, costruiamo accoglienza. Poi anche la depenalizzazione ci può stare, ma non la metterei al centro delle politiche”.

Su questo si può discutere. Però discutiamone. Smettiamola di fare finta di niente.

p.s: facile confrontarsi solo con chi la pensa come te.

Corpo-anima, diritti, Femminismo, salute Novembre 28, 2014

Policlinico Roma: niente più aborti causa obiezione. Ecco una proposta per uscirne. Ma serve la lotta di tutte

Il cartello affisso al Policlinico di Roma

Policlinico Umberto I, Roma. L’ultimo non obiettore è andato in pensione. Il servizio Ivg è sospeso.

Non è il primo caso nè l’unico di “obiezione di struttura” in Italia. Ma il Policlinico è il più grande ospedale di Roma. Ora la direzione sanitaria sta cercando «un giovane ricercatore o associato da destinare all’attività assistenziale». Al netto delle responsabilità sul singolo caso, che devono essere accertate (direttore generale, direttore sanitario e di presidio, fino al ministero per la Salute), il caso del Policlinico è solo la punta di un iceberg: in Lazio l’obiezione di coscienza è al 90 per cento e costringe le utenti a migrare in altre regioni, l’obiezione media in Italia supera ampiamente il 70 per cento, con intere regioni sostanzialmente scoperte.

A quanto pare, e nonostante il Consiglio d’Europa pochi mesi orsono abbia condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne”, il governo Renzi non intende affrontare la questione. La logica -del tutto insensata- è che se la 194 non sarà più applicata, non vi saranno più aborti. La non applicazione della legge garantisce invece solo una crescita esponenziale degli aborti clandestini e fai-da-te (il moderno prezzemolo sono i farmaci antiulcera), con gravissimo rischio per la vita delle donne.

Molte e molti indicano come soluzione la proibizione dell’obiezione. Ma questa strada non è praticabile, e scatenerebbe raffiche di ricorsi. L’obiezione di coscienza -che si spieghi con effettive ragioni di coscienza o che sia solo opportunistica- è un diritto sancito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale, oltre che dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”.
Ma la Corte di Strasburgo afferma che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

La soluzione, quindi, non può essere il divieto di obiezione. C’è un’altra strada che merita di essere considerata, e sostenuta con la lotta: che ogni reparto di ostetricia preveda il 50 per cento di medici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico, e consenta così la rotazione del personale medico e paramedico.

Questa soluzione si fonderebbe su almeno due sentenze: una sentenza del TAR PUGLIA (14/09/2010, n. 3477, sez. II) afferma infatti che “ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50% per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50% per medici specialisti obiettori”; un’altra sentenza del TAR dell’Emilia Romagna  (sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss), sostiene “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

L’alternativa è solo la depenalizzazione dell’aborto, ipotesi che negli anni Settanta fu sostenuta solo da una minoranza del movimento delle donne. In sostanza: non sia lo Stato a occuparsi della questione, si consenta al privato di praticare interruzioni di gravidanza (con le indispensabili garanzie igienico-sanitarie) senza che questo costituisca reato. La 194 invece stabilì che l’aborto non è perseguibile come reato unicamente se praticato nelle strutture pubbliche.

Una cosa è certa: qualunque sia la soluzione individuata contro la non applicazione della 194, senza una lotta massiccia e diffusa delle donne di questo Paese non si arriverà da nessuna parte.

 

Politica, salute Ottobre 14, 2014

Ebola non scaccia Aids

L’ultim’ora è davvero brutta: morto di Ebola in Germania un medico sudanese dipendente Onu e proveniente dalla Liberia. Dopo il missionario in Spagna è il secondo decesso per Ebola in Europa.

L’altra notizia, che invece non viene data, è che ogni anno vengono riscontrati in Italia 4 mila nuovi contagi da Hiv -il che significa che i contagi effettivi, non verificati da analisi mediche, sono almeno il doppio-. Giovani e giovanissimi, prevalentemente eterosessuali -ma anche tra gli omosessuali la vigilanza è ormai allentata- e over 65 che continuano ad avere una vita sessuale grazie ai farmaci che la prolungano.

In qualità di ambasciatrice per la lotta contro l’Aids, “onorificenza” di cui mi ha insignito NPS Italia, network persone sieropositive, ne parlo con Rosaria Iardino, che dell’associazione è presidente oltre che consigliera comunale a Milano

“E’ molto umano pensare che prima c’era l’Aids, e ora c’è Ebola. Una specie di turn over tra virus. Aut-aut. Ma le cose non funzionano così. Ebola c’è, e continua a esserci anche l’Hiv. Et-Et”.

“Soprattutto” dice Iardino “si è totalmente smobilitato sul fronte dell’informazione e della prevenzione. Se oggi vai in una scuola per parlarne con i ragazzi ti dicono che l’Aids è una malattia africana. Non ne sanno più niente. Non sanno come ci si contagia e come ci si protegge. Le informazioni sono state completamente dimenticate. Tant’è che anche nella comunità omosessuale, che sull’Hiv era la più informata e quindi la più protetta, il numero dei contagi è in crescita, l’80 per cento dei casi da rapporti sessuali senza protezione”.

Il fatto è di Ebola si muore in 3 settimane o poco più, mentre con l’Aids si convive.

Si continua a morire di Aids, anche se molto meno. Ma l’Aids ha un’incubazione di 10 anni. Se non scopri per tempo la tua sieropositività, arrivi in ospedale già con i sintomi. E comunque i farmaci che devi assumere per controllare la malattia sono molto pesanti. Io  per mia fortuna non ho patologie correlate e sono aiutata da un temperamento combattivo, ma da 30 anni assumo 4 pastiglie di antiretrovirale al giorno, con problemi ai reni, al fegato, alle ossa. E’ una malattia grave, non un’influenza. E costa moltissimo al sistema sanitario nazionale: per ogni persona sieropositiva si spendono in media 12 mila euro l’anno. Una campagna informativa e la distribuzione di profilattici costerebbe infinitamente meno, senza contare i costi del disagio sociale”.

E invece?

“Invece su questo il Ministero per la Salute ha totalmente smobilitato. La Commissione Nazionale sull’Aids non si riunisce nemmeno più. E’ un gravissimo errore. Si deve riprendere a informare, soprattutto i giovanissimi che non ne sanno più nulla e hanno abbassato la guardia a zero“.

L’esperienza sull’Aids può servirci sul fronte Ebola?

“Certamente. Anzitutto ci insegna che i virus non si combattono con le ideologie: Ebola non è una malattia dei neri così come l’Aids non è una malattia degli omosessuali e dei tossicodipendenti. Sull’Hiv abbiamo cominciato a ottenere risultati quando ci siamo tolti i paraocchi ideologici. Ideologia + panico ti fa commettere gravi errori. Ieri a Milano è stata sospesa un’udienza e sbarrata l’aula quando l’imputato, un ghanese, ha accusato un malore. L’ospedale ha accertato che non si trattava di Ebola. Il rischio è che ogni nero venga visto come un untore, che parta una caccia al migrante (chi arriva sui barconi generalmente è in viaggio da mesi, se avesse Ebola non arriverebbe vivo, ndr) Quel tipo di discriminazione l’ho provata sulla mia pelle, e so che aggrava i problemi, non contribuisce a risolverli. Il virus va dove trova la porta aperta, non guarda se sei bianco o nero”.

Che cosa si dovrebbe fare, invece?

“E’ stato e continua a essere un grave errore portare in Europa gli occidentali che si sono ammalati  nei Paesi africani dov’è in corso l’epidemia, come Sierra Leone e Liberia. Si dovrebbero istituire task force che vanno a curare i malati in loco. E poi ci vogliono accurati controlli in entrata: chi arriva da quei Paesi dev’essere attentamente monitorato per almeno 3 settimane, che è il tempo di incubazione di Ebola. O sospendi i voli in ingresso, o istituisci la “quarantena”. E poi gli ospedali: con i pesanti tagli alla sanità è difficile che i reparti di malattie infettive riescano a garantire le misure di sicurezza necessarie”.

Poi c’è il tema dei farmaci.

“Non se ne sa nulla: che cosa sta facendo l’Azienda del Farmaco? C’è un caso americano in cui un certo cocktail di farmaci ha funzionato: se ne può sapere di più? Non vorrei che si facesse l’errore di non curare gli africani con farmaci che hanno dimostrato di funzionare solo perché gli africani non hanno i soldi per pagarli. Se pensiamo di curare soltanto chi i soldi ce li ha non fermeremo la propagazione del virus”.

Chiudiamo sull’Aids.

Mi appello alla ministra Lorenzin perché si ricominci con le campagne di informazione e di prevenzione. Aver mollato sul fronte Hiv è stato un grave errore, che ci sta costando moltissimo“.

 

 

bambini, Corpo-anima, Politica, salute Settembre 4, 2014

Eterologa: varate le linee guida. Stessa pelle e donatore anonimo

Le Regioni hanno varato le nuove linee guida per la fecondazione eterologa. Questo consentirà ai centri pubblici e privati di erogare il servizio secondo norme equiparate e certe.

Restano a mio parere alcune problematicità che meriterebbero un dibattito parlamentare e una definizione per legge, e dimostrano il non riconoscimento del superiore diritto del minore:

1. il nascituro dovrà avere lo stesso colore di pelle dei riceventi: per quanto possibile si manterrà, cioè, lo stesso fenotipo della coppia in relazione al colore della pelle, dei capelli e anche rispetto al gruppo sanguigno. A me pare un’enormità: il figlio “eterologo” dovrà cioè essere “simil-omologo”, come, cioé, a cancellare (per maggiore comodità dei genitori) le modalità dell’origine, che invece il figlio ha il diritto di non vedere occultate o “mascherate”. O come ad allontanare il sospetto, nel caso il nascituro fosse di pelle diversa da quella dei genitori, di essere originato da un “tradimento” della madre. O come, infine, se si volesse affermare che per dei genitori bianchi è meglio evitare un figlio di pelle nera (e viceversa). I principi sottesi a questa decisione, che affermano un concetto di “comodo” che non ha niente a che vedere con lo slancio d’amore genitoriale, mi paiono del tutto incondivisibili.

2.  Il nato da eterologa avrà la possibilità di chiedere di conoscere l’identità del padre o madre biologici una volta compiuti i 25 anni di età: a questo punto il donatore viene ricontattato e, solo se è d’accordo, conoscerà il figlio biologico. Con l’eccezione di tale caso, il documento prevede l’anonimato del donatore: si potrà risalire a notizie relativi ad aspetti genetici del donatore solo per esigenze mediche del nato. La questione non può essere frettolosamente liquidata dalle linee guida, che dovrebbero limitarsi a fissare paletti essenziali. Come dicevamo qui, il tema dell’anonimato del donatore/trice è sensibilissimo e ha visto molti Paesi, partiti dalla non notorietà del genitore biologico, cambiare rotta in seguito ai frequentissimi ricorsi dei figli di eterologa. Concedere a 25 anni (e perché non alla maggiore età????) il diritto di conoscere le generalità del donatore (che difficilmente avrà cambiato idea sul proprio anonimato, e quindi non concederà il proprio consenso) è un arzigogolo che, di nuovo, mette in secondo piano i diritti del minore rispetto a quelli di chi lo ha chiamato al mondo. Sul tema dell’anonimato è necessario un approfondito dibattito del legislatore.

diritti, Donne e Uomini, salute Agosto 28, 2014

Aborto: il Governo non può fare obiezione di coscienza

La Procura di Genova ha aperto un’inchiesta sul caso di alcune ragazze ecuadoriane tra i 17 e 29 anni che hanno abortito assumendo Cytotec, un farmaco antiulcera.
Il farmaco, che provoca forti contrazioni uterine e può causare gravissime emorragie, è stato spacciato loro da due connazionali “guaritori”. Un altro filone di inchiesta riguarda alcune prostitute costrette dai protettori ad abortire con Cytotec. Le donne coinvolte potrebbero ricevere un avviso di garanzia per violazione della legge 194.
Le indagini della Procura sono scattate in seguito a segnalazione dell’ospedale di Lavagna: una giovane donna che in poco più di un anno si è presentata 14 volte al pronto soccorso con emorragie, subendo 4 aborti “spontanei” accertati. A quanto pare la ragazza ha assunto il farmaco come contraccettivo-abortivo. Insomma, “random”, in modo del tutto casuale, sia che fosse effettivamente incinta sia che non lo fosse.

Il Misoprostolo (commercializzato come Cytotec, Artrotec, Misodex, Misofenac) si acquista facilmente online, da farmacisti compiacenti, nei luoghi di spaccio. Esistono siti che spiegano le modalità d’uso. Il Ministero della Sanità stima intorno ai 40.000 casi le interruzioni clandestine, ma si tratta di stima in difetto: come dimostrano i casi genovesi, è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei” e sono quasi 200 i procedimenti penali aperti per violazione della legge 194. Dei 150 mila aborti spontanei verificatisi nel 2011 almeno un terzo –secondo lo stesso Ministero per la Salute- è attribuibile al “fai da te”.

Paradossalmente, l’aborto chimico “fai da te” con Misoprostolo può costituire un’alternativa meno rischiosa di altre -aborto con uso di ferri e altri mezzi, con pericolo di perforazione uterina, o praticato da terzi senza le necessarie garanzie igienico-sanitarie- in quei Paesi in cui l’interruzione di gravidanza non è legale. E’ invece senz’altro un pericolosissimo passo indietro in Paesi, come l’Italia, in cui la legge garantisce -o dovrebbe garantire- l’Ivg gratuita e assistita. Ma a causa della massiccia obiezione di coscienza del personale medico e paramedico (una media del 70 per cento, con punte fino al 90 per cento in Campania e oltre l’80 per cento in Lazio, Molise, Sicilia, Veneto e Puglia, e interi ospedali che non garantiscono il servizio: obiezione di struttura), la legge 194 è larghissimamente inapplicata. Violazione che nel marzo scorso ci è costata una condanna del Consiglio d’Europa.

Chi può si rivolge al privato: per esempio,delle 3776 IVG effettuate nell’ASL di Bari nel 2011, il 70 per cento è stato praticato in case di cura convenzionate, 3.000.0000 di euro nelle casse del privato in cui l’obiezione è poco significativa. Per chi non può c’è il fai da te. In tutti i casi, impedire a una donna di accedere ad aborto sicuro non le impedisce di abortire, pone soltanto a rischio la sua salute. Non poter abortire in ospedale non fa diminuire il numero degli aborti.

L’obiezione di coscienza non salva i bambini, ma rischia di far morire le donne.

Non è più rinviabile un intervento del Ministero per la Salute, che risponda al Consiglio d’Europa e garantisca l’applicazione di questa legge dello Stato. Al Governo non è consentita obiezione di coscienza, fatte salve le legittime convinzioni personali dei suoi membri. La legge 194 c’è e va applicata.

Una possibile soluzione l’abbiamo già indicata, ed è prospettata da una sentenza del Tar Puglia (14/09/2010, n. 3477, sez. II) secondo la quale “è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50 per cento per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50 per cento per medici specialisti obiettori”.
Opzione equa, ragionevole e praticabile che non violerebbe il diritto all’obiezione -garantito dalla Costituzione e dall’Europa- ma consentirebbe la piena applicazione della legge 194. E alle donne di non crepare di aborto.

 

bambini, Corpo-anima, Politica, salute Agosto 11, 2014

#Fecondazioneeterologa: il governo non rispetta la legge

A quanto pare il governo non intende rispettare la sentenza della Corte Costituzionale che rende praticabile anche nel nostro Paese la fecondazione eterologa. Si potrebbe anche dire così: prevale nel governo la contrarietà alla fecondazione eterologa, sentenza o non sentenza, e si cavilla per rinviarne l’applicazione sine die.

La ministra della Salute Beatrice Lorenzin aveva prospettato un decreto in tempi strettissimi, che avrebbe sostanzialmente integrato la legge 40 con alcune linee guida (max dieci concepimenti per donatore, limite d’età per i donatori, inserimento dell’eterologa nei Livelli essenziali di assistenza, registro nazionale dei donatori per la tracciabilità donatore-nato in caso di necessità per la tutela della salute del concepito, eccetera).

Il Consiglio dei ministri ha ritenuto invece di rinunciare al decreto e di reinviare tutta quanta la materia alla discussione parlamentare, con ciò intendendo che la fecondazione eterologa non sarà praticabile fintanto che il Parlamento non avrà deliberato su tutte le questioni aperte. Questo significa che nell’intento del governo la fecondazione eterologa di fatto resterà vietata, e presumibilmente per anni.

Potrebbe in questo modo crearsi un blocco non dissimile da quello che impedisce di fatto l’applicazione della legge 194: anche in quel caso la legge c’è ed è in vigore, ma resta sostanzialmente inapplicata a causa della massiccia obiezione di coscienza. In questo caso sarebbe la politica a obiettare, non calendarizzando la discussione sulla legge 40 e bloccando di fatto la fecondazione eterologa.

Il presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Tesauro ha un bel ribadire il fatto che la sentenza non ha creato alcun vuoto normativo, e che l‘eterologa si può fare da subito: la questione è politica, non tecnico-giuridica. La resistenza all’eterologa è fortissima, la maggioranza del governo non intende mollare e preferisce che si continui con il turismo procreativo (magari anche solo interregionale, visto che Regione Toscana ha già dato il via). Nel frattempo in alcuni centri privati in altre regioni italiane il servizio è già erogato, nel rispetto della sentenza della Consulta, con esiti quanto meno caotici e nuove presumibili battaglie legali.

La sentenza della Corte Costituzionale non lascia dubbi: la fecondazione eterologa non è più vietata nel nostro Paese, e vi si può ricorrere qui e ora. Le linee guida possono essere rapidamente ed essenzialmente aggiornate sul modello dei Paesi europei in cui l’eterologa è già consentita da tempo. Ma il governo non intende accettare questa sentenza.

Il dibattito parlamentare si potrebbe semmai esercitare su alcune questioni (sulle quali sarebbe inaccettabile che si legiferasse per decreto). Tra le altre:

• il tema sensibilissimo dell’anonimato del donatore e della donatrice (in molti Paesi europei, come in Gb, Svezia, Norvegia, Germania, Austria, Olanda da tempo si è passati dall’anonimato al non-anonimato, in particolare in seguito ai ricorsi presentati dalle associazioni dei nati da eterologa che hanno rivendicato il diritto di sapere)

• la possibilità di accesso alla fecondazione medicalmente assistita, oltre che per le coppie infertili, anche per le coppie non infertili ma portatrici di malattie genetiche e cromosomiche, con diagnosi preimpianto sugli embrioni

• la possibilità di revoca del consenso alla fecondazione medicalmente assistita con adottabilità degli embrioni non impiantati

• la possibilità di maternità surrogata solidale (utero non “in affitto”, ma “in prestito” per amore) nella trasparenza di relazione tra la coppia, la madre portatrice e il nascituro. Nel 2001 il Tribunale di Roma ha acconsentito all’uso solidale: una donna che ha condotto la gravidanza per conto di una coppia alla quale era affettivamente legata.

 

Il dibattito su questi e altri temi non osterebbe, comunque, all’immediata praticabilità della fecondazione eterologa.

 

Aggiornamento 18 agosto:

COMUNICATO STAMPA

IL TRIBUNALE DI BOLOGNA SMENTISCE IL MINISTRO: L’ETEROLOGA SI Può FARE SUBITO.

Accolto ricorso della coppia e ordinato al centro di PMA Sismer di effettuare l’eterologa

In un ricorso presentato innanzi al Tribunale di Bologna ormai oltre 3 anni fa una coppia chiedeva di praticare al centro di PMA SiSMeR di Bologna. In subordine veniva chiesto al Tribunale di Sollevare la q.l.c della legge. Il Tribunale non si pronunciava. Nel maggio 2014 , all’indomani della sentenza della Corte Cost. del 9 aprile con il quale veniva pronunciata la declaratoria di incostituzionalità della legge 40/04 in punto di divieto assoluto di PMA eterologa, veniva chiesto dall’odierna difesa che il giudice procedesse, venuto meno il divieto e precisato in sede di motivazioni dalla Consulta che nessun vuoto normativo si era determinato, ad ordinare al centro di PMA di eseguire la metodica eterologa.

In data 14 agosto il Tribunale di Bologna emetteva ordinanza con la quale accoglieva le richieste dell’attore per le seguenti motivazioni:

A)    LA PMA Eterologa è una species di quella omologa  

La Corte costituzionale ha avuto cura nel ribadire che quella di tipo eterologo è una specie di tecnica appartenente allo stesso genere (la procreazione medicalmente assistita) delle altre, di tipo omologo: dunque, va anch’essa ricondotta al quadro normativo delineato dalla l. 19 febbraio 2004, n. 40.

In altri termini, la PMA di tipo eterologo è oggi una delle tecniche consentite per realizzare le finalità previste dalla l. 19 febbraio 2004, n. 40 (cfr. l’art. 1, l. cit.).

Ciò significa, in primo luogo, che interventi di PMA di tipo eterologo possono essere realizzati solo nelle strutture autorizzate (artt. 10, 11, 12, 5° co., l. cit.) e nel rispetto delle disposizioni della l. n. 40/2004 concernenti i presupposti o requisiti oggettivi (art. 4, 1°) e soggettivi (art. 5) e dei principi di gradualità e del consenso informato (art., 4, 2° co.).

Sul punto, si vedano anche i rilievi svolti da Corte cost. n. 162/2004 (par. 11.1).”

B)   Non vi è vuoto normativo

 

Il Tribunale di Bologna, nel ricordare che la Regione Toscana ha emanato in proposito una regolamentazione tecnica di dettaglio che disciplina taluni aspetti del fenomeno in punto di presunto vuoto normativo da colmare con legge ricorda come la Corte Costituzionale nella sent 162/14 evidenzi quanto alla eccezione più volte sollevata, risulti del tutto

 

“ infondata l’eccezione di inammissibilità relativa al paventato <<vuoto normativo>>, la Corte costituzionale è stata chiara nell’escludere <<nella specie>> (ossia, con riferimento ai casi concreti sottoposti alla sua attenzione, del tutto assimilabili a quello qui in esame) l’esistenza di incolmabili lacune concernenti la regolamentazione essenziale (<<i profili di più pregnante rilievo>>) dell’accesso alla PMA con donazione di gameti, sia quanto ai presupposti che quanto agli effetti.

Al contrario, essa ha affermato, da un lato, che <<nella specie sono […] identificabili più norme che già disciplinano molti dei profili di più pregnante rilievo, anche perché il legislatore, avendo consapevolezza della legittimità della PMA di tipo eterologo in molti paesi d’Europa, li ha opportunamente regolamentati, dato che i cittadini italiani potevano (e possono) recarsi in questi ultimi per fare ad essa ricorso, come in effetti è accaduto in un non irrilevante numero di casi>> e, dall’altro, che <<non>> vi sono <<incertezze in ordine all’identificazione dei casi nei quali è legittimo il ricorso alla tecnica in oggetto>>.

Si rimanda alla motivazione di Corte cost., n. 162/2014, paragrafi 10, 11, 11.1, 12.

Oltre alle disposizioni della legge 40/04 vengono richiamate i D.Lvi 191/07 e 16/10 componendosi un quadro normativo che non abbisogna di integrazioni in punto di stoccaggio, trasferimento , conservazione, privacy e anonimato del materiale genetico donato

Nei limiti della compatibilità, in ipotesi di PMA con donazione di gameti (salva l’introduzione di una nuova e specifica disciplina) troveranno dunque applicazione le vigenti disposizioni in tema di donazione di cellule riproduttive anche se non proveniente da un partner (si applicheranno dunque i criteri di selezione del donatore di tessuti e/o di cellule e si eseguiranno gli esami di laboratorio richiesti per i donatori in generale), ma pur sempre nel rispetto dei requisiti soggettivi fissati dall’art. 5, l. n. 40/2004 (cfr. l’art. 2, 1° co., lett. b), d. lgs., n. 16/2010)”.

C)     I pericoli invocati dal ministro (numero max  donazioni, esami genetici ed infettivi da effettuare sul donatore, etc ) non sussistono e sono demandati ad una disciplina attraverso disposizioni mediche e di dettaglio che in attesa delle Linee Guida possono essere individuate nei protocolli delle Società Scientifiche.

Quanto alle disposizioni tecniche e di dettaglio nel ribadire che non vi è necessità di una legge viene evidenziato che i centri dovranno attenersi alle direttive mediche più “aggiornate e accreditate” cioè elaborate dalle società scientifiche e contenute nei protocolli medici internazionali. Dunque in attesa delle Linee Guida ministeriali che sono la sede per disciplinare gli aspetti tecnici della metodica i centri di PMA in Regione Toscana dovranno attenersi alle direttive mediche allegate alla Delibera fuori dalla Regione Toscana dovranno rifarsi alle linee guida emanate dalle società scientifiche

“Nessuna incertezza sorge in ordine allo status del nato Ciò non toglie che debba darsi attuazione al diritto riconosciuto da Corte cost., 10 giugno 2014, n. 162, applicando laddove necessario le norme in materia di donazione di tessuti o cellule. Nessuna incertezza può sorgere in ordine allo status del nato da PMA eterologa (è figlio della coppia che ha espresso la volontà di accedere alla PMA) e all’assenza di relazione parentale rispetto al donatore di gameti. Oltre al novellato art. 8, l. n. 40/2004, si veda l’art. 9, 3° co., che nella sua attuale formulazione così dispone: <<In caso di applicazione di tecniche di tipo eterologo in violazione del divieto di cui all’articolo 4, comma 3, il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto né essere titolare di obblighi>> (estranea al tema qui in esame è la particolarissima vicenda trattata da Trib. Roma, ord. 8 agosto 2014). A garanzia del nascituro, una volta divenuto persona, erano già previste le speciali misure di cui all’art. 9, 1° e 2° co. (divieto del disconoscimento della paternità e dell’anonimato della madre) nel segno della autoresponsabilità di chi accede alla PMA.

Restano fermi il divieto di commercializzazione di gameti o embrioni e il divieto di surrogazione di maternità (art. 12, 6° co., l. n. 40/2004) ed il divieto di selezione a scopo eugenetico degli embrioni o dei gameti (art. 13, 3° co., lett. b)) (v. anche il passaggio di Corte cost., n. 162/2014 al par. 9).

D)    Preso dunque atto della natura di diritto fondamentale della persona (salute art 32 cost) autodeterminazione art 13 cost)  della pretesa di eseguire la PMA eterologa, il Tribunale afferma

“il diritto dei ricorrenti a ricorrere alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo secondo le migliori e accertate pratiche mediche;

autorizza la società convenuta ad applicare la tecnica richiesta dalla coppia ricorrente nel rispetto delle disposizioni richiamate in motivazione e delle più aggiornate ed accreditate conoscenze tecnico-scientifiche in materia di PMA con donazione di gameti;

In conclusione

Dopo il presidente Tesauro anche il Tribunale di Bologna conferma che non vi è alcun vuoto normativo, che non vi è un pericolo medico sanitario né di anonimato o compatibilità genetica tra nato e donatore. Dunque posto che le norme tecniche e di dettaglio inerenti n di donazioni ed esami da effettuare hanno natura medica, esse dovranno essere contenute in atti amministrativi, Linee Guida (Statali e/o Regionali), e non in inutili leggi. In loro assenza i centri di PMA potranno comunque eseguire la PMA eterologa seguendo le Linee Guida elaborate dalle più accreditate organizzazioni scientifiche.

 

diritti, italia, salute Luglio 31, 2014

#save194: come farla funzionare (nonostante l’obiezione di coscienza)

Come saprete il Consiglio d’Europa ha recentemente condannato L’Italia che “a causa dell’elevato numero degli obiettori di coscienza viola i diritti delle donne che alle condizioni prescritte dalla 194 del 1978 intendono interrompere la gravidanza”. Al momento nessuno sembra occuparsene, ma la sentenza ci obbliga a trovare una soluzione.

La legge 194 è una buona legge, che ha consentito dagli anni Ottanta una riduzione del 54 per cento delle Ivg. Ma oggi
è sostanzialmente inapplicata a causa delle altissime percentuali di obiezione di coscienza del personale medico e paramedico: 70 per cento con punte fino al 90 in Campania e oltre l’80 in Lazio, Molise, Sicilia, Veneto e Puglia, e interi ospedali che non garantiscono il servizio (obiezione di struttura). Anche l’attività dei Consultori si è fortemente ridotta: diminuisce il numero (per esempio, in Lombardia si è passati dai 335 Consultori del 1997 agli attuali 216) e viene depotenziata la loro azione.

A ciò si accompagna una vivace ripresa di iniziativa del Movimento per la Vita, in Italia e in Europa, oltre al proliferare dei cimiteri dei non-nati, con cerimonie di sepoltura dei prodotti abortivi (è bene ricordare che il diritto di seppellire i feti di qualunque età gestazionale è già garantito da un decreto presidenziale del 1990. Non vi è quindi alcuna necessità, se non ideologica, di istituire cimiteri dedicati).

La massiccia obiezione è causa di un ritorno all’aborto clandestino (il Ministero della Salute stima 40.000 interruzioni clandestine, numero in difetto perché nelle ostetricie è in costante aumento il numero degli “aborti spontanei”: dei 150 mila aborti spontanei verificatisi nel 2011, almeno un terzo, secondo lo stesso Ministero è attribuibile al “fai da te”, aborti non completi eseguiti in cliniche fuorilegge o provocati con farmaci reperibili sul Web o in farmacie compiacenti).
Altra conseguenza, il turismo abortivo: migrazioni interne, dal Veneto in Emilia Romagna dove la legge funziona meglio, dal Lazio in Toscana, e così via. Cresce anche il business dell’aborto: per esempio, delle 3776 IVG effettuate nell’ASL di Bari nel 2011,  il 70 per cento è stato praticate in case di cura convenzionate. Il DRG per IVG ammonta a una cifra tra i 1100 e 1600 Euro. Questo significa 3.000.0000 di euro nelle casse del privato (dove l’obiezione è poco significativa).

Perché si obietta tanto? Per ragioni di carriera. Per evitare carichi di lavoro economicamente e professionalmente non remunerativi. Per sindrome da burnout: da non obiettore si diventa obiettore per stanchezza e per le difficoltà connesse a un lavoro che ti pone costantemente di fronte a questioni etiche. Per motivazioni religiose, anche se gli obiettori di coscienza poi sono disponibili a effettuare villocentesi e l’amniocentesi, anche in strutture private convenzionate confessionali dove si pratica l’obiezione di struttura. E tutti sappiamo che amniocentesi e villocentesi sono la “conditio sine qua non” dell’aborto terapeutico.

L’obiezione di coscienza è un diritto garantito dall’articolo 9 della legge 194, che è una legge a rilevanza Costituzionale. E’ garantito anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, laddove sancisce che “gli stati membri sono tenuti a organizzare i loro servizi sanitari in modo da assicurare l’esercizio effettivo della libertà di coscienza dei professionisti della salute”.
Ma se il diritto alla obiezione deve essere garantito, la Corte di Strasburgo chiarisce che ciò non deve impedire ai pazienti di accedere a servizi a cui hanno legalmente diritto (sentenza della Corte del 26.5.2011). L’Europa quindi sostiene la necessità che lo Stato preveda l’obiezione a condizione che non ostacoli l’erogazione del servizio.

Il diritto all’obiezione di coscienza non può quindi essere negato. Questo diritto è garantito dall’art 3 della nostra Costituzione, dall’articolo 9 della 194 e dall’Europa.
Come si fa, allora, a far funzionare la legge? Nemmeno la mobilità del personale è una soluzione. I medici non obiettori sono pochissimi. Costringerli alla mobilità su più strutture significherebbe “condannarli” a eseguire esclusivamente aborti, negando il resto della loro professionalità.
Molte regioni italiane risolvono il problema chiamando medici non obiettori “a gettone” per garantire la 194, retribuendoli in modo cospicuo: ma non si possono fare soldi sulla pelle delle donne.

Che cosa si può fare, allora?
Ogni reparto di ostetricia dovrebbe prevedere il 50 per cento di medici e paramedici non obiettori, con presenza H24 di un’équipe che garantisca l’intera applicazione della legge 194, dalla prescrizione della pillola del giorno dopo all’aborto terapeutico,consentendo così la rotazione del personale medico e paramedico.

Come si può garantire il 50 per cento di non obiettori?

La strada è tracciata da una sentenza del TAR Puglia (14/09/2010, n. 3477, sez. II) nella quale si afferma che:
“ è possibile predisporre per il futuro bandi finalizzati alla pubblicazione dei turni vacanti per i singoli Consultori ed Ospedali che prevedano una riserva di posti del 50 per cento per medici specialisti che non abbiano prestato obiezione di coscienza e al tempo stesso una riserva di posti del restante 50 per cento per medici specialisti obiettori”.
Opzione equa, ragionevole e praticabile che non si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e consentirebbe la piena applicazione della legge 194.

Il TAR dell’Emilia Romagna ((sez. Parma, 13 dicembre 1982, n. 289, in Foro amm. 1983, 735 ss) chiarisce inoltre che “la clausola che condiziona l’assunzione di un sanitario alla non presentazione dell’obiezione di coscienza ai sensi dell’art. 9 risponde all’esigenza di consentire l’effettuazione del servizio pubblico per il quale il dipendente è assunto, secondo una prospettiva non estranea alle intenzioni del legislatore del 1978”.

(proposta congegnata insieme a Mercedes Lanzilotta)