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Molto interessante, qualche giorno fa sulla Stampa, un bilancio degli effetti della crisi sull’occupazione a firma dell’economista Luca Ricolfi. Se vi era sfuggito, ve lo ripropongo in sintesi.

La perdita di 400 mila posti in due anni, dice Ricolfi, ha colpito i gruppi sociali più forti: “Per operai e impiegati i nuovi posti di lavoro hanno sostanzialmente eguagliato i posti di lavoro perduti… Per i lavoratori indipendenti, invece, le chiusure di attività hanno largamente superato le aperture, con un saldo negativo di 402 mila unità”. Quindi la crisi non ha colpito le fasce più deboli.

Ma la cosa sorprendente, nota Ricolfi, è questa: gli oltre 400 mila posti di lavoro perduti sono il saldo fra un crollo per gli italiani (quasi 800 mila posti di lavoro in meno) e un sensibile aumento per gli stranieri regolari (quasi 400 mila posti di lavoro in più)”. E  perché la crisi colpisce di più gli italiani? Spiega Ricolfi: “Il nostro sistema economico riesce a creare quasi esclusivamente posti di lavoro poco appetibili, che gli italiani rifiutano e gli stranieri accettano… Non per la ragione che molti immaginano, però, ossia a causa della bassa qualificazione degli stranieri. Il livello di istruzione degli stranieri è analogo a quello degli italiani (10,2 anni di studio contro 10,9). La differenza è che «loro» vivono in un altro tempo, che noi abbiamo dimenticato. Un tempo in cui l’importante era avere un lavoro, non importa quanto adeguato alla nostra immagine di noi stessi, un tempo in cui fare sacrifici era normale, un tempo in cui il benessere non era considerato un diritto”.

Bell’e che smontato l”argomento retorico e xenofobo secondo il quale “gli stranieri ci portano via il lavoro” -ammesso che ci lo usa ci abbia mai creduto davvero-. Quello che “ci portano via” è il lavoro che noi ci rifiutiamo di fare. Ed è su questo che vorrei riflettere con voi: dovremmo sentirci in colpa per le nostre “pretese”? Dovremmo ridimensionarci -downshifting, detto in modo chic- e scalare marcia?

Mi viene in mente la signorina snob di Franca Valeri: “Pronto, mamma? Ho deciso di cercarmi un lavoro. Ma una cosina fine…”.

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