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femminicidio, questione maschile Agosto 13, 2013

Non basta un decreto a fermare gli #stalker

Vittorio Ciccolini, penalista veronese, stalker e femminicida

Terribile giornata di violenza sessista, ieri.

A Genova una donna è stata gravemente ustionata con l’acido da un uomo all’interno dell’ospedale dove lavorava. Rischia di perdere un occhio.

Ad Avola Antonella Russo è stata uccisa a fucilate dal marito, padre dei suoi 3 figli, dal quale viveva separata. L’uomo si è poi suicidato. La donna viveva da tempo a casa della madre, lui la perseguitava.

Ma è soprattutto il femminicidio di Lucia Bellucci, 31 anni, a Verona, che pare costituire una prima tragica risposta al decreto antiviolenza recentemente varato dal governo Letta, e delle cui criticità avevamo parlato qui.

Vittorio Ciccolini, 45 anni, assassino confesso, è un noto penalista del foro veneto. Lei lo aveva lasciato da un anno, lui non si dava pace. C’era stata una denuncia per stalking. Dopo una cena a due –gravissimo errore, anche la donna di Avola era stata convinta dal marito a una “passeggiata”: non farlo, mai!- lui l’ha strangolata e pugnalata al cuore. Il corpo è stato ritrovato nella Bmw di Ciccolini, parcheggiata nel garage della madre.

Il caso veronese è esemplare perché l’avvocato  femminicida era perfettamente consapevole, mentre perseguitava la sua ex, di adottare un comportamento penalmente rilevante. Ed era certamente più informato di tutti noi dell’aggravio di pena disposto dal decreto. Tutto questo non è bastato a fermarlo e a interrompere la classicissima escalation dallo stalking al femminicidio.

E che cosa avrebbe potuto fermarlo? Verosimilmente solo due cose, in alternativa: che la ex avesse ceduto alle sue pressioni tornando con lui; che un terapeuta lo avesse accompagnato nell’accettazione e nell’elaborazione del lutto costituito dall’abbandono.

Un uomo che uccide la donna che lo lascia è come un neonato di 80 chili che agisce le sue fantasie distruttive contro la madre che minaccia di togliergli il seno e abbandonarlo a morte sicura. Un uomo che uccide la donna che lo lascia si sente destinato a morire, separato dal corpo di lei che lui percepisce come un tutt’uno con il proprio corpo, senza soluzione di continuità (ecco infatti spesso, dopo l’omicidio, il suicidio, a raffigurare questa inseparabilità). Un uomo che uccide la donna che lo lascia non ha mai portato a termine quel processo di individuazione-separazione dalla madre che si dovrebbe compiere entro i primi tre anni di vita, permanendo in una fusionalità patologica.

Lo stalking funziona come una droga per attenuare la sofferenza. Finché alla fine non basta più.

E’ difficile che uno stalker smetta da solo. Non è difficile che l’esito dello stalking sia il femminicidio. Come dicevamo qualche giorno fa, solo un percorso terapeutico obbligatorio, eventualmente alternativo alle pene detentive, può disinnescare la bomba. Ma di tutto questo nel decreto Letta non c’è traccia.

Molte fra noi si occupano di questi temi da decenni. E’ davvero incredibile che il governo Letta di tutta questa sapienza non si sia voluto giovare.

 

 

Donne e Uomini, questione maschile Dicembre 9, 2012

Gli stalker non smettono da soli

Lo stalker è un addicted. La persecuzione della vittima è la sua droga, è ciò che dà senso alle sue giornate. Non farà che pensare a quello: come, quando, dove mettere in atto violenze e molestie. In una buona percentuale di casi, lo stalking avrà un esito mortale.

Lisa Puzzoli, 22 anni, udinese, ultima vittima di femminicidio, aveva denunciato tre volte il suo ex compagno, che l’altro ieri l’ha accoltellata a morte. In 7 casi su 10, il femminicidio è stato preceduto da un periodo di stalking.

Difficilmente lo stalker smetterà da solo. Le denunce non bastano a farlo retrocedere. Spesso, anzi, funzionano come un eccitante, alzando il livello della sfida. E i tempi della giustizia sono troppo lenti per fare fronte a situazioni che richiedono procedure d’emergenza: c’è una vita -spesso più d’una- di mezzo.

Serve lo strumento della custodia cautelare. Accompagnato dall’obbligo di intraprendere un percorso terapeutico serrato. Possono passare molti mesi prima che uno stalker riesca a dare il nome di violenza ai propri atti persecutori, e a cominciare l’elaborazione.

La violenza sulle donne va combattuta con ogni mezzo, e la terapia è uno di questi. Servono fondi ad hoc, che finanzino anche punti di ascolto e di accompagnamento per quegli uomini che, incapaci di affrontare un abbandono o di gestire un conflitto emotivo, si sentano tentati dalla violenza.

In questo precisa domenica mattina, decine di migliaia di donne italiane sono impegnate a tenere a bada il mostro che le perseguita o camminano in punta di piedi nelle loro case per evitare che la bomba esploda. Tra loro ci sono le prossime vittime.

C’è una strage in atto, e non si può più aspettare.

 

Donne e Uomini, esperienze, femminicidio, questione maschile Maggio 25, 2012

Violenza: il fra-uomini che guarisce

 

 

Con un nodo alla gola leggo oggi sul Corriere (e su 27 ora) il racconto che alcuni uomini violenti fanno su se stessi. Mi era già capitato di ascoltare narrazioni di violenti e sex-offender, sono anni e anni che mi interrogo su queste cose. Ma fa un altro effetto leggerle sul giornale che ti entra in casa da quando eri bambina. Vuole dire che qualcosa sta capitando.

Si vede che un passaggio di autocoscienza è avvenuto. Quegli uomini riconoscono come violenti i loro gesti, non si consentono scusanti tipo: io non sono violento, ma “lei mi esaspera”, “mi fa andare fuori di testa”. Vanno alla ricerca di spiegazioni su di sé per uscire di lì, per imparare a gestire l’inevitabile conflittualità  della relazione. Non considerano più un fatto naturale i loro schiaffi, i loro strattonamenti, le loro minacce, il loro stalking.

La gran parte degli uomini violenti è ferma su questa soglia. Molti, probabilmente, percepiscono che il gesto violento è sempre uno scacco nella relazione, una manifestazione di impotenza, e sanno che la loro storia prima o poi finirà a causa di questo. Anche in extremis: oggi ci sono anche tante ultrasettantenni che decidono di sottrarsi al loro compagno-aguzzino.

Ma mettono la testa nella sabbia e tirano avanti un altro po’: almeno finché lei saprà sopportare, finché non avrà accumulato energia sufficiente a sottrarsi al gioco malato. Alternano gesti violenti a clamorose galanterie riparatrici: è la cosiddetta “luna di miele”. Un ciclo che per le nostre madri e le nostre nonne era infinito, e per noi invece a un certo punto si interrompe.

Molti probabilmente sarebbero finalmente disponibili a scartare, a non ripetere gli stop-and-go di sempre, a raccontarsi in un altro modo quella storia che si ripete sempre uguale -la narrazione è un momento imprescindibile-. A dirsi: quell’uomo violento di cui sto leggendo sul Corriere di oggi sono IO. Mi riconosco. Ma se volessero fare qualcosa, come potrebbero? Da soli non si può. Dove andare? con chi parlare? Difficilissimo trovare gli interlocutori. Non c’è solo la grande resistenza maschile a “patologizzarsi” e “medicalizzarsi” (quasi tutti vedono in questo modo il ricorso alle terapie della parola). C’è anche l’indisponibilità a mostrarsi all’altro nella propria debolezza e vulnerabilità, dopo avere capito che si picchia per impotenza e per paura. Ma soprattutto mancano gli interlocutori.

L’ho già detto qui, e insisto: sarebbe necessario moltiplicare sul territorio e capillarizzare le possibilità di accoglienza, di contatto e di scambio. Forse la rete dei medici di famiglia potrebbe essere sensibilizzata e formata per una primissima risposta di orientamento. Ma non credo che basti. Non sono un uomo, ma mi pare che la possibilità vera stia soprattutto nella relazione, in un fra-uomini a cui si devono dare occasioni. In una relazione non istituzionalizzata, quindi già definita nella sua disparità, ma in una relazione vera, in cui ciascuno rischia e si mette in gioco.

La cosa più vicina che mi viene in mente è la verità del rapporto tra il balbuziente Giorgio V e il suo “logopedista” (“Il discorso del re”): un non-re e un non-medico che “guariscono” insieme dai loro mali, dalle loro paure e dai loro scacchi, giocandosi interamente nella relazione che li lega.

Ci vorrebbe forse una cosa così?